L’interesse del "terzo interessato" al reclamo contro la sentenza di liquidazione giudiziale

Emanuele Albesano
21 Maggio 2024

L’Autore, prendendo spunto da un recente arresto di merito, affronta la rilevante – e talora trascurata – questione dell’interesse a proporre reclamo avverso la sentenza di liquidazione giudiziale, anche con riguardo alla decorrenza del termine per l’impugnazione, alla luce di specifici casi concreti.

La decisione della Corte d’Appello di Torino

La Corte d’Appello di Torino ha avuto modo di pronunciarsi su uno dei primi casi di opposizione alla sentenza di liquidazione giudiziale, promossa non già dall’imprenditore fallito o dal creditore ricorrente, bensì da un terzo “interessato”.

In particolare, nel caso in esame, nell’impugnare il provvedimento di primo grado (reso a fronte di ricorso proposto in proprio dall’imprenditore medesimo), l’opponente ha rappresentato d’aver ottenuto il pagamento di un proprio credito verso la società insolvente all’esito di un’esecuzione forzata presso terzi, definitasi poco prima dell’apertura della procedura concorsuale.

La curatela della liquidazione giudiziale ha quindi chiesto la restituzione di tale pagamento, in quanto revocabile (essendo stato effettuato nel corso del cd. “periodo sospetto” ed in pacifica costanza di scientia decoctionis, in quanto eseguito a valle di esecuzione forzata individuale).

Di conseguenza, l’opponente ha ritenuto sussistente il proprio interesse ad agire in via di reclamo, per evitare di dover subire un’azione revocatoria cd. “fallimentare” in assenza di spontanea restituzione.

In accoglimento delle difese della curatela, la Corte ha, nel caso concreto, dichiarato inammissibile l’impugnazione in quanto tardiva, stante il decorso del termine di cui all’art. 51, comma 3, c.c.i.i., ritenendo assorbita la questione dell’interesse ad agire.

L'interesse alla proposizione del reclamo ai sensi dell'art. 51 c.c.i.i.

Pur essendo stato solo sfiorato nella pronuncia torinese, il tema dell'interesse del terzo reclamante è meritevole di approfondimento.

Per quanto qui di interesse, la norma di cui di cui all'art. 51 c.c.i.i. (in parte qua sovrapponibile alla previgente legge fallimentare) prevede che il reclamo avverso la sentenza che dichiari aperta la liquidazione giudiziale possa essere proposto:

  1. dalle “parti”, ovvero
  2. da “qualunque interessato”.

La definizione di cui al punto (i) non desta particolari perplessità: sono infatti “parti” in senso tecnico tutte quelle che abbiano formalmente partecipato al procedimento per la dichiarazione della liquidazione giudiziale, vale a dire il creditore ricorrente ed il debitore.

Viene peraltro negata la legittimazione attiva al reclamo in capo al Pubblico Ministero, “per la ragione che la legge gli riconosce il potere di instare per l'apertura della liquidazione giudiziale, ma non, all'incontro, per la revoca della stessa. Ai sensi dell'art. 50, comma 1, la legittimazione ad impugnare gli spetta pleno jure nell'ipotesi di rigetto della domanda di liquidazione giudiziale da parte del tribunale” (F. De Santis, Il ricorso del pubblico ministero per l'apertura della liquidazione giudiziale: tra interesse pubblico e modelli processuali comuni, in DC, 27 maggio 2021; analogamente, B. Riccio – C.L. Riccio, Il ruolo del Pubblico Ministero nella liquidazione giudiziale tra l'art. 7 della Legge fallimentare e l'art. 38 del Codice della crisi e dell'insolvenza, ivi, 4 febbraio 2023; per la norma previgente, F. Auletta, Iniziativa del pubblico ministero, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, Milano, 2010, 141 ss.).

Quanto invece al punto (ii), dottrina e giurisprudenza, anche di legittimità – nella vigenza della legge fallimentare, non risultando ad oggi, a quanto consta, precedenti editi resi con riferimento a vicende cui, ratione temporis, sia applicabile il codice della crisi – si sono in più occasioni interrogate sul perimetro della legittimazione attiva alla proposizione dell'impugnazione.

