La liceità del recesso ad nutum nella società per azioni

28 Maggio 2024

La Cassazione, analizzando la disposizione di cui all'art. 2437, comma 4, c.c., che riconosce alle s.p.a. “chiuse” la possibilità di prevedere all'interno dello statuto “ulteriori cause di recesso”, ha stabilito che i soci possono recedere ad nutum.

Massima

È lecita la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell'art. 2437, comma 4, c.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso

Il caso

Un socio di una s.p.a. “chiusa” ha instaurato un giudizio arbitrale al fine di sentir dichiarare la legittimità del recesso ad nutum da lui esercitato dalla medesima società, sulla base della clausola statutaria secondo cui: “Anche al di fuori dei casi di cui sopra i soci possono comunque recedere con un preavviso di almeno centottanta giorni: in tal caso, il recesso produrrà effetti dallo scadere dei centottanta giorni”.

La domanda del socio è stata integralmente respinta sia dal Collegio Arbitrale sia, in sede di impugnazione, dalla Corte di Appello di Cagliari, la quale - ravvisando l'esistenza di un principio di ordine pubblico a tutela del capitale sociale e dei terzi - ha affermato la nullità, ai sensi degli artt. 1418 e 1419 c.c., della clausola statutaria che preveda il diritto dei soci di recedere ad nutum nelle società per azioni costituite a tempo determinato: nella prospettiva accolta dalla Corte di Appello, infatti, il recesso sarebbe stato inteso dal legislatore, in linea di principio, quale strumento di tutela del socio in disaccordo rispetto ad una determinata decisione di particolare rilievo e, pertanto, dovrebbe costituire eminentemente una reazione a specifici accadimenti in ambito societario tali da giustificarne l'uscita dalla compagine sociale.

Inoltre, i Giudici del gravame hanno escluso l'applicazione analogica dell'art. 2437, comma 3, c.c., ritenendo infondata l'equiparazione tra il termine di durata particolarmente lungo (fissato, nel caso di specie, al 2050) e la durata indeterminata della società.

Avverso la decisione della Corte di Appello, il socio soccombente ha proposto ricorso per cassazione, accolto dalla Suprema Corte, la quale ha appunto affermato la legittimità della clausola statutaria di una società per azioni costituita a tempo determinato che disponga la facoltà per i soci di recedere dalla società ad nutum con congruo preavviso.

Le questioni

Nell'esaminare la questione, la Corte di Cassazione ha analizzato la disposizione di cui all'art. 2437, comma 4, c.c., che, com'è noto, riconosce alle s.p.a. “chiuse” la possibilità di prevedere all'interno dello statuto “ulteriori cause di recesso”: al riguardo, ha osservato come né l'interpretazione letterale, né il richiamo alla legge n. 366 del 3 ottobre 2001 - la quale aveva delegato il legislatore ad introdurre ulteriori fattispecie di recesso a tutela del socio dissenziente (cfr. art. 4, comma 9) - possano essere ritenuti sufficienti ai fini della soluzione della questione che occupa. Da un lato, infatti, la formulazione della norma - secondo cui “[l]o statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere ulteriori cause di recesso” - non deporrebbe in modo univoco nel senso che tali ulteriori cause debbano necessariamente essere ascrivibili a situazioni specifiche o tendere esclusivamente a tutelare i dissenzienti rispetto a determinate decisioni; dall'altro lato, nemmeno dalla legge delega emergerebbe chiaramente che il legislatore abbia inteso prevedere il diritto di recesso solo ove ricollegabile al dissenso rispetto a scelte imprenditoriali della maggioranza.

La Corte di Cassazione, poi, ha delineato la ratio della disciplina del recesso nell'ambito delle società per azioni, osservando come la riforma del diritto societario avrebbe superato i due principi della tassatività delle cause di recesso e della preferenza per l'interesse all'integrità del patrimonio sociale ed alla prosecuzione dell'attività di impresa: in tale prospettiva, il diritto di recesso non troverebbe la propria ratio esclusivamente nel mero dissenso rispetto a scelte della maggioranza, bensì anche nella tutela della libertà di disinvestimento del socio.

Pertanto - secondo i Giudici di legittimità - l'ampliamento delle ipotesi di recesso costituisce uno dei mezzi che il legislatore ha utilizzato per favorire la competitività delle imprese tramite un più agevole accesso delle società al mercato dei capitali, dal momento che la propensione all'investimento tanto più aumenta, quanto più l'investitore possa confidare nella possibilità di un rapido disinvestimento.

Alla luce di ciò, la Corte di legittimità ha quindi ritenuto non più condivisibile la tesi del recesso come rimedio di natura eccezionale.

La Suprema Corte ha, infatti, osservato che il legislatore ha valorizzato l'autonomia statutaria anche in materia di recesso, rimettendo all'autonomia negoziale l'individuazione di ulteriori presupposti, in modo da bilanciare gli interessi contrapposti dei soci e della società, consistenti rispettivamente nella più ampia possibilità di exit e nel mantenimento del conferimento conseguito.

Tra tali ulteriori cause di recesso, secondo la Corte, rientrerebbe l'ipotesi in cui i soci abbiano deciso di consentire l'uscita dalla compagine sociale di ognuno di loro in base ad una mera dichiarazione di volontà.

Per altro verso, i Giudici di legittimità hanno confutato anche la principale obiezione mossa alla liceità del recesso ad nutum nelle società a tempo determinato, ossia quella attinente al rischio di c.d. depatrimonializzazione della società, chiarendo, da un lato, che il capitale sociale risulta avere - nelle tendenze evolutive dell'ordinamento - un ruolo sempre meno decisivo rispetto al passato e, dall'altro lato, facendo notare che il procedimento di liquidazione della partecipazione di cui all'art. 2437 quater c.c. garantirebbe che la società pervenga alla riduzione del capitale sociale ovvero allo scioglimento solo come extrema ratio.     

Da ultimo, è stato poi evidenziato che resta comunque ferma la possibilità di bilanciare il diritto di exit del socio e la preservazione del capitale sociale, prevedendo, ad esempio, un termine di preavviso superiore ai centottanta giorni o una preclusione per un certo periodo dell'esercizio del diritto di recesso.

Osservazioni

La questione dell'ammissibilità del recesso ad nutum statutario nelle società per azioni costituite a tempo determinato, affrontata dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, è stata oggetto di un acceso e lungo dibattito.

Innanzitutto, appare opportuno distinguerla da quella del recesso ad nutum nelle società costituite a tempo indeterminato.

In quest'ultima ipotesi, infatti, il diritto di recesso previsto dall'art. 2437, comma 3, c.c. è l'espressione, nel nostro ordinamento, del principio antiperpetualistico delle obbligazioni, principio di ordine pubblico a tutela dell'autonomia negoziale e del corretto fluire dei traffici economico-giuridici (recesso c.d. “determinativo”: cfr. DE NOVA).

Il recesso ad nutum nelle società a tempo determinato, oggetto della pronuncia in commento, è da ricollegarsi, invece, alla possibilità di introdurre convenzionalmente ulteriori cause di recesso, riconosciuta dalla riforma del diritto societario e rimessa all'autonomia negoziale dei soci.

D'altro canto, la giurisprudenza ha ormai definitivamente escluso, nelle società per azioni costituite con un termine particolarmente lungo, la possibilità di esercitare il diritto di recesso ad nutum non previsto statutariamente, respingendo:

  • l'applicazione analogica della disposizione di cui all'art. 2437, comma 3, c.c., non essendo assimilabili durata “indeterminata” e durata “lunga”, principalmente per esigenze di certezza e di tutela dei creditori sociali (cfr. la medesima Cass. 29 gennaio 2024, n. 2629; Cass. 5 settembre 2022, n. 26060);
  • l'applicazione analogica dell'art. 2285 c.c., dettato in materia di società di persone, secondo cui ogni socio può recedere nel caso in cui la società sia contratta per tutta la vita di uno dei soci, dal momento che tale fattispecie fa riferimento a connotazioni strutturali dei tipi personalistici estranei al modello della s.p.a. (Cass. 21 febbraio 2020, n. 4716; in dottrina, cfr. STELLA RICHTER jr.).

Quanto alla possibilità di introdurre una previsione statutaria che attribuisca al socio il diritto di recesso ad nutum, la Corte di Cassazione, con la pronuncia in esame, ha aderito all'orientamento - ritenuto minoritario in dottrina - favorevole, riconoscendo ampio spazio all'autonomia negoziale dei soci.

Secondo tale dottrina, infatti, il tenore letterale dell'art. 2437 c.c. non sarebbe totalmente incompatibile con la possibilità di consentire il recesso a fronte della mera volontà del socio: in tale prospettiva, infatti, la “causa” cui fa riferimento norma sarebbe rappresentata proprio dalla manifestazione dell'intenzione di recedere (VENTORUZZO).

Quanto alle esigenze di tutela dei creditori sociali, sempre dalla dottrina favorevole all'ammissibilità del recesso ad nutum è stato affermato che esse siano già state valutate dal legislatore, il quale - nelle società “chiuse” - ha scelto proprio di rimettere all'autonomia statutaria la facoltà di allargare le basi del diritto di exit: in tale contesto, d'altronde, i soci avrebbero maggiore consapevolezza dell'assetto operativo della società e le regole dell'organizzazione risultano essere il prodotto di una contrattazione informata (CAPPIELLO).

L'introduzione statutaria di nuove cause di recesso, dunque, ben potrebbe spingersi sino alla previsione di una clausola di ammissibilità generale del recesso ad nutum, laddove ritenuta dai soci rispondente agli interessi delle parti (CARMIGNANI).

In senso analogo, si sono espressi anche i Consigli Notarili di Milano e di Roma (rispettivamente con le massime n. 74 del 2005 e n. 5 del 2013), i quali hanno notato che, se - con un escamotage - è sufficiente non stabilire un termine di durata della società perché la legge consenta al socio di recedere liberamente, allora nulla impedirebbe di introdurre un recesso ad nutum pur in presenza di un termine di durata: l'unica condizione è che tale clausola preveda un periodo di preavviso di almeno 180 giorni, sancito dall'art. 2437, comma 3, c.c. 

Inoltre, è stato notato che, in ogni caso, i soci avrebbero la facoltà di introdurre in via pattizia numerose ipotesi di recesso, suscettibili di verificarsi tanto frequentemente da sollevare timori analoghi a quelli relativi ad una clausola di recesso ad nutum (VENTORUZZO).

A conclusioni opposte, invece, è giunta la dottrina prevalente.

Secondo una prima considerazione, il tenore letterale dell'art. 2437, comma 4, c.c., nella parte in cui prevede che sia possibile contemplare “ulteriori cause di recesso”, configurerebbe un limite all'autonomia statutaria nella necessaria indicazione e specificazione delle ipotesi che consentono il recesso (PISCITELLO; STELLA RICHTER jr. [3]): la norma, infatti, presupporrebbe un evento esterno alla mera volontà del socio, e di natura obiettiva (GALLETTI), escludendo un recesso avulso da una causa predefinita o da presupposti obiettivamente riscontrabili (TOFFOLETTO [2]).

Il recesso ad nutum, al contrario, sarebbe un recesso senza causa (CALANDRA BUONAURA; VASTA [2]): la volontà del socio di recedere, infatti, non potrebbe rappresentare una delle “cause” di recesso anche considerando che l'art. 2437bis c.c., nel regolare i termini e le modalità di esercizio del recesso per ipotesi diverse dalla deliberazione, si limita a prendere in considerazione la sola eventualità di un “fatto” che legittimi il recesso, di un evento cioè esterno ed ulteriore rispetto alla semplice determinazione del socio recedente (CAPPIELLO [2]; contra VENTORUZZO).

