Onere della prova e presunzioni legali: novità legislative e giurisprudenziali
20 Maggio 2024
Onere della prova Nel processo tributario si è sempre applicata la tesi dell'art. 2697 c.c.: «Chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda». Tanto premesso, l'applicabilità dell'art. 2697 c.c. nel diritto tributario è stata da sempre controversa, lo è stata ancor di più dopo la l. n. 130/2022 e deve ritenersi ulteriormente controversa a seguito delle modifiche apportate all'art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente ad opera del d.lgs. n. 219/2023. La regola dell'art. 2697 c.c. è derogata in favore dell'applicazione del principio della “vicinanza alla prova” per cui l'onere della prova viene fatto gravare sul soggetto “più vicino” alle fonti di prova. Si pensi, in materia di reddito d'impresa, alla tesi espressa dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui l'onere della prova incomberebbe sul fisco, per ciò che concerne la rettifica degli elementi positivi di reddito, e sul contribuente, per tutto quanto attiene invece agli elementi negativi di reddito. Inoltre, tale principio è stato richiamato nelle liti in materia di transfer pricing, laddove la Corte di cassazione ha stabilito che graverebbe sull'Agenzia delle Entrate solamente l'onere di provare l'esistenza della transazione oggetto di contestazione ad un prezzo “apparentemente” inferiore a quello normale, facendo gravare in capo al contribuente l'onere di dimostrare che la transazione sia intervenuta a normale valore di mercato. Tuttavia, l'affermazione secondo cui «può considerarsi jus receptum che nel processo tributario l'Amministrazione è attore in senso sostanziale e, quindi, su di essa grava l'onere della prova» ma, per altro verso, l'Amministrazione finanziaria deve provare i fatti costitutivi della propria pretesa impositiva (o della legittimità dell'atto che tale pretesa individua) è una tesi ampiamente accettata mentre il contribuente deve provare i fatti c.d. “riduttivi” dell'imposta. Non esiste un elenco tassativo delle prove ammesse al procedimento tributario e non è previsto alcun divieto rispetto all'ingresso di prove, anche atipiche o diverse da quelle prettamente documentali: non esiste una gerarchia in merito alla conseguente valenza probatoria Solo con l'entrata in vigore della l. n. 130/2022, di riforma della giustizia e del processo tributario, il legislatore è intervenuto in tema del riparto dell'onere probatorio in materia tributaria aggiungendo il comma 5-bis all'art. 7 d.lgs. n. 546/1992 per cui spetta al Fisco l'onere di provare la maggiore capacità contributiva del soggetto verificato nonché i presupposti di fatto e di diritto sui quali la pretesa fatta valere nei suoi confronti si fonda. Il nuovo comma 5-bis dell'art. 7 d.lgs. n. 546/1992 così dispone: «L'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni». Quindi, il giudice ha l'obbligo di dichiarare la nullità dell'atto impugnato qualora la prova della sua fondatezza sia: a) mancante; b) contraddittoria; c) insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni. In materia di giudizio tributario, il nuovo comma 5-bis dell'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall' art. 6 della l. n. 130 del 2022, secondo cui il giudice deve valutare la prova «comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale», non si pone in contrasto con l'applicabilità delle presunzioni legali che, nella normativa tributaria sostanziale, impongano al contribuente l'onere della prova contraria. La giurisprudenza di legittimità ha optato per una lettura riduttiva della nuova disposizione anche a seguito delle modifiche in punto di motivazione apportate allo Statuto affermando che «è appena il caso di sottolineare che il comma 5-bis dell'art. 7 d.lgs. n. 546/1992, introdotto con l'articolo 6 della legge n. 130/2022, ha ribadito, in maniera circostanziata, l'onere probatorio gravante in giudizio sull'amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente […] Pertanto, la nuova formulazione legislativa […] non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all'istruttoria dibattimentale un ruolo centrale» (Cass. 27 ottobre 2022, n. 31878; Cass. 8 gennaio 2024, n. 534; Cass. 5 dicembre 2023, n. 34029; Cass. 28 dicembre 2022, n. 37985). Con la pronunzia 21 febbraio 2024, n. 4638 della Suprema Corte, che in un caso riguardante la deduzione di oneri pluriennali, ha