Licenziamento disciplinare: discrezionalità del giudice del lavoro nella valutazione delle previsioni sanzionatorie previste dal contratto collettivo di lavoro

15 Maggio 2024

La Corte di Cassazione affronta un caso di licenziamento disciplinare. Il comportamento contestato al lavoratore è sanzionato dal contratto collettivo applicabile con sanzione conservativa, ma, al ricorrere di determinate condizioni, la recidiva viene valorizzata ai fini dell'applicazione della sanzione espulsiva. La Suprema Corte si esprime pertanto sul valore più o meno vincolante per il giudice delle previsioni della contrattualistica collettiva che elencano i provvedimenti disciplinari.

MASSIMA

Le previsioni contrattual-collettive sulle fattispecie punibili con il licenziamento disciplinare non sono tassative, ma solo esemplificative e quindi non vincolanti per il giudice, poiché la giusta causa è una nozione legale (art. 2119 c.c.). Viceversa, ai sensi dell'art. 12 legge n°604/1966 sono tassative e vincolanti per il giudice le previsioni contrattual-collettive sulle fattispecie punibili con sanzioni conservative.

IL CASO

Un licenziamento disciplinare fondato sull'allontanamento dal posto di lavoro prima della fine del turno

La sentenza in commento verte su un licenziamento con preavviso irrogato ad una lavoratrice per ragioni disciplinari.

Alla dipendente era stato contestato l'allontanamento dal posto di lavoro prima della fine del turno lavorativo; tale condotta si era prolungata lungo l'arco di tutto un mese. L'azienda aveva inoltre contestato la recidiva rispetto ad altre mancanze già sanzionate con provvedimenti disciplinari, puntualmente riportate nella lettera di contestazione.

La prestatrice di lavoro deduceva l'illegittimità del recesso sotto vari profili, lamentando tra l'altro che il contratto collettivo applicabile alla fattispecie (il CCNL imprese di pulizia e servizi integrativi / multiservizi) prevedesse, per inadempienze analoghe a quelle contestate nel caso specifico, una sanzione di tipo conservativo.

La lavoratrice dunque richiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro, alla luce della dedotta insussistenza del fatto contestato o comunque per essere il fatto addebitato sanzionabile con provvedimenti conservativi; in via subordinata chiedeva venisse dichiarata l'illegittimità del recesso per sproporzione rispetto all'addebito mosso, con conseguente applicazione delle tutele risarcitorie di cui all'art. 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori e, in via ulteriormente gradata, che venisse dichiarata l'illegittimità del licenziamento per violazione del procedimento disciplinare, con applicazione delle tutele di cui al comma 6 della disposizione testé citata.

LA QUESTIONE

La riconduzione della condotta contestata alle previsioni contrattuali che prevedono sanzioni conservative; l'interpretazione della norma del CCNL in tema di recidiva

Il Tribunale in funzione del Giudice del lavoro dichiarava l'illegittimità del licenziamento per violazione del procedimento disciplinare e sanciva la risoluzione del rapporto di lavoro, condannando il datore di lavoro al pagamento dell'indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura pari a dieci mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Successivamente la Corte d'Appello, in accoglimento del gravame proposto dalla lavoratrice, riformava la pronunzia del Giudice di prime cure, annullando il risarcimento ed ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro.

La Corte d'Appello rilevava che la sussistenza del fatto storico addebitato alla dipendente non era in discussione. La lavoratrice aveva effettivamente chiesto ad una collega di essere autorizzata a concludere il proprio turno di lavoro circa mezz'ora prima dell'orario stabilito; tuttavia, la medesima aveva incominciato ad assentarsi anticipatamente dal lavoro senza attendere che la datrice di lavoro prendesse posizione su detta richiesta e, tanto meno, senza che la parte datoriale avesse espresso il proprio consenso. In alcuni casi l'anticipazione della fine del turno era stata anche superiore ai trenta minuti di cui alla richiesta avanzata dalla ricorrente. Emergeva inoltre che non esisteva alcuna prassi aziendale secondo cui i prestatori di lavoro potessero decidere liberamente di uscire prima della fine del turno per fruire dei permessi maturati.

Nonostante l'inadempimento contrattuale fosse pacifico, secondo il Giudice dell'impugnazione la sanzione espulsiva decisa dall'azienda non poteva dirsi corretta. Il fatto addebitato, consistente nell'abbandono del posto di lavoro, era punito dal contratto collettivo applicabile alla fattispecie con sanzione conservativa (art. 47 CCNL Multiservizi).