Secondo tale orientamento, inoltre, dai lavori preparatori e dalle disposizioni della citata legge delega n. 366/2001, emergerebbe la volontà del legislatore di ampliare le cause di recesso statutarie solo in presenza di specifiche situazioni che giustifichino una reazione del socio recedente.

Il legislatore avrebbe quindi configurato un nuovo diritto di recesso quale “efficace mezzo di tutela del socio avverso cambiamenti sostanziali dell'operazione a cui partecipa” (così la Relazione al d.lgs. n. 6/2003; cfr. VASTA): infatti, l'art. 4, comma 9, lett. d), l. n. 366/2001 imporrebbe l'ampliamento dell'autonomia statutaria “a tutela del socio dissenziente”, il che non consentirebbe di riconoscere la possibilità del recesso c.d. “di pentimento”, dove cioè non ci sia un socio dissenziente da tutelare rispetto a una deliberazione presa a maggioranza (TOFFOLETTO).

Tale dottrina ha altresì notato che il recesso ad nutum risulterebbe incoerente con quanto previsto dal medesimo art. 2437 c.c.: l'attribuzione di una facoltà di recesso ad libitum al singolo socio avrebbe l'effetto di rendere di fatto inutile il termine di durata apposto nell'atto costitutivo, il quale avrebbe effetto all'esterno, ma lascerebbe spazio ad una serie di termini ad personam, a detrimento, in ultima analisi, dei creditori sociali (BARTOLACELLI).

Inoltre, l'orientamento favorevole alla generale ammissibilità del recesso ad nutum non terrebbe conto della sua natura eccezionale (in quanto previsto esclusivamente per le s.p.a. a tempo indeterminato) (VASTA): infatti, se la causa del recesso ad nutum è da rintracciare esclusivamente nell'indeterminatezza della durata del vincolo sociale, non sembrerebbe, allora, meritevole di tutela l'interesse dei soci a sottrarsi in qualsiasi momento al rispetto del vincolo temporale pattuito, anche considerando la possibilità di prevedere un termine di durata adeguato alle esigenze dei soci, nonché il diritto di recesso del socio dissenziente in caso di proroga del termine (CALANDRA BUONAURA; PISCITELLO).

Da ultimo, in dottrina è stato affrontato il tema degli effetti che avrebbe una siffatta previsione statutaria; l'uscita ad libitum del socio minerebbe infatti l'interesse all'integrità patrimoniale della società e gli interessi dei creditori e, per tale via, anche quello alla continuità dell'attività di impresa (STELLA RICHTER jr. [2]).

Per un primo verso, la previsione statutaria del recesso ad nutum consentirebbe il recesso non solo ai soci di minoranza, ma anche ai soci di maggioranza, senza che l'esercizio di tale diritto sia correlato all'adozione di una determinata delibera ed a mutamenti rilevanti all'interno dell'organizzazione societaria.

Per altro verso, il soddisfacimento dei creditori potrebbe essere messo maggiormente a rischio qualora la società sia (magari frequentemente) costretta a provvedere alla liquidazione del socio receduto.

Sarebbe quindi necessario tutelare (rispetto all'incondizionato esercizio del diritto di recesso da parte del socio) la società ed il suo capitale sociale, ma, più in generale, il mercato, quale interrelazione tra imprese, consumatori e finanziatori: il diritto del singolo, in questa prospettiva, dovrebbe essere recessivo rispetto al favor societatis e al favor mercaturae (App. Cagliari, 26 giugno 2020, n. 352; BARTOLACELLI).

Ai fini del bilanciamento di tali interessi e dell'individuazione del “limite ultimo oltre cui la volontà dei soci non si può spingere” (BARTOLACELLI), dovrebbe, quindi, aversi riguardo all'ordine pubblico economico (ossia l'insieme dei princìpi che presiedono alla produzione e alla circolazione della ricchezza).

Tale tesi era stata accolta anche dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 21 febbraio 2020, n. 4716), la quale aveva riconosciuto che, nella “comparazione tra l'interesse del socio di S.p.A. a dismettere il suo investimento e l'interesse del resto della compagine e della società stessa di portare avanti il progetto imprenditoriale”, è il singolo a dover essere sacrificato, imponendosi “una interpretazione restrittiva delle norme che prevedono le ipotesi di recesso del socio di società per azioni”.

Inoltre, non può essere ignorato il fatto che l'ammissibilità di un recesso ad nutum potrebbe far sì che i soci di minoranza siano indotti ad utilizzare lo strumento in modo improprio, massimizzando i propri interessi in danno di quello sociale ovvero costringendo la maggioranza a concedere loro vantaggi estranei alla normale dialettica endoassociativa (GALLETTI); o ancora, potrebbero minacciare il recesso ogniqualvolta non siano d'accordo con una scelta gestionale, rendendo di fatto la società “prigioniera” dei suoi soci (BARTOLACELLI).

Si moltiplicherebbero, allora, le occasioni per la società di entrare in una condizione di immobilismo, dovuta alla scelta di limitare i processi di rinnovamento che potrebbero destare la preoccupazione degli investitori, con potenziale pregiudizio dell'innovazione e - in ultima istanza - della continuità dell'impresa sociale (GALLETTI). Pertanto, la clausola in questione sarebbe altresì immeritevole di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c., difettando un valido interesse economico sottostante, o, comunque, invalida per contrarietà all'ordine pubblico ai sensi dell'art. 1343 c.c., posto che la causa “concreta” potrebbe risiedere nell'intento pratico delle parti di abusare dello strumento del recesso, al fine di estrarre vantaggi opportunistici in danno dei terzi (GALLETTI).

In definitiva, secondo la prospettiva della dottrina maggioritaria, il diritto concesso al socio di recedere ad nutum dalla società contratta a tempo determinato travalicherebbe i confini concessi all'autonomia privata, senza essere controbilanciata da alcuna ragionevole giustificazione.

É stato poi notato che ammettere il recesso convenzionale ad nutum comprometterebbe la stessa causa del contratto di società (l'esercizio in comune dell'attività economica), non consentendo più una nitida distinzione tra l'investimento in una società lucrativa da altre forme di investimento, relegando le società di capitali a meri contenitori di risparmio, alla stregua dei fondi comuni di investimento aperti; né potrebbe ritenersi che la maggiore facilità di disinvestimento corrisponda necessariamente ad un aumento degli investimenti, posto che al contrario essa potrebbe causare una significativa crescita dei costi per le imprese al fine di procurarsi le risorse per far fronte all'esercizio del diritto di recesso, con conseguente contrazione dei rendimenti e degli investimenti e penalizzazione così degli stakeholders e dell'intero sistema (TOFFOLETTO).

Può essere utile segnalare che, con riferimento alla possibilità di consentire il recesso ad libitum dalla s.r.l., invece, si sono registrate maggiori aperture, anche da parte della stessa dottrina che ha nettamente escluso l'ammissibilità di tale previsione nello statuto della s.p.a. (STELLA RICHTER jr. [2]; CAPPIELLO [2]; VASTA): in proposito, si è infatti osservato che, in un modello societario come quello della s.r.l., in cui la “partecipazione” è intesa come un'operazione che può comportare anche una partecipazione propulsiva nelle decisioni sociali, appaia del tutto coerente il riconoscimento giuridico dell'interesse di uno o più soci a rinunciarvi in ogni momento.

Conclusioni

Le conclusioni cui è addivenuta la Corte di Cassazione possono esporsi certamente a molteplici riflessioni, anche alla luce delle diverse opinioni dottrinali e giurisprudenziali già espresse in precedenza.

La Corte di legittimità ha scelto di prediligere l'approccio più liberale, anche sulla base del convincimento che la valorizzazione dell'autonomia statutaria non confligga necessariamente con le esigenze dei creditori, i quali, per un verso, non potrebbero comunque accampare pretese sulla sorte degli utili distribuibili e sulle riserve disponibili della società, e, per altro verso, risulterebbero già tutelati dalle disposizioni codicistiche in materia di liquidazione della quota del socio recedente (cfr., in particolare, art. 2437-quater, commi 6 e 7, c.c.).