ritenuto inapplicabile la nuova norma essa ha deciso che «poiché non si verte in un'ipotesi in cui l'Amministrazione finanziaria abbia fondato proprie pretese su documentazione contabile ultradecennale della contribuente, bensì in un caso in cui è la stessa contribuente ad invocare un vantaggio fiscale, dichiarando però di non essere in grado di produrre quella documentazione contabile che pure l'Ente impositore ritiene indispensabile perché possa affermarsi il giusto fondamento della pretesa tributaria della società rappresenta un principio generale, in materia fiscale, che chi intende avvalersi di un vantaggio tributario debba provare di avervi diritto, ed appare corretta anche l'osservazione del Pubblico Ministero secondo cui la parte che intende invocare un vantaggio fiscale è tenuta a conservare le scritture necessarie a provare di essere in possesso del titolo legittimante, anche oltre il termine decennale previsto in generale dalla legge per la conservazione delle scritture contabili». E a ciò aggiungendo che «tanto deve affermarsi in considerazione del disposto di cui all'art. 22, secondo comma, del d.p.r. n. 600 del 1973, che recita “Le scritture contabili obbligatorie ai sensi del presente decreto, di altre leggi tributarie, del codice civile o di leggi speciali devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, anche oltre il termine stabilito dall'art. 2220 del codice civile o da altre leggi tributarie …”, e trattasi, pertanto, di norma speciale che prevale anche sul disposto di cui all'art. 8, comma 5, della legge n. 212 del 2000». In effetti, è stata disposta l'abrogazione dell'articolo 5-ter, d.lgs. 218/1997, norma che contemplava il “vecchio” invito obbligatorio. Tale disposizione recava una disciplina, parziale e settoriale, del diritto al contraddittorio, superata dalla previsione generale di cui all'articolo 6-bis, l. 212/2000 il quale prevede il contraddittorio generalizzato salvo per gli atti automatizzati, sostanzialmente automatizzati, di pronta liquidazione e di controllo formale delle dichiarazioni così come individuati dal decreto del Ministro dell'economia e delle finanze del 24 aprile 2024 ed entrato in vigore dal 30 aprile 2024 nonché per i casi motivati di fondato pericolo per la riscossione. In caso di accertamenti emessi in conseguenza dell'esito negativo del contraddittorio preventivo, occorre che la pubblica amministrazione elabori la c.d. “motivazione rafforzata” che obbliga gli uffici, di fatto, a provare l'infondatezza delle ragioni addotte dal contribuente nella fase endoprocedimentale. Pertanto, la prova riguarda i fatti o le informazioni che confermano la validità di una affermazione o di una contestazione mentre la motivazione rappresenta le ragioni o i motivi per i quali l'atto è stato emesso. Presunzioni legali Nulla muta per le rettifiche basate su presunzioni semplici: l'onere compete all'Agenzia. In conformità alla teoria del probabilismo logico, perché un'inferenza induttiva costituisca una presunzione non è richiesto un collegamento necessario tra il fatto noto e quello ignoto, secondo la regola dell'inferenza necessaria; è invece sufficiente la sussistenza di un collegamento basato sul criterio dell' id quod plerumque accidit secondo la regola dell'inferenza probabilistica. In numerosi casi infatti il legislatore interviene al fine di ridimensionare le difficoltà probatorie in cui si trova l'Amministrazione finanziaria, accordando a quest'ultima la possibilità di assumere come veri e fino a prova contraria fatti che, in assenza della presunzione, sarebbe tenuta a provare. In queste ipotesi il contribuente non può in alcun modo sindacare il nesso inferenziale previsto tra fatto noto e fatto ignorato. Viceversa, il contribuente è chiamato a provare che il fatto noto cristallizzato nella norma non risponde al vero o che il nesso inferenziale non si è verificato nel caso di specie. Dal punto di vista processuale, incidono sulla distribuzione tra le parti dell'onere probatorio, dispensando il soggetto in favore del quale sono stabilite dal dimostrare il fatto presunto, a condizione che provi il fatto indiziante. L'altra parte, viceversa, sarà chiamata a dimostrare che il fatto indiziante non esista oppure che l'inferenza prevista dalla norma non abbia riscontro nel caso di specie. Le presunzioni legali relative disciplinano altresì le conseguenze che derivano dal mancato