Principi generali e questioni aperte in tema di competenza del giudice civile

Giulio Cicalese
17 Maggio 2024

Il presente scritto è volto allo scopo di fornire utili indicazioni, di taglio sia teorico che pratico, in ordine ai criteri di individuazione del giudice competente a norma degli artt. 7-30-bis c.p.c., ponendo l'accento soprattutto sulle disposizioni più recentemente innovate dal legislatore e sulle questioni ancora aperte o ultimamente risolte dalla giurisprudenza.

Il riparto verticale della competenza

Com'è noto, il legislatore della c.d. riforma Cartabia di cui al d.lgs. 149/2022 non ha innovato i principi regolanti la materia del riparto di competenza tra gli organi esercitanti la giurisdizione civile; pertanto, essa continua ad essere disciplinata sulla base di criteri di natura verticale – relativi ai rapporti di competenza tra giudice di pace e tribunale – e di carattere orizzontale – viceversa funzionali all'attribuzione della competenza ai predetti organi giudiziari in base alle loro varie dislocazioni territoriali –.

Sulla scorta di quanto statuito all'art. 7 c.p.c., il quale attribuisce la competenza al giudice di pace per le controversie ivi tassativamente indicate, concorrono al riparto di competenza in senso verticale i criteri relativi sia alla materia che al valore della causa. All'uopo, occorre senz'altro precisare che la tendenza mostrata dal legislatore, nelle sue più recenti opere riformatrici, è quella di favorire l'ampliamento del novero dei procedimenti sottoposti alla cognizione del giudice di pace: pertanto, l'organo de quo, per tutti i giudizi instaurati a far data dal 28 febbraio 2023, è competente per materia e per valore laddove il loro valore esorbiti € 10.000,00 «per le cause relative a beni mobili quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice», ovvero € 25.000,00 «per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti» (i.e. tutti giudizi risarcitori che trovano la propria origine nella circolazione di veicoli (intesa come attività materiale con cui si concreta l'uso della strada in ogni sua forma: cfr. g.d.p. Pisa, 30 aprile 1997) e di natanti sottoposti ad obbligo assicurativo a norma del d.lgs. 209/2005).

Il giudice di pace, inoltre, è competente per le cause relative alle materie di cui all'art. 7, comma 3, nn. 1) - 3-bis) c.p.c. «qualunque ne sia il valore». Tale criterio è da interpretarsi a contrario, nel senso che sono sottratte dalla competenza del giudice di pace, a prescindere dal loro valore, le sole cause strettamente attinenti ai beni immobili così come definiti dall'art. 812 c.c.; secondo la Suprema Corte sono cause relative a beni mobili anche quelle il cui rapporto controverso trovi la propria fonte in un diritto gravante su di un bene immobile, a patto che tale questione pregiudiziale debba esser decisa solo incidenter tantum dall'adito giudice di pace (cfr. Cass., sez. un., n. 21582/2011 e Cass. n. 16012/2020).

A far data dal 31 ottobre 2025, tali materie verranno ulteriormente e notevolmente ampliate, finendo per ricomprendere anche i giudizi attinenti a diritti reali propriamente intesi (come l'enfiteusi o il condominio di edifici) anche se, per la maggior parte di questi, verrà comunque introdotto un limite di competenza per valore; per i giudizi di cui all'art. 7, commi 1 e 2 c.p.c., infine, il limite di valore verrà aumentato, rispettivamente, ad € 30.000,00 ed € 50.000,00.

