Demansionamento illegittimo: onere della prova e tipologie di danno risarcibile

16 Maggio 2024

Un lavoratore demansionato adiva il Tribunale prima, la Corte d'Appello poi, per vedersi risarcire il danno subito a causa del demansionamento illegittimamente disposto. Tuttavia, i primi due organi giudicanti respingevano le pretese attoree, sulla base del criterio della ragione più liquida, per mancata dimostrazione del danno in concreto sofferto. La Corte di Cassazione ribaltava la doppia conforme, ribadendo l'ormai consolidato principio secondo il quale la prova del danno da demansionamento può essere data dal lavoratore, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti.

MASSIME

Il danno da demansionamento non è in re ipsa e la sua prova può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione ed i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone.

Quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all'art. 1218 cod. civ., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Nel caso di specie, nel riaffermare l'enunciato principio, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la decisione gravata, in quanto la corte territoriale, nel respingere la domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente, la quale aveva lamentato condotte datoriali demansionanti fino alla cessazione del rapporto di lavoro, non aveva valutato, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata dell'adibizione alle mansioni di produzione, da comparare a quelle di natura impiegatizia precedentemente ricoperte, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo il corso di formazione ricevuto, i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone, tutte caratteristiche specifiche dell'attività svolta pur allegate nell'atto introduttivo del giudizio e suscettibili di valutazione ai fini dell'accertamento di un danno professionale, sia nel profilo di un eventuale deterioramento della capacità acquisita, sia nel profilo di un eventuale mancato incremento del bagaglio professionale).

IL CASO

La prova del danno da demansionamento può essere fornita anche solo in via presuntiva

La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda avanzata da un dipendente nei confronti della società datrice di lavoro, volta al risarcimento del danno da demansionamento, poi sfociato nella cessazione del rapporto di lavoro. I primi due giudicanti fondavano il rigetto della pretesa attorea sul criterio della ragione più liquida, non avendo il lavoratore allegato alcun profilo di danno in concreto patito a seguito del demansionamento, sull'assunto che la prova presuntiva del danno è cosa distinta dal danno in re ipsa.

La Corte di Cassazione accoglieva i due motivi di ricorso del lavoratore, richiamando il principio di legittimità secondo il quale il danno da demansionamento non è in re ipsa, tuttavia, la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti. A tal fine dovevano essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione.

Nel ricorso introduttivo del giudizio, il lavoratore aveva più volte ribadito la perdita di alcuni tratti qualificanti la sua professionalità, nonostante ciò, la Corte territoriale aveva ritenuto non allegato il danno, tramite una scorretta applicazione del procedimento presuntivo. Per tale ragione, la decisione dei Giudici di seconde cure veniva cassata con rinvio.

LE QUESTIONI

La sentenza in commento affronta precise questioni giuridiche, che ne richiamano ulteriori strettamente connesse. Le stesse possono essere così enumerate:

- l'onere della prova della legittimità del demansionamento ai sensi dell'art. 2103 c.c.;

- le tipologie di danno risarcibile, patito a causa del demansionamento;

- la prova presuntiva del danno da demansionamento.

LE SOLUZIONI GIURIDICHE

Su chi grava la prova dell'esatto adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 2103 c.c.?

Quanto alla soluzione della prima questione giuridica esposta, come è noto, laddove venga reclamato dal lavoratore un danno da demansionamento occorre preliminarmente verificare la sussistenza della violazione della norma di cui all'art. 2103 cc, prospettato dalla lavoratrice e, solo in caso di accertamento positivo, valutare la ricorrenza di un eventuale pregiudizio.

Attualmente il termine demansionamento indica l'adibizione del lavoratore a mansioni comprese in un livello di inquadramento inferiore, rispetto alla categoria e livello legale nel quale è inquadrato, rispetto a quello concordato all'interno del contratto individuale di lavoro o a quello corrispondente alle mansioni da ultimo comunque svolte (art. 2103 c.c). A tal proposito, l'art. 2095 c.c. distingue le categorie legali di lavoratori in dirigenti, quadri, impiegati e operai, e per ogni categoria sono presenti più qualifiche (art. 96 disp. att c.c.), intese quali raggruppamenti tipici di attività, che identificano una certa figura professionale (ad esempio tornitore, segretaria). La qualifica è normalmente contemplata dal contratto collettivo e l'appartenenza a una data qualifica comporta l'inquadramento in un determinato livello, inteso come gruppo più ampio (nello stesso livello sono contemplate più qualifiche), definito dai contratti collettivi e presupposto per l'individuazione del trattamento retributivo applicabile al lavoratore. Completa il quadro il d. lgs. 26.5.1997 n 152, che, nel prescrivere il diritto del lavoratore di ricevere comunicazione scritta (art. 1 co. 2) entro 30 giorni, circa “l'inquadramento, il livello e la qualifica oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro”, conferisce fondamento normativo ad una nozione, quella di livello, prevista dalla contrattazione collettiva.

Ciò premesso, il datore di lavoro, nell'ambito dei suoi poteri direttivi, può adibire il lavoratore a mansioni inferiori, ma solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge, ovvero dall'art. 2103 c.c., nella formulazione recentemente modificata dall'art. 3 d.lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) e nelle altre ipotesi previste dalla legislazione speciale.

L'art. 2103 c.c. legittima espressamente il demansionamento del lavoratore nei seguenti tre casi:

ove la modifica di assetti organizzativi aziendali incida sulla posizione del lavoratore, purché si tratti di assegnazioni a mansioni nell'ambito della stessa categoria pur se appartenenti ad un livello inferiore (art. 2103 co. 2 c.c.);

nel caso di previsione da parte del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro e sempre a condizione che si tratti di assegnazioni a mansioni nell'ambito della stessa categoria pur se appartenenti ad un livello inferiore (art. 2103 co. 4, c.c.);

nel caso di previsione da parte di un accordo individuale di modifica delle mansioni stipulato nelle c.d. sedi protette, che risponda all'interesse del lavoratore: alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle proprie condizioni di vita, in questo caso la modifica può determinare una diminuzione anche oltre il livello inferiore e anche oltre la stessa categoria legale (art. 2103 co. 6 c.c.).

La legge sanziona con la nullità gli atti ed i patti contrari alle previsioni dell'art. 2103 c.c. (art. 2103 co. 9 c.c.), ciò comporta l'illegittimità delle modifiche in pejus delle mansioni disposte in violazione del primo comma dell'art. 2103 c.c. e non conformi alle ipotesi espressamente previste dai commi 2, 4 e 6. Inoltre, la giurisprudenza ha da tempo equiparato alle ipotesi di demansionamento vietato anche i casi di svuotamento delle mansioni e della forzata inattività del lavoratore (Cass. civ., Sez. Lav., Sentenza, 09/02/2007, n. 2878; Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza 22/02/2003, n. 2763Cass. civ., Sez. lavoro, 22/02/2003, n. 2763; Cass. civ., Sez. lavoro Sentenza 14 novembre 2001, n. 14199). Infine, controlimite alla regola del divieto di demansionamento è costituito dall'ipotesi in cui l'assegnazione a mansioni inferiori riguardi mansioni marginali ed accessorie rispetto a quelle svolte con carattere di prevalenza dal lavoratore (Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza 10/06/2004, n. 11045; Cass. civ., Sez. lavoro, 2 maggio 2003, n. 6714).

Nelle ipotesi di demansionamento, come sopra individuato, il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente alla prestazione sospendendo ogni attività lavorativa, ove il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro), potendo - una parte - rendersi totalmente inadempiente e invocare l'art. 1460 c.c. soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte. L'adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può, difatti, consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte (cfr. Cass. 29 gennaio 2013, n. 2033; Cass. 20 luglio 2012 n. 12696; Cass. 19 dicembre 2008 n. 29832, Cass. 5 dicembre 2007, n. 25313). La Suprema Corte ha ritenuto il rifiuto della prestazione lavorativa una legittima forma di autotutela a fronte di un inadempimento datoriale che comprometta i beni personali del lavoratore (vita e salute), in violazione del dovere di protezione della persona del lavoratore, e che metta irrimediabilmente a rischio la sua incolumità (Cass. 30 novembre 2016 n. 24459; Cass. 19 gennaio 2016 n. 831; Cass. 7 maggio 2013 n. 10553).

Il demansionamento illegittimo, come ogni comportamento antigiuridico, determina, inoltre, l'insorgere di un obbligo risarcitorio per il datore di lavoro, ove sussistano perdite patrimoniali connesse allo svolgimento di mansioni inferiori, ma anche il danno derivante dalla lesione del complesso di capacità ed attitudini” che viene definito con il termine professionalità” (Cass. civ., Sez. lav., ord., 20 giugno 2019, n. 16595).

Ebbene, la Sentenza della Suprema Corte in commento ha annullato con rinvio la sentenza del Giudice di merito, che aveva rigettato la domanda attorea di risarcimento del danno da demansionamento direttamente in base alla insussistenza della prova del danno, visto che avrebbe dapprima dovuto interrogarsi ed accertare la sussistenza di un demansionamento e solo dopo, in caso di positiva verifica, avrebbe dovuto procedere allo step successivo, ossia alla verifica dei danni, conseguenti derivanti dalla condotta antigiuridica. Sic: “la Corte di rinvio ha effettuato erronea applicazione del principio della "ragione più liquida", dovendo, preliminarmente, verificare la sussistenza del demansionamento prospettato dalla lavoratrice e, in caso di accertamento positivo, valutare la ricorrenza di un eventuale pregiudizio”.

Se così stanno le cose si pone il problema della ripartizione dell'onere probatorio in merito al lamentato demansionamento. Ora, quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., incombe su quest'ultimo l'onere di provare l'esatto adempimento del proprio obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (v. Cass. n. 4766/2006; n. 4211/2016; v. in motivazione Cass. n. 1169/2018; n. 17365/2018; n. 22488/2019). Quindi, è onere della parte ricorrente allegare e provare gli elementi di fatto posti a fondamento della domanda (secondo il principio generale sancito dall'art. 2697 , comma 1, c.c.). Tali elementi di fatto consistono nel livello di inquadramento del lavoratore nella descrizione delle mansioni ad essa concretamente assegnate ed effettivamente svolte (ad esempio producendo il contratto individuale e gli ordini di servizio dai quali risultano le mansioni a lei concretamente assegnate, il relativo CCNL, nel quale sono contenute le declaratorie contrattuali corrispondenti ai vari livelli di inquadramento, comprese quelle relative al livello in cui viene inquadrato), mentre non è necessario che costui raffronti le mansioni a lui affidate con quelle previste dalla pertinente declaratoria del CCNL. Infatti, una volta dedotte le mansioni svolte, nonché il comparto e il livello di inquadramento, è dovere del giudice quello di porre a raffronto tali dati con la contrattazione applicabile, per verificare la fondatezza o meno dell'assunto, di cui consiste la domanda, secondo cui l'attività non sarebbe stata coerente con l'inquadramento formale (Cassazione Sezione Lavoro Ordinanza 6 febbraio 2024 n 4279.

Non essendo stata valutata in alcun modo tale questione dal Giudice di merito, la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza, aderendo al menzionato orientamento giurisprudenziale.

Il demansionamento: un fenomeno plurioffensivo.

Una seconda questione sulla quale preme soffermarsi, seppur non esplicitamente affrontata dalla sentenza in commento, attiene alle varie tipologie di danno risarcibile, una volta che sia stata accertata l'illegittimità del demansionamento ai sensi dell'art. 2103 c.c. Sul tema, una delle prime pronunce della Suprema Corte risale al 1992, quando veniva riconosciuto al lavoratore demansionato un diritto al risarcimento del danno subito, rappresentando la dequalificazione una “compromissione peggiorativa della c.d. capacità di concorrenza dell'individuo rispetto agli altri soggetti nei rapporti sociali ed economici” (Cass. civ., Sez. lavoro, 16 dicembre 1992, n. 13299). Detto principio diveniva via via più nitido con la sentenza del 18 ottobre 1999 n. 11721, tramite la quale veniva ribadito che il demansionamento professionale non appare solo idoneo a ledere la sfera patrimoniale del lavoratore, ma altresì il suo diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, con conseguente ed ulteriore danno alla sua sfera privata, comprensiva della salute e della vita di relazione del lavoratore.

D'altronde, ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro ha l'obbligo di tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore. All'interno del suddetto vasto obbligo datoriale non rientra solo il caso principe della tutela dagli infortuni sul lavoro, ma altresì l'obbligo di tutelare il lavoratore nella sua dignità professionale, costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma di estrinsecazione della personalità nel luogo di lavoro (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. del 5 ottobre 2004, n. 19899).

Un contrasto giurisprudenziale rimesso allo scrutinio delle Sezioni Unite del 2006

Per quanto riguarda la terza e principale questione, ovvero la modulazione dell'onere di provare l'esistenza del pregiudizio patito a causa del demansionamento, occorre sin da ora sottolineare che, nel 2006, con la nota sentenza n. 6572, il tema è divenuto oggetto dello scrutinio delle Sezioni Unite, a fronte dell'esistenza di un contrasto giurisprudenziale tra due principali orientamenti. Secondo un primo filone, in caso di demansionamento o di dequalificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello cd. esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, conseguiva in re ipsa al demansionamento.

