Proposte concorrenti nel concordato preventivo

15 Maggio 2024

L’Autore ripercorre criticamente la normativa in tema di proposte concorrenti nel concordato preventivo evidenziandone la peculiarità e gli aspetti più innovativi, proponendo soluzioni interpretative tese a valorizzare la salvaguardia dei valori aziendali e la continuità aziendale.

Introduzione

Le disposizioni di cui all'art. 90 c.c.i.i. confermano, sostanzialmente, l'originario impianto normativo (art. 163 l. fall.) introdotto dalla riforma del 2015, con alcune novità.

Benché le aspettative del legislatore – com'è noto - non abbiano incontrato grande fortuna, rimane indubbiamente il fatto che l'istituto delle proposte concorrenti abbia costituito una delle novità più rilevanti in tema di contendibilità dei valori aziendali, incidendo in modo significativo sul tabù del diritto di proprietà come valore assoluto e intangibile.

Il legislatore si è mosso con l'intento di offrire ai creditori strumenti per impedire che il debitore presenti proposte che non rispecchino il reale valore dell'azienda, permettendo ai primi di presentare proposte alternative qualora ritengano di poter gestire meglio l'attività e siano disponibili ad immettere nuovi capitali, così creando (l'emergente) mercato dei distressed debts, anche in ossequio alle numerose indicazioni emerse in sede eurounionista.

Si sono così affrontate due differenti visioni delle logiche economiche e concorsuali. Secondo la prima, l'imprenditore dovrebbe mantenere il pieno controllo della propria azienda indipendentemente dal suo (non ancora) dichiarato stato di insolvenza, posto che egli non subisce lo spossessamento dei suoi beni fin tanto che non venga dichiarato il suo fallimento (oggi, liquidazione giudiziale): un ragionamento che ha solide basi costituzionali che prevedono (art. 42 comma 3, Cost.) che la proprietà privata non possa essere espropriata senza indennizzo.

Invece, secondo l'opposta interpretazione, il diritto di proprietà può trovare un suo limite in valori di pari dignità costituzionale, e, in primis, quello rappresentato dagli interessi sociali o collettivi (art. 41 comma 2, Cost.), per cui non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale.

L'intera questione – senza voler banalizzare – si riduce, alla fine, nello stabilire se l'impresa dichiarata in stato di crisi o d'insolvenza “appartenga” al suo titolare oppure ai suoi creditori. Se si pone mente al fatto che l'impresa insolvente non è più in grado di produrre valore ed ha un mero e residuale valore di garanzia patrimoniale, è possibile affermare che tale impresa “appartenga” ai creditori e non più al suo titolare (e, se impresa collettiva, ai suoi soci/azionisti), e ai primi deve essere concesso di proporre soluzioni alternative, nel loro interesse. Mi sembra che sia “giocoforza” ammettere che, in una situazione d'insolvenza, quando, come nel concordato preventivo, l'imprenditore proponga ai creditori uno stralcio dei suoi debiti – a volte molto consistente –, siano gli stessi creditori ad essere “espropriati” delle loro ragioni di credito e quest'ultima, lapalissiana, conclusione, sembra porre definitivamente il sigillo sulla legittimità delle proposte concorrenti. D'altra parte, il legislatore precisa (art. 4 c.c.i.i.) che il debitore ha il dovere di gestire il patrimonio o l'impresa nell'interesse prioritario dei creditori.

Vedremo, tra poco, come il legislatore abbia contemperato le opposte esigenze con apprezzabile equilibrio.

Legittimazione attiva

Le proposte concorrenti possono essere presentate dai creditori, divenuti tali anche per effetto di acquisti successivi alla domanda di concordato, che rappresentino almeno il dieci per cento dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale depositata dal debitore unitamente al piano, nonché dai soci che rappresentano almeno il dieci per cento del capitale sociale (art. 120-bis comma 5, c.c.i.i.). A tal fine non si deve tener conto di soggetti che, direttamente o indirettamente, siano riferibili al debitore, quali la società controllante la società debitrice, le società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo. Tali proposte possono essere presentate non oltre trenta giorni prima della data iniziale stabilita per la votazione dei creditori. L'indicata percentuale minima (del dieci per cento) funge da sbarramento a proposte sostanzialmente eterodosse di disturbo per trarre indebiti vantaggi economici, oppure meramente predatorie da parte di potenziali concorrenti.