È stata in primo luogo sottolineata la peculiarità del procedimento impugnativo, promuovibile (oggi come ieri) da “qualunque interessato”, pur rimasto sostanzialmente e formalmente estraneo al procedimento per l'accertamento dell'insolvenza. Peculiarità che, secondo la Cassazione, “discende dalla natura stessa della dichiarazione di fallimento [oggi liquidazione giudiziale, n.d.r.], la quale dispiegava (e dispiega tuttora) i suoi plurimi effetti non solo nei confronti dei partecipanti alla fase prefallimentare, ma anche di pluralità di soggetti che con l'imprenditore avessero intessuto una svariata rete di rapporti: soggetti cui, per tale ragione, il legislatore attribuisce la legittimazione ad aggredire la sentenza dichiarativa” (Cass., 24 febbraio 2020, n. 4786, secondo la quale alla nozione di ‘interessato' vanno ricondotti tutti i soggetti “la cui posizione giuridica risulti incisa dalla sentenza dichiarativa di fallimento per la semplice ragione che il fallimento modifica l'assetto giuridico che li riguarda”).

Appare dunque sin d'ora evidente come l'estensione del perimetro dei legittimati attivi sia particolarmente ampia, di certo non tipizzata e rimessa alla valutazione (di merito) giudiziale.

Risulta quindi utile – ad opinione di chi scrive – provvedere ad una sintesi dei casi concreti sinora affrontati e decisi dalla giurisprudenza, al fine, tramite l'esemplificazione delle diverse fattispecie, di contribuire alla creazione di quell'elencazione che il legislatore ha preferito demandare agli operatori del diritto.

La casistica è, come può essere intuibile a valle delle premesse sopra esposte, quanto mai varia, essendo stati ritenuti legittimati:

  • gli “autori di atti pregiudizievoli ai creditori”, vale a dire – così come nel caso soggetto all'esame della Corte d'Appello di Torino – coloro che, nel corso del cd. “periodo sospetto”, abbiano ricevuto pagamenti revocabili (Cass., 24 febbraio 2020, n. 4786, cit.; Cass., 21 novembre 2018, n. 30107);
  • le “parti di rapporti pendenti”, che potrebbero vedere realizzati effetti non graditi sulla prosecuzione (o meno) dei contratti per effetto della dichiarazione di insolvenza, anche in conseguenza di valutazioni di opportunità e convenienza rimesse agli organi della procedura (Cass., 24 febbraio 2020, n. 4786, cit.);
  • i “creditori non istanti”, che, pur non avendo agito per la dichiarazione di insolvenza, ritengano preferibile – od anche solo maggiormente conveniente – tutelare i propri diritti mediante un'esecuzione forzata individuale (Cass., 24 febbraio 2020, n. 4786, cit.);
  • i soci della società fallita, anche in relazione alla posizione di creditori verso la società (App. L'Aquila, 10 ottobre 2012, n. 1139);
  • l'amministratore ed il sindaco di società di capitali, iure proprio, per “rimuovere gli effetti riflessi negativi che possano derivargli dalla dichiarazione di fallimento, sul piano sia morale – in relazione ad eventuali contestazioni di reati – che patrimoniale – in relazione ad eventuali azioni di responsabilità” (a Cass., 13 marzo 2019, n.7190; Cass., 28 giugno 2002, n. 9491; App. L'Aquila, 2 marzo 2015; App. Brescia, 14 maggio 2014); e ciò indipendentemente dal fatto che detto amministratore fosse o meno in carica al momento del deposito della sentenza dichiarativa dell'insolvenza, ben potendo, come noto, le azioni di responsabilità essere promosse anche contro ex membri dell'organo gestorio e di controllo;
  • il socio o l'amministratore occulto di una società di persone, in conseguenza dell'effetto estensivo della dichiarazione di fallimento sui soci illimitatamente responsabili (Cass., 27 marzo 2017, n. 7769);
  • i lavoratori subordinati alle dipendenze della fallita, stante il diritto del curatore di sciogliersi dal contratto di lavoro ex art. 72 l. fall. (Cass., 21 novembre 2018, n. 30107);
  • l'imprenditore fallito, anche in caso di chiusura della procedura per assenza di domande di ammissione o per avvenuto pagamento dei crediti, essendo in re ipsa il pregiudizio che la sentenza dichiarativa dell'insolvenza infligge alla reputazione commerciale (Cass., 4 dicembre 2012, n. 21681).