Il datore di lavoro aveva evocato, a sostegno del licenziamento, l'art. 48, paragrafo “A”, lettera “d” del CCNL succitato. La Corte d'Appello, però, ritiene scorretto tale richiamo, poiché la ridetta norma contrattuale sanziona con il licenziamento con preavviso la condotta di abbandono del posto di lavoro effettuata dal personale cui siano specificamente affidate mansioni di sorveglianza, custodia o controllo: la ricorrente, invece, era addetta alle pulizie.

Anche la circostanza per cui era stata contestata altresì la recidiva non risulta determinante. Il medesimo art. 48, al par. “A”, lett. “g”, contempla il licenziamento con preavviso del lavoratore recidivo in qualsiasi delle mancanze contemplate dall'art. 47, ma solo qualora siano stati comminati due provvedimenti di sospensione: il che, nella specie, non era avvenuto.

Il datore di lavoro ricorreva per Cassazione avverso la decisione della Corte d'Appello, denunziando con un primo motivo l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e con un secondo motivo la violazione degli artt. 2119 e 1362 c.c. e degli art. 45,47 e 48 del CCNL Multiservizi.   

LE SOLUZIONI GIURIDICHE

La natura legale della nozione di giusta causa di licenziamento e l'interpretazione delle norme disciplinari del CCNL che contemplano il recesso quale sanzione

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso, considerando il primo motivo inammissibile ed il secondo in parte inammissibile ed in parte infondato.

Il primo motivo era in effetti rivolto alla contestazione della mancata applicazione dell'art. 2119 c.c., un vizio che integra al più una violazione di norme di diritto e non l'omesso esame di un fatto storico. Allo stesso modo, le ulteriori deduzioni contenute nel motivo, con cui la parte datoriale protestava di avere irrogato il licenziamento ai sensi dell'art. 2119 c.c. e non della disciplina contrattual-collettiva, non potevano considerarsi attinenti al tema della valutazione di un fatto, quanto piuttosto al piano del travisamento della domanda e dunque a diversa tipologia di motivo di ricorso.

La pronunzia in commento si concentra poi sul secondo motivo di ricorso, con cui il datore di lavoro contestava l'operazione ermeneutica condotta dalla Corte territoriale che aveva sussunto il fatto contestato alla lavoratrice sotto la fattispecie descritta dagli artt. 47 e 48 del CCNL Multiservizi. Per la parte datoriale, non si sarebbe tenuto in debita considerazione che la disciplina contrattuale si riferisce ad una sola inadempienza ed all'eventuale recidiva mentre, nel caso di specie, si trattava di valutare il comportamento di un dipendente già più volte sanzionato con provvedimenti conservativi che continuava a rendersi inadempiente, anticipando l'uscita dal servizio senza autorizzazione o successiva giustificazione per molti giorni in uno stesso mese.

I Giudici di legittimità ravvisano in primo luogo un profilo di inammissibilità del ricorso, dal momento che il licenziamento in esame era stato pacificamente irrogato ai sensi dell'art. 48 del CCNL, prevedente ipotesi di recesso con preavviso. Dunque, era stata la stessa azienda a ritenere che, nella fattispecie, non ricorresse alcuna ipotesi di licenziamento per giusta causa, che avrebbe altrimenti esonerato dal preavviso: proprio per tale ragione la parte datoriale non poteva lamentarsi della violazione di una norma, l'art. 2119 c.c., che non poteva trovare applicazione per una concreta scelta della stessa parte.

Tanto puntualizzato, la pronunzia in esame approfondisce le ragioni che conducono all'affermazione dell'infondatezza del motivo di ricorso.

La Corte rileva, in primo luogo, che non tutte le previsioni sanzionatorie dei contratti collettivi di lavoro hanno un valore vincolante per il giudice. Le disposizioni sulle fattispecie punibili con sanzioni conservative sono effettivamente tassative e vincolanti; non altrettanto è possibile affermare con riguardo alle previsioni sulle fattispecie punibili con il licenziamento disciplinare, in quanto quest'ultime hanno un significato meramente esemplificativo, dovuto al fatto che la giusta causa è una nozione legale.

Detto rilievo si pone in continuità con l'orientamento della stessa Corte di Cassazione per cui la natura di nozione legale della giusta causa di licenziamento (art. 2119 c.c.) fa sì che le previsioni della contrattualistica collettiva abbiano in proposito una valenza esemplificativa, non tale da limitare l'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; sussiste nondimeno il limite per cui non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo rappresenti una sanzione più grave di quella prevista dal CCNL in relazione ad una determinata mancanza.

La Suprema Corte considera corretta l'operazione ermeneutica che aveva condotto la Corte territoriale a sussumere la fattispecie contestata alla lavoratrice nell'art. 47 del CCNL Multiservizi, una disposizione che fa riferimento a varie tipologie di infrazioni identificate mediante la specifica descrizione delle condotte e fra cui è ricompresa l'anticipata cessazione del servizio.

Il datore di lavoro aveva contestato la fondatezza di detta sussunzione, deducendo che l'art. 47 CCNL si riferirebbe ad una singola infrazione mentre, nel caso di specie, l'oggetto della contestazione era costituito da mancanze ripetute: come anticipato, si rimproverava alla dipendente di avere lasciato il posto di lavoro in anticipo rispetto all'orario prefissato di fine turno per più giornate in un medesimo mese.

La Cassazione non condivide la tesi datoriale, rilevando come la pluralità dei giorni in cui l'infrazione venne ripetuta abbia rilevanza solo ai fini della valutazione della gravità del comportamento contestato ma non possa fondare l'applicazione di una sanzione più grave di quelle di tipo conservativo enumerate dall'art. 47 CCNL. Del resto, il fatto stesso che tale articolo preveda più tipologie di sanzioni, organizzate in scala di afflittività crescente (dall'ammonizione scritta alla multa sino alla sospensione dal servizio) induce a ritenere che debbano essere ricondotti all'art. 47 comportamenti di variabile gravità; depone in tal senso anche l'esplicito riferimento compiuto dall'articolo a “mancanze di minor rilievo” e a mancanze “di maggior rilievo”.

Ragioni di natura letterale e logica inducono quindi la decisione allo studio a concludere che oggetto delle sanzioni conservative di cui all'art. 47 CCNL non sia necessariamente una sola condotta. La norma, infatti, prende in esame condotte quali la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo e la mancata giustificazione dell'assenza entro il giorno successivo che si esauriscono in una sola condotta e dunque non possono essere distinte in termini di variabilità della durata oraria. Di conseguenza, la minore o maggiore gravità di comportamenti siffatti non può che manifestarsi ed essere valutata in termini di numero di giorni in cui le infrazioni vengono commesse e/o ripetute.

Venendo all'esame della particolare mancanza contestata nel caso di specie (l'anticipata cessazione del servizio senza giustificato motivo), la Corte di Cassazione sottolinea in definitiva come la graduazione della gravità debba essere vagliata tenendo conto tanto della durata del singolo episodio quanto del numero di episodi; in ogni caso, deve restare fermo che la massima sanzione irrogabile per tali mancanze è la sospensione – dunque una sanzione di tipo conservativo – perché in tal senso si è orientata l'insindacabile scelta dell'autonomia collettiva, cristallizzata nell'art. 47.

Solo il successivo art. 48 del medesimo CCNL schiude la possibilità dell'irrogazione del licenziamento con preavviso per condotte del tipo di quelle contestate alla dipendente, ma solo a condizione che ricorra la recidiva e che quest'ultima sia integrata da infrazioni per le quali siano stati comminati due provvedimenti di sospensione. Nel caso di specie però tale condizione non ricorreva, come accertato dai giudici del merito con apprezzamento che non era stato censurato dalla società ricorrente per Cassazione.

Da ultimo, la sentenza in commento si sofferma brevemente sull'aspetto dell'elemento soggettivo, rilevando come la Corte territoriale avesse implicitamente ritenuto che il comportamento datoriale fosse stato tale da ingenerare nella lavoratrice un affidamento in grado di ridurre il grado di colpa della predetta. Era infatti emerso che, a fronte di prassi aziendali che non richiedevano l'emissione di autorizzazioni scritte per consentire all'anticipazione dell'orario di uscita dal lavoro, la società aveva omesso per vari giorni di muovere alcun rilievo alla dipendente che aveva appunto iniziato a cessare anticipatamente il proprio servizio.

OSSERVAZIONI

I margini dell'autonomia del giudice del lavoro nell'interpretare le norme disciplinari del CCNL; le differenze riscontrabili tra le disposizioni che prevedono il recesso quale sanzione e quelle che prevedono sanzioni conservative

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna ad esprimersi in merito alla latitudine dell'autonomia della valutazione giudiziale in relazione alle previsioni sanzionatorie della contrattualistica collettiva.

La problematica è stata affrontata soprattutto con riguardo alle disposizioni dei CCNL che prevedono determinati comportamenti come giusta causa di licenziamento. In proposito, la posizione esegetica dei Giudici di legittimità è decisamente consolidata (v. tra le tante Cass., 18 gennaio 2007, n. 1095): simili discipline non esimono il giudice del merito chiamato a decidere sull'impugnazione della legittimità di tale tipo di recesso dal dovere di valutare la gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.

Sotto altro profilo (ben tratteggiato da Cass., 19 agosto 2004, n. 16260), è altresì richiesto al giudice di vagliare la conformità dell'ipotesi contrattuale astratta alla nozione legale di giusta causa. Anche da tale punto di vista non è dunque possibile rintracciare presso la disposizione contrattuale un'attitudine a vincolare la decisione giudiziale; viceversa, alla luce della inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, resta necessario controllare se la previsione del CCNL sia conforme alla nozione fornita dall'art. 2119 c.c. e se, in ossequio ai principi generali di ragionevolezza e proporzionalità, il fatto contestato sia di entità tale da legittimare il recesso, anche in considerazione dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore. In tal modo resta riaffermato il carattere preminente della volontà legislativa rispetto all'autonomia negoziale: la discrezionalità espressa dalla contrattualistica collettiva a proposito della valutazione della gravità dell'inadempimento non può entrare in contrasto con le prescrizioni contenute nell'art. 2119 e nell'art. 1 della L. 15 luglio 1966, n. 604.

Nella pratica, l'espressione dei principi appena riassunti è stata ricorrente nelle vertenze che coinvolgevano l'art. 140 del CCNL Vigilanza privata del 2006 che sanzionava come giusta causa di licenziamento l'abbandono del posto di lavoro da parte del dipendente. Sebbene la formulazione della disposizione del contratto collettivo possa lasciare intendere che l'applicazione della stessa possa dirsi pressoché automatica all'emersione della prova di un indebito allontanamento dal luogo ove doveva essere resa la prestazione lavorativa, la Corte di Cassazione ha a più riprese affermato la correttezza delle decisioni di merito che avevano comunque condotto una attenta verifica sulla reale gravità della mancanza contestata. Può in proposito citarsi Cass. 26 giugno 2013, n°16095, per cui giustamente i giudici dei primi due gradi di giudizio avevano considerato sproporzionata la sanzione espulsiva irrogata alla guardia giurata che aveva lasciato il posto di lavoro mezz'ora prima della fine del turno assegnato ma in contemporanea all'arrivo con mezz'ora di anticipo del collega assegnato al turno successivo, con la conseguenza che il luogo da proteggere non era mai rimasto privo di vigilanza.

In altra fattispecie, pure basata sulla contestazione dell'allontanamento non autorizzato dal luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, in contrasto con l'art. 140 del succitato contratto, la Suprema Corte (Cass., 17 ottobre 2014, n°22054) puntualizzava che la disposizione contrattuale deve essere letta nel senso che è sempre richiesto che in capo al trasgressore ricorra la coscienza e la volontà di lasciare il posto di servizio; in altre parole, che il lavoratore abbia la precisa intenzione di violare le direttive ricevute riguardanti il luogo ed il tempo in cui deve essere fornita la prestazione. Nell'occasione si affermava la legittimità del licenziamento irrogato alla guardia giurata che aveva abbandonato il posto di lavoro senza previa autorizzazione e senza che fosse stata comunicata alla controparte datoriale la necessità del dipendente di allontanarsi, a condizione che il datore di lavoro avesse a propria volta rispettato gli obblighi gravanti su quest'ultimo a proposito della fornitura di strumentazione atta a consentire comunicazioni immediate e tempestive tra il personale di guardia e la centrale operativa che coordina l'attività di vigilanza.

Anche a proposito dell'incidenza della recidiva, valorizzata da alcuni contratti collettivi come circostanza tale da giustificare il licenziamento del lavoratore che appunto si renda responsabile di ripetute mancanze, la Corte della nomofiliachia ha avvertito l'esigenza (Cass., 18 dicembre 2014, n. 26741) di evidenziare l'ineludibile necessità di procedere comunque alla valutazione della gravità dell'addebito, affinché sia sempre garantita la sussistenza della proporzionalità tra inadempienza e sanzione espulsiva.

Non può peraltro stupire che il giudice del lavoro disponga di tale libertà nell'indagine sulla ricorrenza, nel singolo caso portato alla sua attenzione, della giusta causa. Come la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di notare, sono le caratteristiche stesse dell'istituto a postulare un intervento incisivo dell'interprete. La giusta causa di licenziamento costituisce infatti “una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con disposizioni (ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama” (in tal senso Cass. 28 giugno 2022, n. 20780; Cass. 6 agosto 2020, n. 16784).

Non solo, il potere giudiziale di valutare la legittimità del licenziamento disciplinare sotto il profilo della proporzionalità della sanzione utilizzando come semplici indicatori le disposizioni dei contratti collettivi trova fondamento legislativo nell'art. 30, comma 3, della L. n. 183/2010. Tale norma prevede che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro…”; ben si vede come dette tipizzazioni fungano da guida ma non da vincolo per il giudicante (v. di nuovo Cass. 28 giugno 2022, n°20780).

Come si è visto la sentenza in commento si pone in linea di continuità con l'orientamento sin qui sintetizzato, tornando a ribadire che la valutazione della legittimità del licenziamento di tipo disciplinare, anche quando si riscontri una astratta corrispondenza tra il comportamento contestato al lavoratore e la fattispecie tratteggiata dal contratto collettivo, va in ogni caso condotta apprezzando in concreto l'entità e la gravità della condotta del prestatore di lavoro, nonché valutando la sussistenza della proporzionalità tra infrazione e sanzione. Detta verifica appare necessaria, in quanto finalizzata ad accertare la riconducibilità della condotta oggetto di contestazione alla nozione legale di giusta causa; di qui ne discende, tra l'altro, l'esigenza di vagliare il profilo soggettivo del comportamento disciplinarmente rilevante.

Proprio dalla necessità che il giudice del merito proceda in ogni caso ad una valutazione globale della condotta contestata al lavoratore – specie sotto i profili dell'effettiva gravità della stessa e del grado di adesione psicologica alla medesima – ne discende che le indicazioni delle ipotesi di giusta causa contenute nei contratti collettivi abbiano un valore meramente esemplificativo e non vincolante. È indubbio che la scala di valori recepita dalla contrattualistica collettiva esprima le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di determinati comportamenti e costituisca una guida importante nel processo decisionale demandato al giudice del lavoro. Nondimeno, detta scala valoriale rappresenta solo uno dei parametri a cui il giudice deve fare riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo (in tal senso Cass., 27 marzo 2020, n. 7567, e Cass. 27 maggio 2022, n. 17288). Le nozioni legali in parola possono anche non coincidere completamente o esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva. Come esplicitato da Cass. 13 aprile 2021, n. 9657, un tale catalogo potrà dunque essere esteso in relazione a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo, o al contrario ridotto, se tra le previsioni contrattuali ve ne siano alcune non rispondenti al modello legale, da ritenersi nulle per violazione di norma imperativa. Si può dunque chiosare – come ha fatto la pronunzia allo studio – affermando che nella individuazione delle conseguenze sul piano disciplinare della mancanza contestata al dipendente il giudice incontra il solo limite di non poter ritenere legittima l'irrogazione di un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.

Tanto conduce ad affrontare il tema della discrezionalità dell'apprezzamento giudiziale con riferimento alle mancanze punite dai contratti collettivi con sanzioni di tipo conservativo.

In proposito la giurisprudenza appare schierata su posizioni praticamente opposte a quelle sin qui considerate. Si afferma infatti che il giudice non può discostarsi dalle previsioni del CCNL sulle fattispecie punibili con detta tipologia di sanzioni: tale soluzione appare necessitata dal tenore letterale dell'art. 12 della L. n. 604/1966, per cui sono fatte salve le disposizioni dei contratti collettivi che contengono per la materia disciplinata dalla medesima legge (ossia, appunto, i licenziamenti individuali) condizioni più favorevoli al prestatore di lavoro. Se dunque, come si è visto sopra, la giusta causa di recesso costituisce una nozione legale, la predisposizione di sanzioni conservative da parte del contratto collettivo costituisce una eccezione pur sempre normativamente prevista, tale da poter efficacemente vincolare il vaglio del giudice del lavoro.

