E se provassimo a “ristrutturare” il concetto di danno biologico?

04 Giugno 2024

La recente delibera del Consiglio di Stato, emessa a seguito della nuova proposta di TUN, pone un problema sostanziale relativo alla necessità di approfondimento e miglior definizione – ai fini risarcitori – dei  “postulati”  che sono alla base del danno alla persona: il danno biologico e il danno morale.

 

Il danno morale

In tema di danno morale, si è avuta di recente ulteriore conferma della Cassazione (Cass. civ. 13 maggio 2024, n. 12943) che sintetizza i principi:

 “……….Il riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria, dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono integralmente la propria autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale non essendone in alcun modo giustificabile l'incorporazione nel c.d. danno biologico( con riguardo al danno morale )di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale ,meritevole di un compenso aggiuntivo al di la della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico relazionali della vita individuale…”. Venendo al "dunque ".... con quale criterio va poi liquidata tale autonoma e distinta voce di danno... evitando  possibili equivoci "applicativi "?

Il danno biologico

Il concetto di danno biologico esprime la traduzione di un parametro di “disfunzionalita' psichica o fisica" rapportata al valore assoluto di validita' biologica dell'essere umano che dovrebbe poi riflettersi alle  comuni  conseguenze di danno sul fare e sentire di una persona costretta a convivere con una determinata condizione menomativa.

Il parametro in se' considerato, tuttavia, non ha un valore di riferimento “automatico“ ed assoluto rispetto all'effetto previsto (cioè la ricaduta sui comuni atti e rapporti relazionali della vita quotidiana) in quanto non chiarisce "come", "quanto" e "quando" si inserisce il rapporto causa-effetto, ma assume esclusivamente una valenza “teorica“ di disfunzionalità “anatomo/psichica", calcolata su “sotto-valori convenzionali presuntivi e  prestabiliti“ che non possono mai superare il 100%, che corrisponde alla perfetta validità biologica dell'essere umano.

Questo è il motivo per cui gli stessi parametri sono rimasti sostanzialmente invariati dall'epoca dei primi barème medico legali degli anni 60' , allorchè  l'effetto, cioe' la conseguenza di danno risarcibile , riguardava la riduzione della capacità lavorativa generica,  fino agli anni 80' quando lo stesso parametro è stato trasferito al “danno biologico“ (passando, peraltro, da un riferimento liquidativo  di ordine “patrimoniale“ ad un riferimento di ordine “non patrimoniale“).

La “dissonanza“ interpretativa appare evidente se si confrontano i barème nazionali con quelli di altri Paesi: ad esempio la Francia dove i parametri vengono identificati solo per quello che sono: esclusivamente variabili di disfunzionalità funzionale anatomo psichica rispetto al valore assoluto del 100%, suscettibili  – come tali – anche di  essere inseriti in un algoritmo In ogni caso sono  parametri che  non consentono di determinare in via “automatica“ i differenti “effetti“ di danno alla persona e quindi le relative variabili risarcitorie. 

Se ciò vale per il danno biologico (ove in vero è possibile intervenire tecnicamente qualificando separatamente – in termini di sofferenza correlata – la determinata condizione menomativa del danneggiato), a maggior ragione dovrebbe valere per il cosiddetto “danno morale interiore“, giuridicamente distinto dal danno biologico, se si considera che  questo di fatto continua ad essere liquidato – con criterio algoritmico – quale  variabile incrementativa di una “asettica e convenzionale“ invalidita' permanente. 

La prima ipotesi, dunque, riguarderebbe la necessita' di qualificare il parametro della invalidita' permanente biologica, cioe di “umanizzare“ la “percentuale“ al fine di cercare di renderla maggiormente  rapportabile  ed equilibrata ( e quindi più equa) rispetto all'”effetto liquidativo richiesto per il risarcimento della componente “ base “ del  danno non patrimoniale.

Distinguendo necessariamente il concetto di “umanizzazione“ (che afferisce agli aspetti “qualitativi “ della menomazione” ) da quello di “personalizzazione“ ( che attiene a differenti riferimenti probatori , che esulano dalle competenze tecniche valutative del medico legale).

Tornando al “danno morale interiore” e senza voler invadere “campi altrui", quello che crea una certa perplessita' interpretativa non è tanto il principio ripetutamente espresso dalla Cassazione sull' “essenza giuridica” ed autonomia liquidativa  di tale voce di danno , ma la sua traduzione monetaria : concettualmente distinta dal danno biologico , ma comunque calcolata – in un sistema tabellare – con un rapporto percentualistico rispetto alla invalidita' permanente biologica , la quale , in sé- non consente di individuare alcun connessa e proporzionale  “condizione di sofferenza”. 

Motivo per cui non vi sarebbe alcuna logica nel potersi continuare ad  affermare che “..più aumenta l'invalidità permanente, più aumenta sempre  qualsiasi sofferenza..”. 

Con ciò risultando sostanzialmente superati i presupposti normativi (lettera C e lettera E del dispositivo dell'art 138 del CDA), risalenti ad epoca antecedente all'introduzione del concetto di “danno non patrimoniale". 

Come si può – ad esempio – affermare che la disistima, il perturbamento dell'animo, la lesione della dignita' della persona abbiano lo stesso “valore“ a fronte di una analoga invalidita' permanente, se non si conosce la “natura”  della condizione menomativa ..?

Mi chiedo, ad esempio: possono patire la stessa sofferenza interiore due soggetti ai quali è stata riconosciuta una invalidita' permanente del 15 % di cui, la  primo derivante dagli esiti di un trattamento protesico del ginocchio ed la  seconda riconducibile  dalla somma di modeste componenti menomative che – come appare dalla comune esperienza medico legale – possono avere spesso solo occasionali ricadute sul fare quotidiano e nessuna ricaduta sul sentire …?

Spesso poi il cosiddetto ”perturbamento dell'animo” ovvero il “patema d'animo” afferiscono all'evento “lesivo“ e non alla menomazione oppure si inseriscono in differenti modalità circostanziali del fatto illecito  che hanno differenti rilevanze in termini di condotta : in tali casi, che rapporto liquidativo sussiste con l'invalidità permanente biologica ..?

Analizzando le oggettive e distinte valenze probatorie , ai fini risarcitori, una ipotesi tabellare equilibrata di liquidazione del danno alla persona dovrebbe quindi contenere:

  1. Il parametro quantitativo  di “disfunzionalità anatomo /psichica” ( invalidità permanente);
  2. La variabile qualitativa  della “sofferenza menomazione correlata” basata su 3 livelli principali, salvo i casi di estrema rilevanza (e  a prescindere dalle eventuali componenti di personalizzazione );
  3. La variabile  del “danno morale interiore”.

Conclusioni

La recente delibera del Consiglio di Stato , emessa a seguito della nuova proposta di TUN , pone dunque un problema sostanziale relativo alla necessità di approfondimento e miglior definizione – ai fini risarcitori – dei  “postulati”  che sono alla base del danno alla persona: il  danno biologico e il danno morale.

Soluzione che richiederebbe – con l'apporto congiunto del Giurista e del medico legale – una preliminare revisione “tecnica” del concetto di danno biologico e – contestualmente – un adeguato ed autonomo inquadramento risarcitorio del danno morale.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.