Come opera nell'assicurazione malattia il "criterio analogico"?
04 Giugno 2024
La vicenda esaminata dai giudici riguardava un giudizio instaurato da una compagnia di assicurazione nei confronti di un suo assicurato avanti al tribunale di Cosenza, volto ad ottenere l'accertamento dell'inesistenza di crediti indennitari del convenuto verso la compagnia assicuratrice. L'assicurato, costituitosi in giudizio, chiedeva in via riconvenzionale la condanna dell'attrice: a) al pagamento dell'indennizzo dovuto da contratto; b) al risarcimento del danno patito conseguente al rifiuto della compagnia assicuratrice di dar corso all'arbitrato previsto da contratto. Il Tribunale di Cosenza accoglieva la domanda di condanna dell'assicuratore al pagamento dell'indennizzo, rigettando quella di risarcimento del danno. La sentenza veniva appellata dalla compagnia di assicurazione, risultata vittoriosa in appello atteso che «l'invalidità causata dalla malattia andava stimata in misura pari al 50%, e che di conseguenza nessun indennizzo era dovuto all'assicurato. » La sentenza d'appello veniva impugnata dall'assicurato in cassazione, che, con il primo motivo di ricorso, sosteneva una tesi così riassumibile: nell'assicurazione contro le malattie i criteri di quantificazione dei postumi causati dalla malattia sono stabiliti dal contratto e sono inderogabili. Nel caso di specie il contratto stabiliva che i postumi dovessero quantificarsi in base alla tabella delle invalidità allegata al d.p.r. 30.6.1965 n. 1124. La tabella allegata al suddetto decreto non contemplava il diabete mellito, sicché l'entità dei postumi andava quantificata - per espressa previsione contrattuale - in base al tipo di invalidità, tabellarmente previsto, più prossimo a quella accertata in concreta. La voce tabellare più prossima al diabete mellito era la voca “pancreatectomia subtotale o totale con alterazioni escretorie e diabete insulinodipendente”. Per tale voce la tabella allegata al TU infortuni sul lavoro prevedeva una invalidità compresa tra l'80% ed il 100%. Pertanto, la Corte d'appello, quantificando i postumi nella misura del 50% al fine di “adattare” il caso concreto alla reale entità dei postumi, aveva adottato una decisione contrastante coi patti contrattuali. La Cassazione riteneva la censura infondata, atteso che il «ricorrente muoveva dall'assunto che una volta individuata la “voce” tabellare di riferimento, la percentuale ivi prevista doveva essere obbligatoriamente applicata sia nel caso in cui quella voce corrispondesse all'invalidità accertata in corpore, sia nel caso in cui fosse applicata per analogia». Non questi, però – secondo i giudici - erano i patti contrattuali, in quanto la polizza trascritta dalla società controricorrente, prevedeva che «nei casi di invalidità non previsti in tabella, la valutazione verrà effettuata con riguardo ai casi di invalidità permanente previsti, nella misura della definitiva diminuzione della capacità lavorativa generica dell'Assicurato ad un qualsiasi lavoro proficuo, indipendentemente dalla sua professione». Il contratto, pertanto, nel caso di invalidità non previste dalla tabella, imponeva di adattare e non recepire tout court, il grado di invalidità previsto per le invalidità più affini per causa e sintomi a quella verificatasi in concreto. Secondo la Cassazione restava, quindi, esclusa da parte del giudice di merito la violazione delle previsioni contrattuali. Con la seconda censura il ricorrente lamentava la violazione delle regole sull'interpretazione dei contratti, in particolare degli artt. 1322 e 1367 c.c. Anche questa censura per la Suprema Corte era infondata dal momento che: «i contratti stabiliscono che i postumi non elencati dal contratto […], oppure non elencati dal differente criterio richiamato per relationem (solitamente, la tabella di legge per la determinazione dei postumi degli infortuni sul lavoro o delle malattie professionali), vadano determinati con criterio analogico» che consiste nell'assegnare una pari percentuale di invalidità a postumi di pari gravità. L'applicazione di tale criterio comporterà dunque la liquidazione dell'indennizzo in base alla percentuale di invalidità tabellarmente prevista, «se i postumi accertati in corpore e quelli descritti dalla tabella coincidono quanto a gravità. Negli altri casi, l'applicazione del criterio analogico comporterà necessariamente un adattamento dei valori tabellari». In conclusione, per la Suprema Corte è insostenibile la pretesa del ricorrente per cui l'art. 1367 c.c. sarebbe violato solo perché il sinistro concretamente avvenuto non è stato ritenuto escluso dalla copertura assicurativa. Non veniva ritenuto fondato nemmeno il motivo di ricorso inteso a reclamare il risarcimento del danno “da mancato espletamento dell'arbitrato”. Per la Cassazione: «per pretendere il risarcimento di un danno occorre vantare un diritto e dimostrare che questo sia stato leso. Per pretendere un danno da “mancato svolgimento dell'arbitrato” occorrerebbe dunque sostenere di avere diritto alla procedura arbitrale, e che correlativamente l'assicuratore sia venuto meno all'obbligo di aderirvi». Tuttavia, una procedura arbitrale può essere obbligatoria o facoltativa. Pertanto «se l'arbitrato era obbligatorio, il presente giudizio non poteva essere proposto e il ricorrente non ha interesse a proporre il relativo motivo: presupposto per l'accoglimento di esso sarebbe infatti l'accertamento della obbligatorietà della procedura arbitrale, accertamento che renderebbe addirittura inammissibile la sua domanda e imporrebbe la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata e di quella di primo grado, ex art. 382 c.p.c.». |