Da tale pur breve rassegna, appare dunque evidente come l'interesse al reclamo, legittimante i soggetti diversi dalle “parti”, non debba necessariamente coincidere con un “interesse dipendente”, potendo invece “essere correlato agli effetti pregiudizievoli anche indiretti, purché concreti, che conseguano (o possano conseguire) al fallimento [ed oggi alla liquidazione giudiziale, n.d.r.]”, stante la natura erga omnes della sentenza dichiarativa (Cass., 21 novembre 2018, n. 30107, cit., secondo la quale “l'interesse a impugnare la dichiarazione di fallimento deve essere invero affermato in relazione all'utilità giuridica di una eventuale rimozione della dichiarazione stessa”).

La decorrenza del termine per la proposizione del reclamo

Alquanto impattante sulla disciplina dell'impugnazione del provvedimento di liquidazione giudiziale (e, prima, della sentenza dichiarativa di fallimento ai sensi dell'art. 18 l. fall.) è altresì la questione della decorrenza del termine di trenta giorni per il deposito del reclamo. Si tratta, infatti, di tema strettamente operativo e procedimentale, ma non per questo di minor momento.

Il nuovo art. 51 c.c.i.i. non si discosta, sul punto, dall'art. 18 l. fall., nel chiarire testualmente che “il termine [di trenta giorni, n.d.r.] per il reclamo decorre, per le parti, dalla data della notificazione telematica del provvedimento a cura dell'ufficio e, per gli altri interessati, dalla data della iscrizione nel registro delle imprese”.

Ancora una volta, dunque, nulla quaestio per le “parti”, essendo incontestabile la data della notificazione del provvedimento (con la precisazione che il termine per impugnare non può comunque superare i sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, visto il richiamo al disposto di cui all'art. 327 c.p.c.: Cass., 4 ottobre 2023, n. 27916).

La decorrenza del termine per i “terzi interessati” solleva al contrario una potenziale aporia, nella misura in cui detti “terzi”, in concreto, non vengano (colpevolmente o meno) effettivamente a conoscenza della dichiarazione di liquidazione giudiziale. In tal caso, secondo una linea interpretativa, il dies a quo dovrebbe essere cristallizzato nel giorno della concreta conoscenza del deposito della sentenza, così da evitare una (anche solo potenziale) lesione dei diritti di difesa del “terzo interessato”.

Pur tuttavia, come confermato dall'arresto della Corte d'Appello di Torino in epigrafe, ciò che rileva è unicamente la “conoscenza legale del provvedimento”, dato dalla “iscrizione nel registro delle imprese della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale”.

Tale orientamento ha trovato ampio sostegno giurisprudenziale nel corso degli anni (ex multis, App. Palermo, sez. III, 9 luglio 2016, n. 1326), con alcune precisazioni.

Ad esempio, è stato chiarito che il socio della fallita, che reclami iure proprio, può impugnare entro trenta giorni dall'iscrizione della sentenza a registro delle imprese, indipendentemente dalla previa eventuale notifica alla società fallita (e quand'anche il socio abbia in concreto avuto notizia di tale notifica od abbia personalmente presenziato alle udienze cd. “prefallimentari”: così Cass., 7 settembre 2017, n. 20913).

Quale conclusiva nota ad colorandum, sono peraltro sempre state ritenute inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 18 l. fall., in relazione all'art. 24 Cost., sotto il profilo dell'irrilevanza dell'effettiva conoscenza del provvedimento da parte del terzo interessato ai fini della decorrenza del termine per l'opposizione. E ciò già venticinque anni or sono (da App. Genova, 9 giugno 1978, in Giur. comm., 1980, II, 648).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario