La disciplina italiana delle intercettazioni viola l’art. 8 CEDU

03 Giugno 2024

Captazioni del terzo non indagato e tutela della riservatezza secondo la Corte di Strasburgo. 

Massima

L'ordinamento italiano non offre garanzie adeguate ed efficaci per proteggere dal rischio di abusi le persone sottoposte a intercettazione che, non assumendo la qualifica di indagato o imputato, siano estranee al procedimento penale. In particolare, non è previsto che tali soggetti possano ricorrere all'autorità giudiziaria per ottenere la verifica effettiva della legittimità e della necessità della misura per ricevere, se del caso, un'adeguata riparazione. Alla luce di tali carenze, la disciplina italiana non soddisfa il requisito della «qualità della legge» e non è in grado di limitare l'«ingerenza» a quanto «necessario in una società democratica».

Il caso

Al vaglio della Corte europea dei diritti dell'uomo la compatibilità della disciplina italiana in materia di intercettazioni e perquisizioni con il «diritto al rispetto della vita privata e familiare» garantito dall'art. 8 CEDU. La Corte è stata investita della questione mediante il ricorso presentato da Bruno Contrada, già alto funzionario di polizia e vicedirettore dei servizi segreti civili (SISDE).

La Procura Generale di Palermo aveva disposto in via d'urgenza l'intercettazione delle utenze telefoniche in uso a Contrada, ritenendolo “informato sui fatti” per i quali erano in corso indagini. Il G.i.p. di Palermo convalidava il decreto di intercettazione ai sensi degli artt. 266,267 c.p.p. e 13 d.l. 152/1991, assumendo fossero configurabili «sufficienti indizi» di reato a carico degli indagati per fatti di mafia, e ravvisando la necessarietà, per lo svolgimento delle investigazioni, dell'ascolto delle conversazioni telefoniche di Contrada al fine di acquisire ulteriori elementi utili.

Frattanto, sulla base dei risultati delle captazioni, venivano disposti la perquisizione del domicilio di Contrada e di altri due immobili nella sua disponibilità, nonché il sequestro delle cose pertinenti al reato ivi reperite. In quell'occasione, il ricorrente, leggendo il contenuto del decreto dell'A.G., prendeva incidentalmente cognizione di essere intercettato. La Procura, ritenuta la non necessarietà del mantenimento del vincolo cautelare a fini di prova, restituiva spontaneamente le cose sequestrate (art. 262 c.p.p.).

Nel ricorso presentato alla Corte dei diritti umani, il ricorrente lamentava un'ingerenza ingiustificata nella propria sfera privata e l'impossibilità di ottenere un controllo giurisdizionale effettivo sui provvedimenti con i quali erano state disposte le intercettazioni e le perquisizioni nel quadro di un procedimento penale al quale era rimasto formalmente estraneo, non avendo mai assunto la veste di indagato. Sul punto denunciava la violazione degli artt. 8, 6 e 13 CEDU. Secondo la tesi della parte, le intercettazioni erano state effettuate in assenza di un'adeguata base giuridica poiché l'art. 267 c.p.p., nel disciplinare i presupposti dell'istituto, non permette di individuare ex ante le categorie di soggetti che possono essere intercettati, così determinando la carenza di tassatività e prevedibilità della normativa nazionale. Quest'ultimo difetto della legge non sarebbe colmato neppure in via interpretativa tramite la giurisprudenza della Cassazione, che ammette la possibilità di captare le conversazioni del terzo.

Il Governo italiano eccepiva preliminarmente la carenza di legittimazione processuale del ricorrente per mancanza dello status di «vittima», alla luce dell'autonoma nozione ricavabile ex art. 34 CEDU. L'irricevibilità veniva eccepita, altresì, per il mancato previo esaurimento dei rimedi domestici: Contrada avrebbe infatti dovuto proporre riesame avverso il decreto di sequestro (artt. 257 e 324 c.p.p.). Per quanto concerne le intercettazioni, lo stesso avrebbe potuto accedere alle decisioni della Procura e del GIP ai sensi dell'art. 116 c.p.p., che consente a «chiunque vi abbia interesse» di ottenere il rilascio di copie di atti processuali, facendo valere il proprio diritto alla riservatezza ed eventualmente richiedendo la distruzione della relativa documentazione (art. 269 c.p.p.). Inoltre, secondo l'assunto dello Stato chiamato a rispondere delle presunte violazioni euroconvenzionali, l'art. 271 comma 3 c.p.p., nell'imporre al giudice la distruzione delle intercettazioni effettuate in maniera illegittima in ogni stato e grado del processo, tutelerebbe i diritti di tutti gli interessati. Infine, l'eventuale abnormità dell'atto processuale sarebbe stata deducibile mediante ricorso in Cassazione.

Nel merito, l'Avvocatura di Stato sosteneva che la disciplina delle intercettazioni offre un quadro sufficientemente garantistico, prevedendo rigorosi requisiti. Nel caso di specie, oltretutto, la necessità di intercettare un non indagato e la proporzionalità della misura sarebbero state apprezzabili in ragione delle dettagliate motivazioni dei decreti adottati dall'autorità giudiziaria, si evidenziava un collegamento diretto tra l'intercettato e i fatti di reato oggetto di accertamento.

La questione

La questione sottoposta ai Giudici di Strasburgo involge la ricerca di un punto di equilibrio nel rapporto, fisiologicamente “sbilanciato”, tra la tutela dei diritti umani, così come enucleati nella Convenzione e interpretati dalla Corte EDU, e le esigenze investigative. Perquisizioni e intercettazioni balzano all'occhio nella prassi quali mezzi di ricerca della prova potenzialmente assai lesivi della sfera privata, il che deve indurre il legislatore nazionale alla predisposizione di regimi giuridici particolarmente ponderati con riferimento alle forme di ingerenza del procedimento penale. Tale bilanciamento impone un approccio ancora più cauto ove emerga l'esigenza di tutelare soggetti terzi occasionalmente coinvolti dalle indagini.

La disciplina italiana delle perquisizioni e delle intercettazioni offre garanzie adeguate ed effettive contro il rischio di abusi per il terzo estraneo al procedimento penale alla luce dell'art. 8 CEDU?

Ulteriori questioni collegate a quella principale:

La facoltà per gli interessati di richiedere la distruzione della documentazione relativa alle operazioni di intercettazione è sufficiente a garantire la tutela della riservatezza del terzo?

Esiste nell'ordinamento italiano uno strumento che consenta al terzo di promuovere il controllo ex post sulla legittimità delle intercettazioni subite?

Il procedimento di riesame, prima dell'introduzione dell'art. 252-bis c.p.p., costituiva un rimedio giurisdizionale effettivo per il vaglio di legalità e proporzionalità della perquisizione? 

Le soluzioni giuridiche

La Corte EDU dichiara, a maggioranza, irricevibile il motivo di ricorso riguardante gli atti di perquisizione per mancato esaurimento dei rimedi domestici: il ricorrente avrebbe invero dovuto previamente proporre riesame ai sensi degli artt. 257 e 324 c.p.p.

In relazione alla disciplina delle intercettazioni, di contro, i Giudici di Strasburgo ravvisano all'unanimità la violazione dell'art. 8 CEDU poiché la legge italiana non offre a chi sia intercettato senza rivestire lo status di parte nel procedimento penale, garanzie adeguate ed effettive contro eventuali abusi. A tali soggetti, infatti, è precluso l'accesso ad un'autorità giudiziaria per promuovere il controllo sulla legittimità, proporzionalità e necessità dell'atto e, in caso di lesione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, non può aver luogo alcuna forma di riparazione.

In particolare, nell'affrontare le questioni sottoposte al proprio esame, la Corte preliminarmente respinge l'eccezione sollevata dal Governo italiano circa il difetto di legittimazione ad agire in capo al ricorrente per carenza della qualifica soggettiva di vittima ai sensi della Convenzione. La circostanza che il suo domicilio sia stato perquisito e le sue comunicazioni intercettate evidenzia ipso facto come il medesimo possa ritenersi vittima della violazione di un diritto fondamentale.

Per quanto concerne la condizione di ammissibilità che fa leva sul previo esperimento dei ricorsi interni, la Corte, richiamando i propri precedenti in materia, evidenzia come l'art. 35 CEDU si riferisca unicamente a quei rimedi giurisdizionali che rispondono ai criteri di accessibilità, adeguatezza ed effettività rispetto al caso concreto, offrendo al ricorrente forme di riparazione adeguate e ragionevoli prospettive di successo. Più specificamente, l'effettività dei mezzi di ricorso interni con riferimento agli atti lesivi dell'art. 8 CEDU va calibrata alla luce della possibilità di un controllo sulla legalità e necessità della misura, al pari dell'esistenza di rimedi adeguati alle circostanze del caso concreto e alla natura della violazione.

Si rammenta come il decreto di perquisizione non potesse formare oggetto di autonoma impugnazione all'epoca dei fatti e, tutt'al più, il ricorrente, nella qualità di «interessato», avrebbe potuto proporre riesame, posta l'esecuzione di un sequestro a seguito della perquisizione. La Corte EDU valorizza tale circostanza, richiamando la giurisprudenza della Cassazione italiana che ammette la deduzione dei vizi concernenti la legalità del decreto di perquisizione con il riesame, seppure in ottica di continuità rispetto all'impugnazione del sequestro. Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto contestare la genericità e sproporzione del decreto di perquisizione nel contesto di quella procedura.

Non sono dello stesso avviso i Giudici Hüseynov e Felici, firmatari di una dissenting opinion parziale. Questi ultimi, invero, non ritengono che il riesame potesse considerarsi, sotto la vigenza della precedente disciplina, un rimedio «effettivo» ai sensi della Convenzione proprio in quanto ammissibile solo avverso la decisione con cui si dispone il sequestro ed in presenza di provvedimenti «interdipendenti». La disciplina italiana, in aggiunta, non prevede un'adeguata soddisfazione dell'interesse sotteso al riconoscimento della violazione dell'art. 8 CEDU persino in caso di accoglimento della richiesta di riesame, che può condurre unicamente alla restituzione delle cose sequestrate e al divieto di utilizzazione delle prove illegittimamente acquisite – una magra consolazione per il terzo. In breve, il motivo di ricorso avrebbe dovuto essere affrontato nel merito. Già in Brazzi c. Italia, del resto, la Corte EDU aveva evidenziato l'assenza di un controllo giurisdizionale effettivo per l'individuo che subisce una perquisizione domiciliare non sfociata in sequestro. Sul punto, la c.d. riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022) pare aver conformato l'ordinamento interno alle indicazioni dei Giudici di Strasburgo, grazie all'introduzione dell'istituto dell'opposizione al decreto di perquisizione (art. 252-bis c.p.p.).

Rispetto alla quaestio sulle intercettazioni – affrontata nel merito – il ragionamento della Corte prende le mosse dalla constatazione che tali atti costituiscono un'ingerenza da parte dell'autorità pubblica nell'esercizio dei diritti di cui all'art. 8 CEDU. Ciò premesso, la questione ricade sulla verifica della legittimità di tale ingerenza ai sensi del secondo paragrafo dell'art. 8 della Convenzione, alla luce dei criteri cardine della «previsione legislativa» e della «necessità» del provvedimento per il conseguimento di scopi leciti in un regime democratico, quali la tutela della pubblica sicurezza, la difesa dell'ordine e la prevenzione dei reati. Nel caso di specie, le intercettazioni sono state certamente disposte sulla base di una previsione legislativa che, tuttavia, richiede un vaglio sotto al profilo della «qualità della legge» – nozione che richiama i caratteri di accessibilità, conoscibilità̀ e sufficiente prevedibilità̀ della norma.