Appare indubbiamente in linea con le tendenze evolutive dell'ordinamento (non solo nazionale) negli ultimi decenni una concezione secondo cui debba essere lasciata, in ultima analisi, al mercato la valutazione di quelle società i cui statuti (già condivisi dai soci, evidentemente) prevedano una possibilità di recesso ad nutum anche in presenza di un termine di durata, non potendosi ravvisare l'esistenza di un prevalente principio di ordine pubblico economico (tale da comprimere, al riguardo, la volontà dei titolari dell'impresa societaria).

Un profilo problematico (se non altro sotto il profilo dei possibili rimedi) potrebbe continuare ad essere rappresentato dal fatto che tale clausola possa essere introdotta nello statuto a maggioranza e quindi anche in assenza di una comune volontà di tutti i soci; rimarrebbe però difficilmente superabile l'obiezione di chi osserva che non appare agevolmente ravvisabile la ratio di un trattamento differenziato tra società costituite a tempo indeterminato (per volontà dei soci, ovviamente) ed a tempo determinato (magari molto lungo).

Certamente auspicabile è che si stabilizzi in maniera celere un indirizzo (quantomeno giurisprudenziale) dominante: come osservato dalla più attenta dottrina, infatti, l'affidabilità delle soluzioni e la certezza del diritto è la prima qualità di un sistema che sia attrattivo per gli investimenti (TOFFOLETTO [3]), GIBARDO).

Riferimenti bibliografici

BARTOLACELLI, Profili del recesso ad nutum nella società per azioni, in Contratto e Impresa, 3, 2004, 1125 ss.; CALANDRA BUONAURA, Il recesso del socio di società di capitali, in Giur. comm., I, 2005, 304; CAPPIELLO, Prospettive di riforma del diritto di recesso dalle società di capitali: fondamento e limiti dell'autonomia statutaria, in Quad ric. Giur. Banca d'Italia, n. 54, 2001, 42; CAPPIELLO [2], Recesso ad nutum e recesso “per giusta causa” nelle s.p.a. e nella s.r.l., in Riv. dir. comm., I, 2004, 497 ss.; CARMIGNANI, sub 2437 c.c., in SANDULLI-SANTORO (a cura di), La riforma delle società, Torino, 2007, II, 882; DE NOVA, Il diritto di recesso del socio di società per azioni come opzione di vendita, in Riv. dir. priv. 2004, 333 ss.; GALLETTI, sub art. 2437 c.c., in MAFFEI ALBERTI (a cura di), Il nuovo diritto delle società, 2005, II, 1472 ss.; GIBARDO, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni tecnico comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in Giustizia insieme, 22 giugno 2021; PISCITELLO, Riflessioni sulla nuova disciplina del recesso nelle società di capitali, in Riv. società, 2005, 522; STELLA RICHTER jr., La costituzione delle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da ABBADESSA-PORTALE, Torino, 2007, 1, 299; STELLA RICHTER jr. [2], In tema di recesso dalla società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 2020, 2, 273 ss.; STELLA RICHTER jr. [3], Il recesso dalla società per azioni, in DONATIVI (a cura di), Trattato delle Società, 2022, III, 1153 ss.; TOFFOLETTO, Diritto di recesso e autonomia statutaria nelle società di capitali, Milano, Giuffré, 2004, 58; TOFFOLETTO [2], Il recesso nella nuova disciplina delle società di capitali, in Riv. dir. comm., 2004, I, 347 ss.; TOFFOLETTO [3], Diritto di recesso ed efficienza del sistema, in Le società, 3, 2023, 289 ss.; VASTA, Il recesso ad nutum di s.p.a. a tempo determinato, nota ad App. Cagliari 23 giugno 2020, n. 390, in Riv. soc., 3, 2021, 514; VASTA [2], Il recesso ad nutum di s.p.a. a tempo determinato, in Riv. soc., 2021, 3, 506 ss.; VENTORUZZO, I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso del socio, in Riv. soc., 2005, 338.

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