La legittimazione attiva è concessa anche a soggetti che si sono resi cessionari di crediti successivamente alla domanda di concordato, dando così via libera alla nascita e al consolidamento del mercato dei distressed debts, anche per il tramite dell'intervento di operatori specializzati.

Le proposte concorrenti non possono essere presentate dal debitore, neppure per interposta persona, dal coniuge, dalla parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso o dal convivente di fatto del debitore, dai parenti ed affini entro il quarto grado e da parti correlate. La motivazione di tale divieto, come conferma la relazione al codice della crisi, va ricercata nell'intento di assicurare – come per l'esclusione dei crediti infragruppo dal predetto limite minimo del dieci per cento – concorrenza e trasparenza della procedura. Il legislatore ha così inteso stimolare il debitore a formulare la migliore proposta concordataria fin dall'origine, scoraggiando comportamenti opportunistici “al ribasso”: se così non fosse, infatti, il debitore potrebbe determinarsi a presentare proposte minimali, da migliorare solo nel caso in cui vi fossero proposte concorrenti. Il divieto funge, dunque, da deterrente.

Tuttavia, quest'ultimo sembrerebbe completamente vanificato dall'ultimo comma dell'art. 90 c.c.i.i., il quale precisa che le proposte di concordato, ivi compresa quella presentata dal debitore, possono essere modificate fino a venti giorni prima della votazione dei creditori.

La contraddizione appare evidente. Accantonata l'idea che possa trattarsi di una svista del legislatore, mi sembrerebbe di poter affermare che si tratti di una norma di “sistema”, che concede l'opportunità non solo a tutti i creditori che hanno presentato domande concorrenti, ma anche allo stesso debitore – preso atto della relazione del commissario (ai sensi dell'art. 105 c.c.i.i.) – di apportare quelle modifiche strettamente necessarie (escluderei la possibilità di presentare una nuova proposta concorrente, che si porrebbe in contrasto con il divieto previsto dallo stesso art. 90 c.c.i.i.) che siano nell'interesse dei creditori, massimizzando la contendibilità dei valori aziendali, oppure che siano conseguenza di richieste del tribunale (che vigilerà sulla legittimità delle modifiche eventualmente proposte), fermo restando il diritto del debitore di rinunciare alla sua proposta concordataria con il conseguente travolgimento di ogni proposta concorrente eventualmente e ritualmente presentata, lasciando intatto il diritto del debitore di scegliere la strada della liquidazione giudiziale. Lo stesso destino è previsto per il caso di revoca del decreto di apertura della procedura, ai sensi dell'art. 106 c.c.i.i..

Il creditore proponente può presentare una sorta di attestazione semplificata, limitata, cioè, alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già stati oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale e può addirittura essere omessa qualora non ve ne siano.

Inammissibilità delle proposte concorrenti

L'art. 90 comma 5, c.c.i.i. dispone che le proposte di concordato concorrenti non sono ammissibili se nella relazione di cui all'art. 87 comma 3, il professionista indipendente attesta che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il trenta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari. Tale percentuale è ridotta al venti per cento nel caso in cui il debitore abbia utilmente avviato la composizione negoziata ai sensi dell'art. 13 c.c.i.i..

Non si tratta, a mio avviso, solo di una disposizione premiale a favore del debitore virtuoso, ma, anche, della riaffermazione del principio della centralità del suo ruolo di proprietario dell'azienda e dei mezzi di produzione, che, impegnato in un serio tentativo di ristrutturazione aziendale (serietà che viene valorizzata attraverso il pagamento di tutti i creditori privilegiati e del trenta per cento di quelli chirografari), non deve correre il rischio che la sua azienda venga assegnata a terzi. In tal modo, come già accennato, le eccezioni di incostituzionalità per violazione dell'art. 42 Cost. sembrerebbero definitivamente superate.

La previsione della riduzione al venti per cento della soglia minima di soddisfazione dei creditori chirografari (e di tutti i privilegiati), legata al fatto che il debitore abbia utilmente avviato la composizione negoziata, affinché le proposte concorrenti siano inammissibili, merita qualche precisazione. Rispetto alla prima versione del codice della crisi di impresa, che, in proposito, si limitava a richiedere che il debitore si fosse operato per  l'apertura del procedimento di allerta o avesse utilmente avviato la composizione assistita della crisi, l'attuale disposizione, obliterato ogni riferimento alle procedure d'allerta, prevede soltanto che lo stesso debitore abbia utilmente avviato la composizione negoziata prevista dall'art. 13 c.c.i.i., obbligando l'interprete a chiarire il significato dell'avverbio utilizzato dalla norma.