La decisione in commento non manca di porre in evidenzia il principio appena riassunto e, come si è visto, nella soluzione della vertenza lo stesso ha rivestito una importanza primaria. La contestualizzazione dell'inadempienza contestata alla lavoratrice svolta dalla Corte territoriale e considerata corretta dalla Cassazione portava infatti a ritenere applicabile alla stessa la sanzione di tipo conservativo prevista dal CCNL; tanto i giudici del merito quanto la Suprema Corte si sono conseguentemente conformati a tale espressione dell'autonomia collettiva, sottolineando l'illegittimità delle opzioni esegetiche prospettate dalla società ricorrente, tese ad ottenere la sussunzione della condotta sotto disposizioni del contratto collettivo che contemplavano invece l'irrogazione del recesso.

Tuttavia, presso la giurisprudenza si possono comunque rintracciare alcune pronunzie che paiono riconoscere al giudice del lavoro un pur limitato margine di discrezionalità nell'individuazione del trattamento sanzionatorio da applicare al prestatore di lavoro anche nei casi in cui la condotta oggetto di rimprovero appaia riconducibile alle norme del CCNL che prevedono sanzioni conservative.

Gli stessi precedenti richiamati dalla sentenza in esame (Cass. 7 maggio 2020, n. 8621, e Cass. 10 luglio 2020, n. 14811) affermano che in casi siffatti il giudice non può discostarsi dalle valutazioni espresse dall'autonomia collettiva, “a meno che – si puntualizza – non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva”.

L'accertamento di cui si discute deve essere compiuto con particolare attenzione dall'operatore del diritto: si tratta, in sostanza, di eseguire un'interpretazione estensiva delle previsioni del CCNL, ciò che può dirsi consentito ma nel rispetto delle rigorose condizioni poste da Cass. 13 aprile 2017, n. 9560, poi richiamate dalla già citata Cass. n. 14811/2020. In particolare, l'operazione è consentita “solo ove risulti la ‘inadeguatezza per difetto' dell'espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione. In tale ipotesi, l'interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l'elencazione esemplificativa dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell'esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma. È evidente che la suddetta verifica deve essere eseguita dall'interprete con particolare severità in un contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente. Ne consegue che in siffatta ipotesi l'interpretazione non può estendersi oltre i casi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con l'introduzione di nuove eccezioni”).     

Da ultimo, può essere interessante ricordare come esista un ulteriore ambito in cui l'espressione di una interpretazione giudiziale non vincolata delle disposizioni del contratto collettivo può dirsi necessitata. Ci si vuole riferire alle eventualità in cui la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale ed elastica. In tali casi, quando il giudice sia chiamato a selezionare la tutela applicabile contro il licenziamento illegittimo, egli ben può sussumere la condotta addebitata al lavoratore nelle dette clausole senza che ciò “trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo” (in tali termini Cass. 19 aprile 2023, n. 10435).

Come la giurisprudenza più avvertita non ha mancato di rilevare (v. ancora Cass. 28 giugno 2022, n. 20780), spesso i contratti collettivi non definiscono in modo rigido e tassativo tutte le condotte disciplinarmente rilevanti, anche a ragione della difficoltà di definire con precisione gli obblighi di diligenza e fedeltà gravanti sul lavoratore insita nella grandissima varietà di compiti e mansioni che nella pratica possono essere assegnati a quest'ultimo. Discende da qui la prassi contrattuale di accompagnare condotte più stringenti, spesso illustrate con esemplificazioni, ad altre più generali e di chiusura. In tali spazi si esprime l'attività interpretativa del giudice, volta ad integrare ed a riempire di significato le norme disciplinari strutturate in maniera elastica. Nel fare ciò l'autorità giudiziaria non sovrappone una propria ed autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto a quella compiuta dalla contrattualistica collettiva; più limitatamente, viene eseguita una interpretazione del contratto ai fini della sua applicazione alla fattispecie concreta, per stabilire se una determinata condotta sia o meno riconducibile alla norma collettiva che preveda come sanzione una misura conservativa.   

Ove si valorizzasse esclusivamente la tipizzazione delle fattispecie a scapito dell'utilizzo delle clausole generali o elastiche – conclude ancora la pronunzia da ultimo citata – si finirebbe per svalutare la stessa volontà delle parti sociali che, impiegando disposizioni di contenuto generale, hanno comunque inteso demandare all'interprete la sussunzione della condotta accertata nella nozione generale indicata dalla disposizione collettiva.

GUIDA ALL'APPROFONDIMENTO

Per maggiore approfondimento, si veda:

Cass. 6 agosto 2020, n. 16784

Cass. 13 aprile 2021, n. 9657

Cass. 27 maggio 2022, n. 17288

Cass. 28 giugno 2022, n. 20780

Cass. 19 aprile 2023, n. 10435

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