Contratto a termine e recesso con preavviso: se previsto per i lavoratori a tempo indeterminato, il datore che non lo motiva viola la parità di trattamento

22 Maggio 2024

I principi europei che esprimono il divieto di discriminazione sono riportati (anche) nelle norme comunitarie che riguardano i rapporti di lavoro. In particolare, vi sono delle previsioni che si riferiscono specificamente alle differenze di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e dipendenti assunti a tempo indeterminato. Nel caso di specie, un cittadino polacco, assunto tramite un contratto a termine successivamente risolto anzitempo, ritenendo di essere stato illegittimamente licenziato, si è rivolto alla Corte di Giustizia europea al fine di ottenere il riconoscimento di una ingiusta disparità di trattamento rispetto ai colleghi assunti a tempo indeterminato con riferimento alle modalità di cessazione del rapporto.

MASSIMA Le previsioni di cui alla Direttiva 1999/10 e all'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea rendono contrastanti con il diritto dell'Unione la normativa nazionale dello Stato membro che preveda che un datore di lavoro non sia tenuto a motivare per iscritto il recesso con preavviso da un contratto di lavoro a tempo determinato, laddove questi sia – diversamente – tenuto a tale obbligo in caso di recesso da un contratto di lavoro a tempo indeterminato. In tali contesti, il giudice nazionale dovrebbe disapplicare la norma dello Stato membro che si ponga in contrasto con tali principi, nel rispetto dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, al fine di garantire la piena tutela giurisdizionale degli interessi del lavoratore.

IL CASO

Il licenziamento anticipato nel rapporto di lavoro a tempo determinato

Un lavoratore, assunto a tempo determinato da una società (costituita ai sensi del diritto polacco), era stato successivamente licenziato dalla stessa, tramite una comunicazione che, pur rispettando il preavviso dovuto contrattualmente, mancava dell'indicazione dei motivi in virtù dei quali la cessazione era stata decisa. Per tale ragione, il lavoratore aveva adito il Tribunale di Cracovia, deducendo l'illegittimità del licenziamento e chiedendo, di conseguenza, un congruo risarcimento.

LE QUESTIONI

Il contrasto con le norme europee e i giudicati delle sentenze delle alte corti polacche: il rinvio pregiudiziale

In particolare, il lavoratore riteneva che, oltre a errori formali della comunicazione di licenziamento – che, per la loro entità, giustificavano già un risarcimento in favore del dipendente ai sensi del diritto polacco – la mancanza di chiarimenti che motivassero la decisione di cessare il rapporto costituiva una violazione del principio di non discriminazione, di matrice europea (ex Direttiva 1999/70 e Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). Ciò, anche in considerazione dello stesso diritto polacco, che prevede l'obbligo di motivazione nelle comunicazioni di licenziamento dei dipendenti assunti a tempo indeterminato.

Investito della questione, il Tribunale di Cracovia ha cominciato la propria disamina partendo da una sentenza della Corte Costituzionale polacca del 2008, la quale si era espressa in favore della legittimità costituzionale delle previsioni delle quali il lavoratore si era servito per corroborare la propria tesi, valutando che nulla consentiva di ritenere che la distinzione di trattamento tra i lavoratori assunti a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato, introdotta da tali normative, non fosse operata secondo criteri aderenti all'art. 32 della Costituzione polacca, che prevede il principio di uguaglianza dinanzi alla legge e il divieto di discriminazione nella vita politica, sociale o economica basato su qualsiasi motivo.

Dall'altro lato, lo stesso Tribunale di Cracovia ha, tuttavia, considerato una diversa sentenza, pronunciata nel 2019 dalla Corte Suprema della Polonia, che, invece, aveva evidenziato delle potenziali criticità rispetto alla conformità delle menzionate disposizioni del codice del lavoro polacco in quanto, avendo il datore di lavoro soggettività privata e non pubblica, non poteva essere chiesto a quest'ultimo di applicare una direttiva europea che, seppure chiara, precisa e incondizionata, non poteva essere rispecchiata immediatamente nelle decisioni del potere giudiziario relativo a controversie tra privati, senza che prima essa fosse recepita dalla legislazione nazionale. Inoltre, con specifico riferimento al richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, la Corte Suprema polacca ha ritenuto che, a differenza di altri – citati anche in varie sentenze della CGUE, il rapporto di lavoro nell'ambito di un contratto a tempo determinato non figura tra i criteri menzionati nella stessa, che giustifichino l'applicazione del divieto di discriminazione.

Alla luce delle criticità appena rappresentate, il Tribunale di Cracovia ha deciso di rimettere la questione, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia europea.

LE SOLUZIONI GIURIDICHE

L'analisi delle previsioni comunitarie, il rimando al giudice del rinvio e le indicazioni procedurali della CGUE

Investita di tali questioni, la CGUE ha principiato confermando la pacifica applicazione dell'accordo quadro delineato dalla Direttiva 1999/70/CE (i.e., l'accordo, del 28 giugno 1999, che aveva definito regole generali per gli Stati membri all'interno dei quali dovessero essere disciplinati i rapporti di lavoro a tempo determinato) anche al caso di specie.

In particolare, chiariscono i giudici europei, si tratta di una fonte normativa che ha come obiettivo – tra gli altri – quello di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione. Tale normativa consentirebbe un trattamento differenziato tra lavoratori assunti a tempo determinato e indeterminato solo laddove vi fossero delle ragioni giustificatrici al riguardo.

Al fine di valutare l'elemento appena menzionato, si renderebbe necessario valutare la comparabilità delle situazioni attraverso l'analisi di diversi fattori (e.g., la natura del lavoro, le condizioni di formazione, le condizioni di impiego). Esame che – come ritenuto dai magistrati europei – solo il giudice del rinvio può condurre, in quanto sarebbe il solo competente a “valutare i fatti, stabilire se il ricorrente nel procedimento principale si trovasse in una situazione comparabile a quella di lavoratori assunti a tempo indeterminato” dal datore di lavoro coinvolto nel caso di specie.

In generale, la CGUE ricorda che sono tali gli “elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi nel particolare contesto in cui essa si inserisce e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tali differenza risponda a una reale necessità, sia idonea a conseguire l'obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria”.

In questo senso, a parere dei giudici europei, non può considerarsi sufficienti quanto stabilito dal governo polacco in virtù delle pronunce della Corte Costituzionale nazionale, che ha più volte ammesso la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro come elemento utile a giustificare una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato. Naturalmente, limitare l'alveo delle ragioni giustificatrici menzionate alla semplice – oggettiva – differenza strutturale dei due tipi di rapporto lavorativo “svuoterebbe di ogni sostanza gli obiettivi dell'accordo quadro ed equivarrebbe a perpetuare una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato”.

Resta pacifica, invece, l'esistenza di un trattamento meno favorevole – che la Direttiva impone di valutare in via oggettiva – dei lavoratori a tempo determinato, laddove a questi ultimi non sia dovuta, da parte del datore, la comunicazione dei motivi posti alla base del recesso con preavviso dal relativo contratto di lavoro, posto che tale obbligo è, invece, previsto, nelle medesime condizioni, in caso di rapporto a tempo indeterminato.

Né può dirsi valida la valutazione dei giudici polacchi che si sono sinora occupati del caso, che hanno tenuto in considerazione la possibilità, per il lavoratore a tempo determinato a cui sia stato intimato il recesso senza giustificazioni, che quest'ultimo ricorra alle autorità giurisdizionali competenti al fine di valutare l'effettiva esistenza o assenza di una motivazione che validamente possa giustificare una decisione talmente drastica da parte del datore di lavoro. Una tale situazione, infatti, “può comportare delle conseguenze sfavorevoli per un lavoratore a tempo determinato in quanto tale lavoratore […] non dispone, a monte, di un'informazione che possa essere determinante ai fini della scelta di avviare o meno un'azione giudiziaria contro il recesso del suo contratto di lavoro”.

Si aggiunga, inoltre, che il diritto polacco prevederebbe, in un tale scenario contenzioso, che fosse il lavoratore, dubbioso delle reali motivazioni del proprio licenziamento, a doverne dimostrare il possibile carattere ritorsivo e/o discriminatorio già prima facie in sede di introduzione del ricorso stesso, con la possibilità di aggravio dei costi relativi al procedimento giudiziale in caso di esito negativo.

Di ulteriore pregio è la considerazione che il giudice europeo fa relativamente alla natura dell'istituto del recesso anticipato nel contratto di lavoro a tempo determinato, il quale si inserisce in un rapporto la cui cessazione era già prevista e fissata per un dato momento. Pertanto, ribadisce la CGUE, l'anticipazione di tale evento comporta nel lavoratore a tempo determinato – allo stesso modo che per quello assunto a tempo indeterminato – un cambiamento imprevisto nella gestione del rapporto, tale da incidere su entrambi con le medesime conseguenze. Né, inoltre, porre sullo stesso piano le tutele in caso di recesso dal rapporto di lavoro a tempo determinato e indeterminato modifica la flessibilità tipica del primo, in quanto l'elemento oggetto del ricorso principale non attiene alla particolare natura di tale contratto, né comporta alcuna conseguenza sulla esecuzione della sua struttura.

Infine, i giudici della Corte europea hanno chiarito quale sia il comportamento corretto che un giudice nazionale debba tenere laddove, nell'espletamento delle proprie funzioni, incorrano in una norma nazionale che non sia suscettibile di una interpretazione conforme alle disposizioni comunitarie, e che risulti in contrasto con previsioni di tale rango che non siano state recepite dal singolo Stato membro, né siano contenute in Regolamenti che potrebbero essere direttamente applicati nei rapporti tra privati. In tali casi – e, dunque, anche in quello di specie – nonostante il principio di non discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo determinato sia sancito da una fonte di legge che non consente di essere applicata direttamente, viene in soccorso l'art. 47 della Carta fondamentale dei diritti dell'Unione Europea, che garantisce il rispetto del diritto a un ricorso effettivo alla tutela giurisdizionale. In virtù di tale previsione, il giudice nazionale avrebbe dovuto, nel caso in esame, riconoscere la tutela giurisdizionale di cui all'art. 47 citato, garantendone la piena efficacia disapplicando, per quanto necessario, qualsiasi disposizione nazionale contraria.   

OSSERVAZIONI

L'ingiusta disparità di trattamento evidenziata dalla CGUE e la disapplicazione del diritto nazionale: riflessioni sull'attuale normativa italiana del lavoro a tempo determinato

La pronuncia in argomento esprime, con specifico riguardo all'ambito giuslavoristico, l'applicazione di uno dei principi fondanti dell'Unione Europea, ossia il divieto di ogni discriminazione.

La decisione appare di particolare rilievo, soprattutto per la forza impositiva di tale principio nella definizione interna delle legislazioni degli Stati membri, le cui previsioni sono suscettibili di essere messe da parte in caso di impossibilità di interpretazione filo-comunitaria.

Nel caso di specie, v'è da dire che la soccombenza della norma nazionale polacca risulta decisamente condivisibile laddove, a parità di condizioni di impiego – nel senso espresso all'interno della pronuncia in esame – non si comprende la ratio di una tale differenza di trattamento, posto che il recesso anticipato, come chiarito nella sentenza in esame, non è un istituto caratteristico del solo rapporto di lavoro a tempo indeterminato e che motivare una tale decisione non comporta una modifica della struttura del rapporto stesso in capo al datore di lavoro.

A ciò si aggiunga, peraltro, il blando “rimedio” disponibile nel caso di specie per il lavoratore a termine licenziato anticipatamente, cioè la possibilità di ottenere l'indicazione delle motivazioni che abbiano portato a tale decisione previo esaurimento di un procedimento giudiziale a ciò volto, e sulla base dell'ulteriore condizione che l'attore di un tale (sfidante) procedimento sia già in grado di evidenziare l'illegittimità della motivazione stessa. Dunque, a ben vedere, non si tratterebbe di un contenzioso volto a ottenere – iusso iudicis – la giustificazione non indicata dal datore di lavoro nell'atto di recesso, ma un ben più gravoso giudizio di accertamento giudiziale dell'inesistenza di una (qualunque) ragione valida alla base del recesso datoriale.

Ciò, con l'assurda conseguenza che, nel corso del procedimento principale, se il lavoratore sia spinto da mera necessità di conoscenza delle motivazioni alla base del proprio licenziamento, questi può avervi accesso solo ed esclusivamente se è (già) in grado di provarne l'illegittimità. A ben vedere, si tratta di un vero e proprio corto circuito giuridico che, nei fatti, agevola il datore di lavoro che voglia irrogare un recesso anticipati dal contratto di lavoro a termine.

Infine, all'esito delle considerazioni appena riportate, non si può non domandarsi quali conseguenze possano avere sull'attuale disciplina italiana relativa al rapporto di lavoro a tempo determinato le valutazioni espresse dalla CGUE nella decisione in argomento. A ben vedere, in effetti, la legislazione nazionale sul tema impone l'obbligo di motivazione del recesso anticipato, ammettendo la cessazione anzitempo del vincolo contrattuale solo nel caso in cui essa sia sorretta da una giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c., non consentendo, invece, alternative laddove, in assenza di una motivazione di tale natura, una delle parti desideri interrompere il vincolo contrattuale prima del termine pattuito.

Stante quanto precede, la normativa italiana sul punto non pare porre il medesimo vulnus alla tutela del lavoratore a tempo determinato evidenziato dalla giurisprudenza comunitaria nel caso in esame, non essendo consentito un recesso anticipato dal rapporto in mancanza di espressa motivazione (rectius, di una ragione che costituisca un inadempimento del lavoratore talmente grave da non consentire, neanche provvisoriamente, la continuazione del rapporto).

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