assolvimento dell'onere dimostrativo gravante sull'altra parte. Pertanto, risulterà soccombente il soggetto che abbia fondato la sua pretesa su un fatto indiziante ma che non lo abbia provato, oppure l'altra parte che non sia stata in grado di provare che nel caso di specie fatto indiziante e/o nesso causale non sussistano. Pertanto, il legislatore cerca di ridurre le difficoltà probatorie dell'Amministrazione procedente, che derivano dalla posizione asimmetrica in cui si trovano fisco e contribuente, cui più volte si è fatto riferimento. Infatti, in generale, il fatto che il fisco è chiamato a provare si verifica nella sfera privata di un soggetto che ha interesse ad occultarlo o quantomeno ad alterarlo. Proprio perché per mezzo di esse il giudice non accerta un fatto, ma applica il diritto al fatto è stato negato che le presunzioni legali relative siano veri e propri mezzi di prova. La ratio delle presunzioni è da ravvisare nell'esigenza di conferire certezza e semplicità al rapporto tributario e consentire il soddisfacimento dell'«interesse generale alla riscossione dei tributi contro l'evasione», agevolando la parte che è tenuta in prima battuta a provare certi fatti. La Corte costituzionale si è pronunciata in più occasioni sulla legittimità delle presunzioni legali relative, sostenendo che esse «non sono di per sé illegittime», a condizione che si fondino «su indici concretamente rivelatori di ricchezza ovvero su fatti reali, quand'anche difficilmente accertabili affinché l'imposizione non abbia una base fittizia». Secondo la giurisprudenza di legittimità e di merito, quindi, continua ad essere consentito il ricorso alle presunzioni legali nelle fattispecie previste dal legislatore per supplire ai deficit informativi del Fisco e per agevolare l'esercizio effettivo delle attività di controllo. L' Amministrazione finanziaria può legittimamente accertare il fatto ignoto limitandosi a contestare al contribuente la sussistenza della situazione di fatto nota. Infatti, il comma 5-bis dell'art. 7 nell'esplicitare come il fondamento della pretesa fiscale debba essere provato «comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale», «non si pone in contrasto con la persistente applicabilità delle presunzioni legali che, nella normativa tributaria sostanziale, impongano al contribuente l'onere della prova contraria». La Corte di Cassazione con ordinanza del 30 gennaio 2024 n. 2746, ha deciso che la prova contraria del possesso di redditi non imponibili che il contribuente deve fornire, per superare la ricostruzione presuntiva e sintetica del reddito operata dall'Amministrazione, non può limitarsi alla dimostrazione della mera disponibilità di ulteriori redditi o del semplice transito della disponibilità economica nella sfera patrimoniale dello stesso contribuente. Infatti, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese necessarie, il contribuente è comunque «onerato della prova in merito a circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere», poiché è la norma stessa a chiedere qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), in tal senso dovendosi leggere lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) dell'entità di tali eventuali ulteriori redditi e della durata del relativo possesso, previsione che ha l'indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di tali redditi, per consentirne la riferibilità alla maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente. Né la prova documentale richiesta dalla norma in esame risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l'esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la durata del possesso dei redditi in esame. È peraltro il caso di sottolineare che non è destinato ad incidere sulla descritta distribuzione, nel caso di specie, dell'onere della prova, il nuovo comma 5-bis dell'art. 7 d.lgs n. 546/1992, introdotto dall' art. 6 l. n. 130/2022, secondo il quale l'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Infatti, la fondatezza della prova deve essere valutata «comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale», salvaguarda le presunzioni legali, quale quella in materia di accertamento sintetico, previste dalla normativa sostanziale tributaria, la cui persistenza non può quindi ritenersi in contrasto con disposizioni sull'onere della prova rispetto alla disciplina già evincibile dall'applicazione dell'art. 2697 c.c. |