Un secondo orientamento, diversamente, riteneva che il diritto del lavoratore al risarcimento del danno fosse subordinato all'assolvimento, da parte del lavoratore, dell'onere di provare l'esistenza del pregiudizio.

Nello specifico, la prima linea interpretativa faceva aggio sull'assunto per cui: “In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l'ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto”.

Di segno contrario, il secondo indirizzo si faceva portavoce della seguente teoria: “Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere a d una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 cod. civ.". Sulla base dell'appena citato orientamento, trovavano conferma tutte quelle sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno in tutti quei casi in cui la dequalificazione veniva fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, i pregiudizi di ordine patrimoniale e non patrimoniale subiti non erano stati precisati, gli elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale non erano stati forniti.

Le varie categorie di danni risarcibili, sofferti a causa del demansionamento illegittimo

Una volta accertata l'illegittimità del demansionamento, il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno per gli interessi giuridicamente rilevanti risultati lesi.

In un primo momento, il danno conseguente al demansionamento illegittimo veniva generalmente denominato “danno alla professionalità”, categoria unitaria e onnicomprensiva, nella quale venivano ricondotti tutti i pregiudizi seppur di varia natura. Tuttavia, nel tempo, appariva sempre meno convincente la validità concettuale di una macrocategoria che abbracciasse tutti i vari pregiudizi legati tra loro solo perché derivanti dalla lesione dell'art. 2103 c.c. Ciò in quanto, sul piano concettuale, il demansionamento è idoneo a far sorgere plurimi danni e soprattutto di varia natura. In particolare, si sosteneva la nocività, per la tutela del danneggiato, di incorporare in un danno unitario sia aspetti patrimoniali che non. Infatti, l'individuazione del criterio di liquidazione dei vari pregiudizi, ancorato alla retribuzione del lavoratore demansionato, non permetteva di tenere in debita considerazione la sfera non patrimoniale, i cui parametri di valutazione inevitabilmente differivano rispetto alla componente di danno patrimoniale.

In tale solco, già tratteggiato in dottrina, si inseriva la nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 24 marzo 2006, n. 6572, che, facendo chiarezza, per la prima volta operava la doverosa distinzione tra danno patrimoniale derivante dal demansionamento, e quello non patrimoniale, il quale a sua volta veniva distinto in danno biologico, morale ed esistenziale. Così, nella sentenza in commento, il dipendente demansionato, nel ricorso introduttivo, aveva richiesto il danno professionale e patrimoniale subito, nonché il danno esistenziale e biologico. 

Il danno patrimoniale da demansionamento

Nella summenzionata sentenza, le Sezioni Unite individuavano il danno patrimoniale derivante dal demansionamento illegittimo “nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali”.

Occorre ora analizzare come il suddetto principio abbia poi trovato applicazione nei vari casi concreti. Fra le molte rileva Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 4 agosto 2017, n. 19600, che, pronunciandosi sul pregiudizio patrimoniale subito da un dipendente demansionato, così affermava: “tale pregiudizio non può essere riconosciuto se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio in ordine all'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo; analogamente, della perdita di chances, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, occorre la specificazione di quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, risultavano frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività”. Così, ad esempio, veniva riconosciuto il danno da perdita di chance ad un dipendente, trasferito dal settore delle relazioni sindacali del quale era responsabile, al dipartimento fondo pensioni, incompatibile con le sue acquisite competenze e professionalità. Ciò sulla base del fatto che, se non fosse stato demansionato, il lavoratore avrebbe acquisito l'esperienza e la maturità necessarie per poter raggiungere la qualifica superiore di dirigente “come era avvenuto per una significativa quota dei funzionari del suo grado a ridosso del periodo in considerazione” (si veda al riguardo Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 19 aprile 2012, n. 6110). L'appena citata pronuncia rileva altresì sotto il profilo della liquidazione del danno patrimoniale derivante dal demansionamento: come criterio di quantificazione del danno veniva utilizzato non già la retribuzione percepita dal lavoratore, ma quella che gli sarebbe spettata se, per la professionalità acquisita e la sua ulteriore valorizzazione, avesse conseguito la superiore qualifica di dirigente. Generalmente, il principio basilare in tema di liquidazione del danno patrimoniale da dequalificazione professionale, equitativamente determinato dal giudice, risulta essere il seguente, chiaramente riassunto dalla Corte d'Appello di Roma: “In caso di demansionamento è configurabile a carico del lavoratore un danno, costituito da un impoverimento delle sue capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, sicché per la liquidazione del danno è ammissibile, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione. Infatti, non può ritenersi privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno da violazione dell'art. 2103 c.c., posto che non può negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell'art. 36 Cost.) anche del contenuto professionale della prestazione. Dunque, l'entità della retribuzione ben può essere assunta, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall'annientamento delle prestazioni proprie della qualifica, alla luce della durata e del tipo della dequalificazione professionale subita e della compromissione della possibilità di accrescimento professionale e di avanzamento di carriera” (Cfr. Corte d'Appello Roma, Sez. lavoro, 7 novembre 2022, n. 3714).

Il danno non patrimoniale da demansionamento. Il danno esistenziale

Nell'altro emisfero risiedono i danni non patrimoniali, consistenti nella lesione di beni immateriali attinenti alla sfera personale del lavoratore. Questi ultimi sono stati rinvenuti nel danno esistenziale (modifica delle abitudini di vita), nel danno biologico (frustrazione delle aspettative in ordine al rapporto di lavoro che alle volte potrebbe culminare in gravi pregiudizi alla salute del lavoratore, come ad esempio stati di ansia o stress).

Con particolare riferimento al danno esistenziale, la Corte di legittimità ha ribadito più volte come esso debba essere inteso: “Ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l'espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”, chiarendo che lo stesso “si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso” (Cass. ss.uu. n. 6572/2006). A titolo esemplificativo, la Suprema Corte, nel 2021, veniva investita del caso di una vice direttrice di un ufficio postale, che, dopo essere stata assegnata a mansioni inferiori, ossia a compiti ridotti al mero controllo dello smistamento dei pacchi e ai riepiloghi mensili, era divenuta altresì vittima di numerose condotte mortificanti, quali: l'estromissione dalla commissione esaminatrice per un concorso interno e la sua sostituzione con un dipendente dell'area operativa, il parallelo avanzamento in carriera di dipendenti di qualifica inferiore, il silenzio datoriale in risposta alle sue richieste di adeguamento delle mansioni. Dinanzi a siffatta platea di condotte, i giudici di legittimità confermavano la sentenza di secondo grado, che, esaminando tali circostanze fattuali nel loro complesso, ravvisava la sussistenza del danno esistenziale, patito dalla lavoratrice (Così Cass. civ., Sez. lavoro, del 3 gennaio 2019, n. 21). È pacifico, inoltre, come nel danno esistenziale venga altresì fatto ricadere il danno all'immagine professionale, conseguente alla conoscibilità esterna dell'avvenuto demansionamento, anche ove limitata alla cerchia dei colleghi di lavoro. Si veda sul punto il caso affrontato da Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 03/05/2016, n. 8709, sul ricorso proposto da un lavoratore in materia di dequalificazione e demansionamento, per vedere cassata la sentenza di appello che condannava la datrice di lavoro a risarcirgli il solo danno non patrimoniale liquidato in euro 5.000, in relazione alla lesione della sua immagine professionale, ma respingeva le altre pretese risarcitorie avanzate in relazione al danno alla salute, alla professionalità, esistenziale, per perdita di chance. La società datrice, a sua volta, proponeva controricorso, contestando l'an ed il quantum riconosciuto a titolo di danno all'immagine professionale, sulla base del fatto che il demansionamento si sarebbe protratto per un periodo di tempo esiguo. Così la Corte: “non sussiste alcun vizio nel fatto che il risarcimento sarebbe stato accordato senza tener conto del periodo di concreta adibizione alla mansione. Intanto perché la censura è smentita dal contenuto della sentenza che invece si è fatto carico di tale accertamento, allorché ha evidenziato che le mansioni fossero state esercitate per poco tempo. Ma ciò non vale ad escludere la lesione ed il danno non patrimoniale liquidato in quanto il diritto all'immagine professionale del lavoratore, rinvenendo dal catalogo di quelli fondamentali ex art. 2 Cost., non può essere leso neppure per poco tempo. D'altra parte è pure logico che se viene meno la funzione di coordinamento prima svolta, il lavoratore subisce una innegabile lesione della propria considerazione professionale, quanto meno all'interno della cerchia dei colleghi che prima coordinava e di quelli che operavano nello stesso ambiente di lavoro”.

Rimanendo sul tema della rilevanza della durata del demansionamento, è interessante evidenziare come costantemente la Corte di legittimità, da un lato, ha specificato che la quantificazione del danno professionale può essere operata dal giudice di merito in via equitativa, tenendo conto dei soli giorni lavorativi in cui la professionalità è stata compromessa (così Cass., Sez. Lav., 9.9.2014, n. 18965); dall'altro lato, ha riconosciuto la risarcibilità anche in presenza di lesione di breve durata (cfr. Cass., Civ. Sez. Lav., 3 maggio 2016, n. 8709) (Cass. Civ. Sez. Lav. 21 marzo 2024 n. 7640).

Il danno biologico

Per quanto riguarda invece il danno biologico, si intende l'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile nel lavoratore, necessariamente in nesso causale con il demansionamento. Ponendo l'attenzione su un caso concreto, la Cassazione Civile Sezione Lavoro, con l'ordinanza del 21 marzo 2024 n. 7640, confermava la sentenza di seconde cure, che aveva condannato la datrice di lavoro a corrispondere un importo pari ad 1/3 della retribuzione netta percepita dalla dipendente per l'effettivo periodo di demansionamento (pari a mesi sei) a titolo di risarcimento del danno da dequalificazione professionale, nonché l'ulteriore somma di € 19.874,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale derivante dal demansionamento subito dalla lavoratrice. Nel caso di specie, infatti, la dipendente della BPER Banca Spa, a seguito del demansionamento, cominciava a soffrire di "Disturbo dell'adattamento con Ansia ed Umore depresso misti, Cronicizzato, di gravità clinica moderata”, malessere che, dalla CTU disposta, risultava eziologicamente promosso da una situazione occupazionale con stress lavorativo, con danno biologico nella misura del 10%.

Prima di proseguire, è opportuno precisare come la somma corrisposta a titolo di risarcimento del danno da demansionamento non costituisca imponibile fiscale ai sensi dell'art. 6 T.U.I.R. e contributivo. In particolare, si cita Cass. civ., Sez. V, Ordinanza, 27 marzo 2023, n. 8615: “In tema di risarcimento del danno da demansionamento, in applicazione del principio contenuto nell'art. 6, comma 2, del TUIR, occorre distinguere fra somme destinate a risarcire il danno inerente al mancato percepimento di un reddito da lavoro - le quali sono soggette alla medesima tassazione della componente di reddito che sono destinate a sostituire - e somme destinate a ristorare il danno non patrimoniale - da impoverimento della capacità professionale, con connessa perdita di "chances", biologico purché medicalmente accertabile, esistenziale, morale o collegato al pregiudizio all'immagine - che invece devono ritenersi esenti da tassazione; spetta al contribuente dimostrare che, nel caso concreto, le somme percepite sono collegate a questa seconda categoria di danni esenti”.

Ora, ci si chiede come i suddetti danni possano essere dimostrati dal lavoratore. La soluzione è ormai conclamata, e la sentenza in commento aderisce all'orientamento maggioritario ed ormai consolidato, tale per cui “La prova del danno da demansionamento e dequalificazione professionale può essere offerta dal lavoratore anche ai sensi dell'art. 2729 c.c. con l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti”.

La prova presuntiva del danno da demansionamento

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 6572/2006, dirimevano il contrasto giurisprudenziale aderendo alla linea interpretativa secondo cui “Dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. L'inadempimento, infatti, è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma”. Le Sezioni riunite concludevano sancendo la seguente regola di diritto: “Si rende indispensabile una specifica allegazione da parte del lavoratore, che deve in primo luogo precisare quali danni ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno”. Tuttavia, veniva precisato che “Il danno da demansionamento non è in re ipsa e la sua prova può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti”. Ebbene, la pronuncia in commento appare perfettamente aderente all'enunciato principio, nella parte in cui ritiene che: “Il danno da demansionamento non è in re ipsa e la sua prova può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti”. Aggiungeva, inoltre, che: “a tal fine possono essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione ed i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone”. Tale affermazione si appalesa sempre in linea con la giurisprudenza di legittimità, che, negli anni, ha via via elaborato gli elementi presuntivi del danno da demansionamento. Questi ultimi possono essere così enucleati:

a) la durata del demansionamento;

b) la gravità del demansionamento (si pensi a condotte maltrattanti);

c) l'evidente visibilità del demansionamento all'interno dell'azienda;

d) l'anzianità del dipendente. Tale consolidato principio giuridico si sposa perfettamente con la verosimile difficoltà in cui viene a trovarsi il lavoratore, di offrire la prova specifica dei pregiudizi subiti a seguito del demansionamento, essendogliene dunque concessa la dimostrazione in giudizio con tutti i mezzi offerti dall'ordinamento.

Tuttavia, la prova per presunzioni richiede almeno un'allegazione da parte del lavoratore, sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo. Venendo alle varie tipologie di danno, per quanto riguarda il pregiudizio patrimoniale, il lavoratore demansionato dovrà dedurre il precedente svolgimento di un'attività in evoluzione, dalla cui prosecuzione avrebbe tratto concreti vantaggi laddove non fosse stato addetto a mansioni inferiori; sotto il profilo del danno da perdita di chance, dovrà essere offerta prova in concreto, tramite l'indicazione delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno frustrate. Per quanto attiene al danno non patrimoniale, da un lato il danno biologico sofferto non potrà prescindere dall'accertamento medico legale; dall'altro lato, il danno esistenziale potrà essere provato per presunzioni, allegando come il demansionamento abbia leso l'equilibrio psico-fisico del lavoratore.

Osservando due casi pratici, rispettivamente di accoglimento e di rigetto delle pretese risarcitorie in ordine all'assolvimento dell'onere di allegazione del danno subito, come primo esempio si evidenzia Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 20 settembre 2016, n. 18405. Poste Italiane Spa ricorreva in Cassazione per contestare la sentenza di condanna al risarcimento danni nei confronti di un dipendente, per averlo adibito a mansioni non equivalenti a quelle di quadro da lui fino allora svolte nell'Ufficio x, con destinazione all'Ufficio y. La Cassazione confermava la sentenza di seconde cure nella parte in cui aveva ritenuto “che si era trattato di un grave demansionamento, durato a lungo nel tempo, nella totale indifferenza della filiale, non essendo mai stato utilizzato l'attore nelle mansioni di sua competenza, né riqualificato per diverse mansioni. Si era trattato, inoltre, di un demansionamento evidente agli occhi dei colleghi e del pubblico che accedeva all'ufficio, presumibilmente, data la sua posizione nel centro della città ed attesa la sua ampia operatività, frequentato anche da familiari e conoscenti dell'interessato. Ricorrevano, dunque, tutti gli elementi indicati dalla sentenza di Cassazione, come significativi a livello presuntivo in ordine alla sussistenza di danno derivato da demansionamento: gravità dello stesso con privazione dell'occasione di crescita professionale e di carriera, significativa durata, sua evidenza agli occhi dei colleghi e del pubblico, con riflessi altresì sulla serenità della vita familiare”. Tutte circostanze fattuali queste puntualmente allegate dal lavoratore (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 20/09/2016, n. 18405).

Epilogo diverso ha avuto la vicenda di una lavoratrice demansionata mediante assegnazione ad un team legale, in posizione subordinata rispetto ad un funzionario di qualifica inferiore, e con compiti di livello quantitativo inferiore rispetto a quelli precedenti. Tale condotta era stata poi corroborata dall'aver negato alla lavoratrice, per quasi due anni, la fornitura di un computer, per averla collocata in una stanza di anguste dimensioni, condivisa con un altro collega. Ebbene, la Corte d'Appello condannava la datrice di lavoro a risarcire il solo danno patrimoniale per l'accertata violazione dell'art. 2103 c.c., quantificandolo con riferimento al parametro della indennità di posizione. Al contempo, negava la liquidazione di ulteriori danni di natura non patrimoniale nei vari profili dedotti, ossia: biologico, esistenziale e morale. Si trattava di danni che non potevano ritenersi in re ipsa, occorrendo specifica allegazione e prova, che nella specie era mancata. La Corte di Cassazione confermava la pronuncia di secondo grado, sulla base delle seguenti conclusioni: “La ricorrente non aveva fornito la prova degli ulteriori danni. Dalle testimonianze raccolte in prime cure non era emerso alcun deterioramento delle relazioni in ambito lavorativo, sociale o familiare, a cui ricollegare un pregiudizio obiettivamente apprezzabile e causalmente derivante dai comportamenti denunciati. Era risultato smentito che alla condotta di demansionamento, e a quelle ulteriori quali la mancata assegnazione di una stanza o di un computer, fosse conseguito alcun danno all'integrità psicofisica dell'appellante. La consulenza medico legale svolta in appello aveva concluso nel senso della insussistenza di elementi probanti il nesso di causa tra le condotte inadempienti e il disturbo di tipo depressivo ansioso allegato dall'appellante. Il CTU rilevava, in particolare, che il disturbo dell'adattamento, nel quale veniva inquadrata la patologia della lavoratrice, ha nella maggior parte dei casi durata transitoria, precisando che la diagnosi di detto disturbo richiede che lo stesso sorga e si manifesti entro tre mesi dall'evento traumatico. Nel caso di specie, pur facendosi riferimento ad un demansionamento iniziato già negli anni 2000-2001, la prima certificazione che indicava una sofferenza psicologica era del 2007 e il riferimento della stessa a difficoltà dell'ambiente lavorativo era di natura meramente amnestica. Inoltre, non vi erano periodi significativi di assenza dal lavoro, mentre il disturbo in questione si traduce di regola nell'incapacità di rendere la prestazione lavorativa” (così Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 9 luglio 2018, n. 17978).

