Liquidazione volontaria e spettanza degli utili di liquidazione tra usufruttuario e nudo proprietario

Giovambattista Palumbo
05 Giugno 2024

La Corte di Cassazione, con la sentenza 11170 del 26 aprile scorso, ha chiarito alcuni rilevanti profili, civilistici e tributari, in tema di utili da liquidazione.

Massima

Nel caso in cui la quota sociale di una società a responsabilità limitata sia costituita in usufrutto, le somme ricavate dalla liquidazione volontaria della società, costituenti un utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l'acquisto o la sottoscrizione delle quote, spettano all'usufruttuario, con la conseguenza che il rapporto d'imposta avente ad oggetto il rimborso del relativo credito di imposta sorge, ad ogni effetto, tra l'Amministrazione finanziaria e l'usufruttuario.

Il caso

La società contribuente aveva presentato la dichiarazione Mod. Unico 2003, completa di Quadro RM ("redditi a tassazione separata"), indicando nella Sez III redditi pari ad euro 5.277.090, derivanti dalla liquidazione volontaria di altra società, delle cui quote era nuda proprietaria. La contribuente si aspettava la liquidazione di un credito d'imposta pari ad euro 1.882.200, ed essendo l'Amministrazione rimasta inerte, aveva poi presentato istanza di rimborso.

Avverso il silenzio rifiuto, il contribuente proponeva infine ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, sostenendo che il residuo attivo risultante dalla liquidazione della società spettava al socio nudo proprietario e non all'usufruttuario, dato che nella fase di scioglimento del vincolo sociale la posta di patrimonio netto dalla quale vengono prelevate le somme diverrebbe irrilevante. Pertanto, avendo il socio conferito denaro, qualora in esito alla liquidazione della società vi fosse stato un "plusvalore", esso, secondo la tesi della ricorrente, sarebbe dovuto appartenere al socio, instaurandosi il rapporto di imposta generatore del credito d'imposta tra l'Agenzia delle Entrate e il socio nudo proprietario e non tra l'Agenzia delle Entrate e l'usufruttuario.

La Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso, con sentenza poi confermata anche in appello.

Avverso la sentenza della CTR il contribuente proponeva infine ricorso per cassazione.

La questione

La ricorrente deduceva in particolare la violazione e falsa applicazione degli artt. 981,982,984,1000 e 2352 c.c. e degli artt. 44, comma 7 e 14 del Tuir (vigenti ratione temporis), censurando la sentenza impugnata nella parte in cui aveva affermato che “in sede di liquidazione era stato distinto, all'interno dell'attivo complessivamente risultante e poi distribuito, l'importo derivante dal capitale da quello derivante dagli utili, ed il fatto che questi utili non siano stati distribuiti in precedenza per la Commissione non ne fa venir meno la natura giuridica di frutto della gestione economica del capitale”.

Il contribuente sosteneva invece che, una volta che si addivenga alla liquidazione volontaria della società, il residuo attivo che risulta dalla soddisfazione di tutti i creditori sociali deve essere distribuito ai soci e diventa una "massa patrimoniale indistinta", all'interno della quale non possono distinguersi gli utili, spettando quella massa patrimoniale indistinta interamente al socio nudo proprietario.

E aggiungeva il contribuente che la preoccupazione che l'usufruttuario veda svanire il suo diritto reale non sussiste, in quanto l'art. 1000 c.c. prevede comunque il mantenimento dell'usufrutto sulle somme assegnate al socio, il quale potrà disporne solo col consenso dell'usufruttuario.

Il residuo attivo, in sostanza, altro non sarebbe che capitale da restituire al socio, tant'è vero che non viene distribuito in seguito ad una delibera assembleare, ma quale “ultimo necessitato atto della vita sociale”.

Secondo la ricorrente, le somme derivanti dal residuo attivo di liquidazione non costituivano quindi, tecnicamente, un dividendo e, non essendo tali, non spettavano all'usufruttuario, bensì appunto al nudo proprietario, estendendosi il diritto dell'usufruttuario della partecipazione sociale solo ai dividendi la cui distribuzione fosse stata deliberata dall'assemblea.