Per tutte le cause civili per le quali non è competente il giudice di pace, invece, la cognizione è esercitata de residuo dal tribunale territorialmente competente. La competenza di tale ultimo organo giudiziario, tuttavia, è altresì limitata da quella delle commissioni tributarie in ordine ai tributi di ogni genere e specie e da quella del tribunale dei minori per le materie di cui agli artt. 34,35,38,40 e 45 disp. att. c.p.c.; in merito a quest'ultimo, tuttavia, occorre osservare che i rapporti tra tribunale ordinario e tribunale dei minori sono state per lunghissimo tempo travagliati da un corposo numero di interventi legislativi – come ad esempio la riforma della filiazione di cui alla l. 219/2012 –, tutti volti ad attribuire questa o quella materia ad uno dei due organi, ma con il d.lgs. 149/2022 si è finalmente attuato un definitivo riordino di tutta la disciplina de qua: oltre alla previsione di un nuovo procedimento unitario in materia di persone al Titolo IV-bis del Libro II del c.p.c., difatti, è stata prevista a far data dal 17 ottobre 2024 l'istituzione di un nuovo organo, il tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie (altrimenti detto tribunale unico), il quale sarà competente per tutti i procedimenti relativi, appunto, allo stato delle persone, ai minorenni e alle famiglie, oggi ancora sottoposti alla cognizione del tribunale ordinario, del giudice tutelare e del tribunale dei minori.

In merito alla competenza residuale del tribunale ordinario, poi, vanno presi in considerazione i rapporti tra quest'ultimo e le sezioni specializzate dello stesso, in particolare quelle agrarie e per le imprese, competenti rispettivamente per «le controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto» e per la materia industriale, la violazione della disciplina della concorrenza dell'Unione europea, i rapporti societari, le controversie in materia di appalti pubblici, forniture e servizi di rilevanza comunitaria, e, infine, i procedimenti che presentino ragioni di connessione con i richiamati gruppi di materie. In particolare, il dibattito sorto in seno alla dottrina e alla giurisprudenza ha riguardato la possibilità che la tale ripartizione fosse da ascrivere a questioni di competenza, ovvero di mero riparto interno degli affari contenziosi dei tribunali: in relazione alla materia agraria, la Suprema Corte ha stabilito che la parte che intenda lamentare l'erroneo incardinamento del giudizio di fronte alle sezioni ordinarie del tribunale (o, viceversa, di fronte alle sezioni specializzate agrarie) debba farlo per il tramite di un'apposita eccezione di incompetenza (Cass. nn. 10508/2015 e 17502/2010), mentre a conclusioni diametralmente opposte è giunta in ordine alla materia societaria (Cass., sez. un., n. 19882).

Come accennato supra, inoltre, il riparto della competenza in senso verticale è regolato anche dal valore della controversia. Gli artt. 10-17 c.p.c. dettano specificamente i criteri per la precisa determinazione dell'ammontare dello stesso: il valore della causa deve essere innanzitutto quantificato sulla scorta della domanda introduttiva del giudizio e, dunque, a prescindere da eventuali accertamenti pregiudiziali che il giudice adito è chiamato a compiere, dovendosi difatti far riferimento al solo thema decidendum e non al quid disputandum (cfr. Cass. nn. 25721/2023 e 35265/2022); all'uopo, la giurisprudenza consente alla parte attrice di far ricorso alla c.d. clausola di contenimento del valore (la quale, ovviamente, è vincolante anche agli effetti del merito: così Cass. nn. 18100/2011 e 15853/2010), per il tramite della quale quest'ultima può esplicitamente contenere il petitum nei limiti della competenza del giudice adito, con l'ulteriore conseguenza di superare la presunzione di cui all'art. 14, comma 1 c.p.c. laddove si tratti di due cause cumulate, entrambe di valore indeterminato: (Cass. n. 4589/2000). Discorso di segno opposto va invece fatto in riferimento alla circostanza in cui solo una delle cause sia di valore indeterminato: in ipotesi di tal fatta, operando proprio la presunzione in virtù della quale il valore della causa va fissato entro i limiti della competenza del giudice adito, la proposizione di un'altra domanda di valore determinato, nonostante l'apposizione di un'esplicita clausola di contenimento del valore ad essa relativa, comporta lo spostamento della competenza in favore del giudice superiore (cfr. Cass. 16635/2019).

Infine, a norma dell'art. 10, comma 2 c.p.c., ai fini della determinazione del valore le domande proposte avverso la medesima parte vanno sommate tra di loro, e lo stesso occorre farsi in ordine al capitale con gli interessi scaduti, le spese o i danni.

L'art. 11 c.p.c. detta inoltre un criterio speciale per le domande attinenti all'adempimento per quote di un'obbligazione, statuendo che per esse il valore vada calcolato sulla base dell'intera obbligazione; l'art. 12, comma 1 c.p.c., invece, in relazione alle «cause relative all'esistenza, alla validità o alla risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio», costituisce un corollario di quanto già affermato rispetto al concetto di domanda rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 10, comma 1 c.p.c., giacché circoscrive il valore della stessa alla sola parte del rapporto effettivamente in discussione; l'art. 12, comma 2 c.p.c., invece, stabilisce che il valore delle cause di divisione debba essere individuato tenendo conto del valore venale dell'intera massa da dividere; l'art. 13 c.p.c., poi, stabilisce un tetto di valore per le cause relative a rendite alimentari periodiche, a rendite perpetue a rendite temporanee o vitalizie ed al diritto del concedente (assimilato alle ipotesi precedenti perché da esso comunque deriva la percezione di una rendita in favore dell'enfiteuta), tuttavia applicabile solo «se il titolo è controverso».

Un po' più complesso è invece il meccanismo stabilito dall'art. 14 c.p.c. per le cause relative a denaro e beni mobili (poi esteso dalla giurisprudenza anche alle cause relative ad un facere: cfr. Cass. n. 4399/1997): se nella prima ipotesi, infatti, basta far riferimento alla somma richiesta, nella seconda occorre invece prendere come parametro il valore indicato dall'attore stesso nell'atto introduttivo del giudizio; laddove tale indicazione manchi, tuttavia, il valore della causa si presume entro il limite massimo di competenza del giudice adito (ossia di € 10.000,00 per il giudice di pace) ma, in ogni caso, il convenuto può, entro la prima difesa, contestare detta quantificazione: in questo caso, il giudice inizialmente investito della controversia dovrà verificare la propria competenza effettuando una valutazione sommaria sulla scorta dei documenti già a sua disposizione; qualora, invece, manchi la contestazione del convenuto, il giudizio ex art. 14, comma 3 c.p.c. rimarrà incardinato presso il giudice adito, il quale anche ai fini del merito dovrà pronunciare entro gli eventuali limiti della propria competenza.

L'art. 15 c.p.c., invece, prevede dei meccanismi per la determinazione del valore delle cause immobiliari: tale norma, tuttavia, ha perso rilievo ai fini della competenza, giacché tali giudizi sono ad oggi devoluti alla competenza esclusiva per materia del tribunale.

Infine, l'art. 17 c.p.c. determina i criteri di quantificazione del valore per i giudizi esecutivi: in maniera non troppo precisa, tuttavia, la norma in parola, al comma 1, fa riferimento al «credito per cui si procede», ma essa trova ovviamente applicazione anche per l'esecuzione degli obblighi di fare, per i quali quindi è necessario applicare in combinato disposto anche l'art. 14 c.p.c. (Cass. n. 314/1992); analogo discorso, con la necessaria applicazione dell'art. 15 c.p.c. laddove l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. riguardi invece beni immobili, va fatto in relazione all'art. 17, comma 2 c.p.c.; il comma 3 dell'articolo in parola, invece, stante la riforma operata all'art. 512 c.p.c. negli anni 2005 e 2006, deve semplicemente intendersi come tacitamente abrogato.

I criteri orizzontali di riparto della competenza

Gli artt. 18-30-bis c.p.c., invece, fissano i criteri per l'individuazione del giudice territorialmente competente. I fori ivi identificati vanno in primo luogo a priori distinti in fori generali o speciali, a seconda del fatto che si applichino o meno solo a determinate categorie di fattispecie, esclusivi o concorrenti, se sono o no gli unici applicabili ad un particolare genus di cause, e derogabili o inderogabili se le parti, come meglio si dirà infra, possono negozialmente stabilirne uno alternativo rispetto a quello previsto per legge; i fori generali delle persone fisiche e degli enti sono disciplinati dagli artt. 18 e 19 c.p.c.: il primo di questi prevede che debba farsi riferimento alla residenza ed al domicilio del convenuto – o alla sua dimora se questi sono sconosciuti o, infine, alla residenza dell'attore se il convenuto non ha né residenza, né domicilio e né dimora in Italia –, per gli enti riconosciuti è invece necessario far riferimento alla sede principale o a quella di una loro rappresentanza autorizzata a stare in giudizio, mentre per gli enti non riconosciuti occorre guardare al luogo in cui è continuativamente svolta la loro attività. Come si può intuire, le norme in parola fanno riferimento a concetti giuridici più strettamente appartenenti alla sfera del diritto sostanziale (residenza, domicilio, sede sociale, ecc.), i quali dovranno quindi essere interpretati sulla scorta dei criteri ad esso propri, o addirittura a concetti meramente fattuali (come lo svolgimento continuativo dell'attività dell'ente non riconosciuto, per i quali sarà quindi necessario al giudice adito svolgere un accertamento sommario simile a quello necessario per la quantificazione del valore della causa ex art. 14 c.p.c.).

Gli artt. successivi, invece, prevedono fori speciali in relazioni a particolari materie: l'art. 20 c.p.c., innanzitutto, introduce un foro concorrente per le cause relative a diritti di obbligazione, le quali possono essere incardinate (oltre che nei fori identificati dagli artt. 19 e 20 c.p.c.) anche presso il giudice del luogo in cui l'obbligazione è sorta o deve eseguirsi; all'art. 21 c.p.c., invece, è disciplinata la competenza esclusiva, ma generalmente derogabile (fatta eccezione, in base al dettato dell'art. 447-bis c.p.c., ed in particolare al comma 2 dello stesso, per le controversie in materia di locazione e di comodato di immobili urbani e quelle di affitto di aziende) per le cause relative a diritti reali e ad azioni possessorie – per le quali, tuttavia, ex art. 28 c.p.c. non è possibile effettuare alcuna deroga – in capo al giudice del luogo in cui il bene si trova (indicando altresì dei criteri di prevalenza laddove l'immobile insista in più circoscrizioni) o in cui è avvenuto il fatto denunciato dal possessore; l'art. 22 c.p.c., invece, statuisce che per le cause ereditarie ivi elencate il foro competente vada (esclusivamente ma derogabilmente (Cass. n. 26141/2021) ricondotto al luogo in cui si è aperta la successione ex art. 456 c.c. ovvero, se la successione si è aperta all'estero, nel luogo in cui è posta la maggior parte dei beni situati in Italia o, in mancanza, nel luogo di residenza di uno dei convenuti; l'art. 23 c.p.c., invece, istituisce il foro (esclusivo e derogabile) per le cause tra soci, che è quello ove ha sede la società, e per le controversie tra condomini o tra condomini e condominio, che vanno instaurate nel luogo in cui si trovano i beni comuni (o la maggior parte di essi); l'art. 24 c.p.c., invece, disciplina il c.d. forum gestae administrationis, che va rintracciato nel foro del luogo in cui, di fatto, è svolta l'amministrazione patrimoniale de qua, non rilevando viceversa il luogo in cui essa è sorta.

All'art. 25 c.p.c. è disciplinato poi il c.d. foro erariale, relativo ai giudizi in cui è parte una Pubblica Amministrazione, per i quali è competente «il giudice del luogo dove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie»; tuttavia, ove l'ente pubblico sia convenuto in giudizio, il foro va altresì individuato, secondo il medesimo meccanismo di cui all'art. 20 c.p.c., nel luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione azionata, ovvero nel luogo in cui si trova il bene (mobile o immobile) oggetto della domanda.

L'art. 26 c.p.c., invece, regola il foro esclusivo dell'esecuzione forzata, di natura inderogabile: per l'espropriazione di beni, mobili o immobili che siano, occorre guardare al luogo in cui essi – o la maggior parte di essi, ex art. 21 – si trovano; per veicoli e rimorchi, in quanto beni di difficili localizzazione fissa, bisogna far riferimento alla residenza, al domicilio, alla dimora ed alla sede del debitore; i procedimenti attinenti ad un facere ovvero ad un non facere, infine, devono essere incardinati nel luogo in cui tali obblighi devono essere eseguiti. Originariamente tale disposizione disciplinava anche i criteri di individuazione del foro relativo all'espropriazione forzata di crediti, i quali sono poi confluiti ex d.l. 132/2014 nell'art. 26-bis c.p.c.; se prima della citata modificazione normativa era competente il giudice dell'esecuzione del luogo di residenza del terzo debitore – con la conseguenza che fosse in tal modo impossibile, stante l'inderogabilità della competenza de qua a norma dell'art. 28 c.p.c., realizzare il simultaneus processus laddove fossero pignorati più terzi debitori –, ad oggi, secondo quanto stabilito dal comma 2 dell'articolo in parola, la competenza va attribuita al giudice del luogo in cui ha il debitore principale ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede; tuttavia, se debitrice principale è una Pubblica Amministrazione, il comma 1 dell'art. 26-bis c.p.c. stabilisce che è competente il giudice del luogo dove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (non il debitore, bensì) il creditore: tale distinguo, principalmente, ha lo scopo di impedire, per l'espropriazione dei crediti vantati nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni centrali, tutte con sede in Roma, che i relativi procedimenti debbano esclusivamente incardinarsi presso il tribunale del luogo.

I criteri di cui all'art. 26 c.p.c., poi, vengono sostanzialmente ripresi dall'art. 27 c.p.c., il quale disciplina in maniera inderogabile il foro relativo alle opposizioni esecutive di cui agli artt. 615 e 619 c.p.c.: esse vanno instaurate nel luogo in cui l'espropriazione oggetto di opposizione è in corso, salvo quanto disposto dall'art. 480, comma 3 c.p.c. per l'ipotesi in cui il creditore, nell'atto di precetto, non abbia eletto domicilio nel comune del giudice competente per l'esecuzione; l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., invece, va proposta presso il giudice già competente per l'esecuzione.

L'ultima delle disposizioni relative all'individuazione del foro competente è poi quella di cui all'art. 30-bis c.p.c. per le cause in cui sono parti i magistrati: tale norma, tuttavia, è stata sfrondata per il tramite di due differenti interventi della Corte costituzionale (Corte cost. nn. 444/2002 e 147/2004), per cui essa, ad oggi, trova applicazione nei soli casi debba accertarsi incidenter tantum il compimento ad opera ovvero in danno di un magistrato di un fatto avente rilevanza penale.

Infine, in conclusione del presente approfondimento sui criteri di attribuzione della competenza, occorre rilevare, come già accennato supra, che le parti possano di comune accordo ex artt. 6, 28 e 29 c.p.c. derogare alle disposizioni in materia territoriale: tale deroga, tuttavia, a norma dell'art. 29 deve necessariamente derivare da un atto scritto (per il quale la giurisprudenza non impone tuttavia alcun particolare onere di forma: cfr. ex plurimis Cass. nn. 10376/2005 e 7320/2004 e T. Roma 16 agosto 2019) che contenga espresso riferimento ad uno o più affari determinati, con l'effetto però, se non è espressamente stabilito diversamente, di attribuire competenza concorrente al giudice in tal modo designato; inoltre, il foro convenzionale non può esser negozialmente individuato dalle parti in tutte le cause espressamente previste dall'art. 28 c.p.c., ovvero in tutte quelle (come, ad esempio, le controversie richiamate dall'art. 66 Cod. Consumo) previste da leggi speciali, con la conseguenza che ogni pattuizione in tal senso dovrà essere automaticamente considerata nulla.    

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