In conclusione, giova evidenziare come l'onere di specifica allegazione dei fatti, gravante sul lavoratore, risulta alleggerito laddove, a causa dell'inadempimento datoriale, “il lavoratore sia stato lasciato in condizione di totale inattività, senza attribuzione di mansioni e assegnazione di compiti; specie ove tale condizione di inattività, in assoluto contrasto con l'art. 2103 c.c., si sia protratta per molto tempo, costituendo in tal caso il danno sofferto dal lavoratore una conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità” (così Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 24 febbraio 2022, n. 6262).

OSSERVAZIONI

Nel caso oggetto la sentenza della Suprema Corte ha dovuto affrontare la seguente questione giuridica. Si è interrogata su chi grava l'onere della prova della legittimità del demansionamento ai sensi dell'art. 2103 c.c.; sulle tipologie di danno risarcibile, patito a causa del demansionamento e sull'onere della prova circa le conseguenze dannose derivanti dal demansionamento.

La questione nasceva da un provvedimento del giudice di merito, che in base al principio processuale della ragione più liquida (richiamato da Cass. Civ., Sez. Un., n. 9936 dell'8 maggio 2014)., andava dritto al punto della prova del risarcimento, rigettando la domanda avanzata da un dipendente nei confronti della società datrice di lavoro, non avendo il lavoratore allegato alcun profilo di danno in concreto patito a seguito del demansionamento. Ma in tal modo il principio processuale della ragione più liquida viene piegato per scopi che sono diametralmente opposti alle ragioni per il quale è stato coniato. Infatti, tale regola è declinazione del principio della ragionevole durata del processo ex art. 111, co. 2, Cost. ed è finalizzata a consentire al Giudice di pronunciarsi celermente sul giudizio, incentrando la sua pronuncia su d'una questione, d'agevole soluzione, pur essendo quest'ultima successiva, nella progressione logico giuridica, rispetto alle altre, rendendo, pertanto, superflua la necessità di pronunciarsi su tutte le altre.

Ma il principio della ragione più liquida non comporta di certo la semplificazione del metodo risolutivo della controversia, e la Sentenza in commento offre uno spunto in tal senso. Infatti, troppo frettolosamente il Giudice di merito aveva ritenuto non sussistente la prova del danno e quindi la domanda di risarcimento del lavoratore da rigettare.

La Suprema Corte ha ricordato che esiste un panorama giurisprudenziale ormai consolidato quanto alla prova del danno da demansionamento, che indica la possibilità di accedere alle presunzioni di cui all'art. 2727 cc., quale elemento dimostrativo del pregiudizio patito dal lavoratore. Ciò è logico per due ordini di ragioni, in primo luogo perché secondo il principio di vicinanza della prova è corretto che l'onere probatorio sia addossato sul soggetto più vicino alla prova, in questo caso il datore di lavoro, che ha precisa contezza dell'organizzazione aziendale e delle chances lavorative ivi presenti. In seconda analisi, per un comprensibile principio teso ad agevolare la parte debole del rapporto, ossia il lavoratore, ed è poi il fine primario del diritto del lavoro quello di tutela e di garanzia del prestatore di lavoro, che sarebbe frustrato dall'introduzione di una prova diabolica.

Ed allora, nell'arresto annotato si ribadisce che la prova del danno da demansionamento può essere data, anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, quali: la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione ed i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone. Allo stesso modo il prestatore di lavoro deve solo allegare il demansionamento, ma è poi sul datore di lavoro che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo cristallizzato nell'art. 2103 cod. civ.

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