Se dubbi non sembrano sorgere nel caso in cui il concordato preventivo sia stato presentato all'esito della composizione negoziata, oppure, all'opposto, che la composizione negoziata non sia nemmeno giunta alla fase delle trattative, v'è da chiedersi se, dopo che la composizione negoziata si sia chiusa senza alcun risultato, il debitore presenti una proposta concordataria che non sia la conseguenza diretta di quest'ultima, ma un autonomo percorso di risoluzione della crisi intrapreso dal debitore, egli possa ugualmente avvalersi dell'effetto premiale previsto dalla norma in commento. A me pare che, in tali casi, si debba tener conto del favor con il quale il legislatore promuove le procedure alternative alla liquidazione giudiziale, dovendosi valutare in modo appropriato se il comportamento del debitore e dei creditori abbia rispettato gli obblighi posti a loro carico dall'art. 16 commi 4, 5 e 6, c.c.i.i..

L'intervento di terzi e l'aumento di capitale senza diritto d'opzione

La proposta può prevedere l'intervento di terzi, in genere, garanti o finanziatori e, se il debitore ha la forma di società per azioni o a responsabilità limitata, un aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto d'opzione (a favore di quello che, icasticamente, viene, talvolta, definito “cavaliere bianco”).

Alcuni interpreti hanno ritenuto che l'ultima previsione si risolvesse in una larvata espropriazione delle quote di partecipazione dei soci della società debitrice, rimettendo al centro dell'attenzione l'intangibilità del diritto di proprietà dei soci.

Senza riproporre le ragioni precedentemente esposte con riguardo al diritto dei creditori, a certe condizioni, di presentare soluzioni alternative a quelle del debitore, sarà sufficiente, in questa sede, e compatibilmente con il tema trattato, ricordare che già l'art. 2441 comma 5, c.c., prevedeva (e prevede tuttora) che, quando l'interesse della società lo esige, il diritto di opzione può essere escluso o limitato con la deliberazione di aumento di capitale. Se, in giurisprudenza, è stata ritenuta legittima l'esclusione o la limitazione del diritto d'opzione non soltanto quando vi sia l'assoluta necessità di sacrificare il diritto dei soci ma anche quando sussista un interesse tale da fare apparire preferibile e ragionevolmente più conveniente il sacrificio del diritto dei soci, oppure anche quando sussista un interesse per il quale il sacrificio del diritto d'opzione rappresenti la soluzione preferibile e ragionevolmente più conveniente, a maggior ragione la compressione del diritto d'opzione sembra assolutamente accettabile in presenza di una conclamata – una volta che il debitore sia stato ammesso al concordato – crisi d'impresa, prevedendo anche la completa sostituzione della vecchia compagine sociale. Solo per completezza, v'è da precisare che, poiché, quasi sempre, le società in concordato presentano un patrimonio netto negativo, sarà necessario che le norme sull'aumento di capitale debbano essere coordinate con quelle relative alla sua ricostituzione in presenza di perdite (art. 2447 c.c.).

Dunque, dovrebbe ritenersi che la disposizione in esame non costituisca affatto una nuova ipotesi di esclusione o limitazione del diritto di opzione ma che, piuttosto, rientri nell'ipotesi già prevista dall'art. 2441 comma 5, c.c., tutte le volte in cui l'interesse della società lo esige.

Da ultimo, è previsto che la proposta concorrente, prima di essere comunicata ai creditori, deve essere sottoposta al giudizio del tribunale che verifica la correttezza dei criteri di formazione delle classi. Tale obbligo deriva dal combinato disposto dell'art. 85 comma 2, c.c.i.i. (la suddivisione dei creditori in classi è obbligatoria … per i creditori proponenti il concordato e per le parti ad esse correlate) e dell'art. 109 comma 7, c.c.i.i. (il creditore che propone il concordato … può votare soltanto se la proposta ne prevede l'inserimento in apposite classi).

In conclusione

L’istituto delle proposte concorrenti sembra avere un valore “sincretico”, riuscendo a conciliare con equilibrio gli interessi del debitore, sia esso imprenditore individuale o collettivo, e del suo connesso diritto di proprietà, con le ragioni dei creditori che, a certe condizioni, possono sostituirsi all’originario proponente migliorando la sua offerta, nell’interesse dell’intero ceto creditorio, salvaguardando, per quanto possibile, la continuità aziendale.

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