Le questioni di diritto oggetto del contenzioso, in definitiva, erano due:

- in primo luogo, occorreva stabilire quando cessa il diritto di usufrutto che abbia ad oggetto una partecipazione sociale di una società a responsabilità limitata;

- e ,in secondo luogo, occorreva stabilire quali fossero i diritti patrimoniali, collegati alla partecipazione sociale, spettanti al soggetto in favore del quale sia stato costituito un usufrutto.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte il ricorso era infondato.

Evidenziano i giudici di legittimità che, premesso che, in tema di società a responsabilità limitata, l'art. 2471-bis c.c. opera un rinvio formale all'art. 2352 c.c., che, a sua volta, non contiene alcuna disposizione circa le cause di estinzione dell'usufrutto su partecipazioni sociali, con riferimento poi ai diritti patrimoniali connessi alle partecipazioni sociali, il citato articolo si limita a disporre:

  • che al socio, e non all'usufruttuario, spetta il diritto di opzione attribuito dalle partecipazioni costituite in usufrutto;
  • che, nel caso di aumento gratuito del capitale sociale, l'usufrutto si estende alle azioni di nuova emissione;
  • che, se sono richiesti versamenti sulle partecipazioni costituite in usufrutto, l'usufruttuario deve provvedere al versamento, salvo il suo diritto alla restituzione al termine dell'usufrutto.

Tanto premesso, osserva il Collegio che le disposizioni di cui all'art. 2352 c.c. contengono delle norme che si pongono in un rapporto di specie a genere rispetto alle norme generali del codice civile in tema di usufrutto, con la conseguenza che, fuori dal campo di applicazione delle norme speciali, si applicano le norme generali, con i necessari adattamenti resi necessari dal peculiare oggetto (la partecipazione sociale) del diritto di usufrutto.

Rileva quindi la Corte che, in assenza di una norma ad hoc che disciplini l'estinzione del diritto di usufrutto su una partecipazione sociale, non si può che applicare la disciplina generale di cui all'art. 1014 c.c., sicché l'usufrutto sulla partecipazione sociale:

  • non cessa con la messa in liquidazione della società se non sia scaduto il termine di durata (non superiore al tempo di vita dell'usufruttuario persona fisica o ai trent'anni se l'usufruttuario è una persona giuridica),
  • e, a parte i casi di cui ai nn. 1) e 2) dell'art. 1014 c.c., cessa “per il totale perimento della cosa su cui è costituito” (n. 3 dell'art. 1014 cit.).

In sostanza, conclude la Cassazione, il diritto si estingue soltanto quando viene totalmente a mancare l'oggetto dell'usufrutto, con la conseguenza, ad esempio, che, anche quando l'usufrutto sulla partecipazione sociale sia costituito per tutta la vita del beneficiario persona fisica, il venir meno della partecipazione sociale nella sua consistenza giuridica determina comunque l'estinzione dell'usufrutto stesso.

Non vi è dubbio, d'altra parte, evidenziano i giudici, che la partecipazione sociale di una società a responsabilità limitata non viene meno (non "perisce", per usare il termine normativo) con la liquidazione volontaria della società, bensì con la cancellazione di quest'ultima dal registro delle imprese, che ne determina appunto l'estinzione.

Se dunque, da una parte, l'usufrutto su una partecipazione sociale di una S.r.l. si estingue certamente con la cancellazione della società dal registro delle imprese, d'altra parte non vi è alcuna norma che limiti l'estensione oggettiva dei diritti dell'usufruttuario ai dividendi che si sia deciso di distribuire durante la vita "ordinaria" (prima, cioè, della messa in liquidazione) della società.

In altri termini, conclude la Corte, i diritti dell'usufruttuario di una partecipazione sociale non sono limitati ai dividendi, spettandogli tutti i frutti civili prodotti dalla partecipazione sociale in costanza di usufrutto.

Una volta chiarito quindi che l'usufrutto si estingue con l'estinzione della società (e dunque, per la S.r.l., con la cancellazione di quest'ultima dal registro delle imprese), il problema da risolvere restava solo quello se anche dopo la messa in liquidazione della società la partecipazione sociale potesse produrre utili. E a tale quesito, secondo la Cassazione, doveva darsi risposta positiva.

L'individuazione di quali siano i frutti civili prodotti da un bene giuridico, infatti, deve essere risolta in base all'intero ordinamento giuridico, compreso quello tributario; laddove l'art. 47, comma 7, del Tuir stabilisce che le somme ricevute dai soci in caso di liquidazione delle società costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l'acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate.