Nonostante la disciplina positiva italiana non consenta di individuare ex ante la rosa di soggetti intercettabili (poiché la formulazione dell'art. 267 c.p.p. richiede la presenza di gravi indizi di «reato» e non di «colpevolezza»), la Corte non ravvisa in proposito violazioni dei diritti umani. La prevedibilità della legge viene invero garantita mediante un apposito obbligo motivazionale in capo all'autorità giudiziaria procedente: la motivazione deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l'intercettazione di una determinata utenza telefonica che fa capo ad una specifica persona e, perciò, non può omettere di indicare il collegamento tra l'indagine in corso e l'intercettando.

In generale, il regime delle intercettazioni di cui agli artt. 266 ss. c.p.p. soddisfa efficacemente quegli standard minimi di garanzia richiesti dall'applicazione della Convenzione. La vicenda Contrada dimostra, tuttavia, come l'assetto codicistico risulti garantistico esclusivamente per le parti processuali. Solo chi è parte ha infatti diritto di essere informato al termine delle operazioni di intercettazione, mentre nulla assicura la discovery delle captazioni nei riguardi del terzo intercettato. Il soggetto che rimane estraneo al procedimento non ha diritto alla notificazione di alcun avviso e potrebbe non sapere mai di essere stato intercettato. La facoltà di cui all'art. 116 c.p.p. è vana se il soggetto non sa di essere un «interessato». Per la Corte, la questione sulla discovery è indissolubilmente legata a quella dell'effettività dei mezzi di ricorso e quindi all'esistenza di garanzie effettive contro gli abusi. Ma, quid iuris nell'ordinamento italiano? Non esiste alcuna disposizione che permetta al terzo di ricorrere all'autorità giudiziaria per ottenere un controllo effettivo sull'intercettazione subita o, tantomeno, qualsivoglia forma di riparazione. Per questi motivi la legge italiana non soddisfa il requisito della «qualità della legge» e non appare in grado di limitare l'«ingerenza» a quanto strettamente «necessario in una società democratica». Sulla base di tali considerazioni la Corte conclude dichiarando la violazione dell'art. 8 CEDU nel caso di specie e condannando lo Stato italiano al risarcimento del danno in favore del ricorrente.

Osservazioni

La pronuncia segnalata offre interessanti spunti di riflessione in prospettiva de jure condendo. La disciplina delle intercettazioni rappresenta infatti un banco di prova per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo. La Corte EDU evidenzia senza mezzi termini una défaillance sistemica in punto di adeguate garanzie per il terzo estraneo ai fatti oggetto del procedimento penale. Il tema pare acquisire sempre maggiore pregnanza anche per il legislatore nazionale, come testimoniano le modifiche introdotte con la l. 7/2020, ma la strada da percorrere per assicurare la tutela della riservatezza dei terzi alla luce del dettato costituzionale e convenzionale appare ancora lunga. Particolarmente interessante è che i Giudici di Strasburgo abbiano finalmente posto l'accento sulla rilevanza della discovery anche per soggetti diversi dall'indagato o imputato, i quali potrebbero divenire destinatari dell'avviso di deposito della documentazione relativa alle intercettazioni in quanto soggetti interessati, così da poter partecipare all'udienza di stralcio. In tal modo, anche al terzo sarebbe consentito far valere l'eventuale illegittima ingerenza nella propria sfera personale, inserendosi in una parentesi procedimentale. Tuttavia, se tale soluzione potrebbe non risultare particolarmente onerosa avuto riguardo al terzo direttamente intercettato, non pare possa dirsi lo stesso in merito alla diversa situazione del terzo le cui conversazioni vengano casualmente captate nel contesto di operazioni condotte sull'utenza di altri soggetti.

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