Ne consegue quindi che, quando si tratta di determinare il reddito imponibile di un socio di società di capitali, deve essere considerata anche la quota di patrimonio netto attribuitagli risultante dalla liquidazione, nella misura prevista dal citato comma 7 dell'art. 47 (ex art. 44) del Tuir.

Tale misura, allora, in quanto "utile", rappresenta un frutto civile della partecipazione sociale, e spetta, in costanza di usufrutto, all'usufruttuario di detta partecipazione (cfr. l'art. 1008 c.c., a norma del quale, per la durata del suo diritto, l'usufruttuario è tenuto al pagamento delle imposte che gravano sul “reddito”).

In conclusione, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e formulava il seguente principio di diritto: “nel caso in cui la quota sociale di una società a responsabilità limitata sia costituita in usufrutto, le somme ricavate dalla liquidazione volontaria della società, costituenti un utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l'acquisto o la sottoscrizione delle quote, spettano all'usufruttuario, con la conseguenza che il rapporto d'imposta avente ad oggetto tale utile sorge, ad ogni effetto, tra l'amministrazione e l'usufruttuario”.

Osservazioni

La disciplina dell'usufrutto su partecipazioni di società di capitali è costituita dagli artt. 978-1020 c.c. (sull'usufrutto in generale) e dall'art. 2352 c.c., rubricato “Pegno, usufrutto e sequestro delle azioni”. 

L'art. 2352 c.c. fraziona tra usufruttuario e nudo proprietario solo alcuni poteri e diritti inerenti la partecipazione concessa in usufrutto, mentre per quanto non espressamente previsto dalla norma, come ribadito ora dalla Corte, occorre fare riferimento alla disciplina generale dell'istituto.

In applicazione delle norme generali sull'usufrutto, qualora la società dovesse deliberare la distribuzione di dividendi, non vi è dubbio che il diritto agli stessi spetti all'usufruttuario, in quanto frutti civili del bene.

La questione della spettanza degli “utili” da liquidazione, di cui al caso in esame, è peraltro anche legata, a monte, alla questione dell'esercizio del diritto di voto dell'usufruttuario nell'assemblea che decide sulla liquidazione della società, laddove, secondo alcuni, il riconoscimento del diritto dell'usufruttuario di partecipare e di esercitare il diritto di voto all'assemblea convocata per decidere sullo scioglimento anticipato della società sarebbe dubbio quanto alla sua ammissibilità, potendo determinare il perimento del bene oggetto di usufrutto ai sensi dell'art. 1014 c.c..

Sul punto, però, la Corte di Cassazione ha già affermato che il nudo proprietario non può lamentarsi delle scelte che concretamente l'usufruttuario operi, perché in difetto di diverse risultanze dal titolo costitutivo dell'usufrutto, egli è, nei confronti dell'usufruttuario, in uno stato di sostanziale soggezione, i cui unici limiti sono quelli di abusivo deterioramento o distruzione della cosa, che, di per sé, non possono essere individuati nella cooperazione dell'usufruttuario stesso alla decisione di sciogliere anticipatamente la società (Cass. 19/10/1997, n. 7614).

Tale diritto di voto si connette dunque, a ben vedere, anche al corrispondente diritto agli utili derivanti dalla stessa liquidazione, come ora affermati, con l'interessante “supporto” interpretativo delle relative modalità di tassazione, dalla pronuncia in esame.

D'altro canto, guardando alla stessa questione dal lato opposto, laddove lo scioglimento dell'organizzazione societaria e la conseguente liquidazione del patrimonio, a cui abbia contribuito il voto dell'usufruttario, comportasse le conseguenze ora sancite dalla Suprema Corte quanto alla spettanza degli “utili” e al corrispondente credito di imposta, il nudo proprietario soffrirebbe certamente un pregiudizio per il mero fatto dello scioglimento della società cui partecipava, potendo la fattispecie allora facilmente prestarsi ad abuso dell'usufruttuario, ai sensi dell'art. 1015 c.c. (cfr., da ultimo Trib. Milano, decreto del 21/08/2023, n. 361).

Insomma, una questione che presenta ancora profili di criticità.

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