Bancarotta impropria da “false comunicazioni sociali” a fronte dell’esposizione in bilancio di enunciati valutativi

05 Giugno 2024

La Corte di cassazione, uniformandosi a un consolidato orientamento giurisprudenziale, si pronuncia in tema di configurabilità del reato di false comunicazioni sociali a fronte dell’esposizione in bilancio di enunciati valutativi, ai fini dell’integrazione del reato di bancarotta fraudolenta impropria.

Alla stesura del contributo ha partecipato l'avv. Francesca Massimo

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Massima

Il reato di false comunicazioni sociali, in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, attesa la loro intrinseca opinabilità, è configurabile solo in presenza di criteri predeterminati e vincolanti ai quali il redattore deve attenersi. In questi casi, divenendo un modo di rappresentare la realtà (in termini di coerenza o meno con i predetti criteri) non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione, la valutazione sarà “falsa” ove si discosti consapevolmente dai detti criteri senza fornire adeguata informazione giustificativa.

Il caso

La sentenza qui commentata trae origine dalla contestazione mossa dalla Procura di Trani nei confronti degli amministratori di una società fallita per i reati di concorso in bancarotta impropria attraverso false comunicazioni sociali, bancarotta fraudolenta per distrazione, bancarotta preferenziale, bancarotta fraudolenta documentale e bancarotta semplice. Il Tribunale di Trani ha pronunciato sentenza di condanna per tutti i capi di imputazione nei confronti di entrambi gli imputati. Avverso tale pronuncia hanno proposto impugnazione gli imputati, in seguito alla quale la sentenza di primo grado è stata parzialmente riformata, essendo stato dichiarato estinto il reato di bancarotta semplice, con conseguente rideterminazione delle pene principali ed accessorie.

Avverso la sentenza della Corte d'appello di Bari, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione fondato le proprie doglianze su cinque motivi di impugnazione. In particolare, il terzo motivo di gravame, in tema di bancarotta da reato societario (false comunicazioni sociali), aveva ad oggetto la rivalutazione del valore contabile di due immobili della società ed il quarto motivo, sempre attinente alla medesima contestazione, verteva sull'accollo di un debito sociale da parte di uno degli imputati.

La Corte di Cassazione dava atto di come le sentenze di merito avevano ritenuto che le condotte tenute dagli imputati, ovverosia le rivalutazioni del valore di iscrizione in bilancio di alcuni cespiti immobiliari della società e la variazione contabile avvenuta a seguito dell'accollo di debito da parte di uno degli imputati, avevano comportato l'esposizione in bilancio di valori di gran lunga superiori a quelli effettivi, occultando le effettive condizioni della società e, di conseguenza, esponendo una realtà ingannatoria per i terzi.

Quanto ai motivi di impugnazione, la Cassazione rilevava che, con riguardo al primo profilo, la difesa aveva affermato come le rivalutazioni erano state eseguite in conformità a quanto disposto dall'art. 2423 c.c., per cui l'accrescimento del valore iscritto dei beni sarebbe stato legittimato sia dall'elevata svalutazione monetaria degli ultimi sia dall'incremento di valore determinato dall'evidenziato avviamento aziendale creato dalla fallita, quali eventi eccezionali che giustificherebbero la mancata applicazione dei criteri vincolati di cui all'art. 2426 c.c. Con riguardo al secondo profilo, invece, l'accollo del debito da parte di uno degli imputati, quale amministratore della società, secondo la difesa, non avrebbe cagionato alcun pregiudizio concreto ai creditori, bensì un vantaggio, in quanto era stato aggiunto un nuovo soggetto sul quale potersi rivalere in caso di eventualmente inadempimento.  

La questione

La questione sottoposta al vaglio della Corte di cassazione riguarda la configurabilità del reato di false comunicazioni sociali a fronte dell’esposizione in bilancio di enunciati valutativi, data la loro intrinseca opinabilità, affinché possa essere integrato, come nel caso di specie, il reato di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali. In particolare, alla Suprema Corte è demandato il compito di verificare se i criteri adottati dagli autori delle condotte contestate, in sede di iscrizione delle voci valutative del bilancio, risultino legittimi.

Le soluzioni giuridiche

Prima di affrontare la questione di diritto oggetto del presente commento, la Corte di cassazione ha voluto svolgere una fondamentale premessa, relativa al ruolo e alle finalità assolte da un documento primario come il bilancio, specificando che lo stesso si identifica come un insieme di valori, quasi interamente di tipo valutativo, che, nel rispetto delle norme di legge, ha la funzione di informare gli interessati sia in ordine al risultato economico dell'esercizio, sia sulla situazione patrimoniale e finanziaria dell'impresa. Si pone, perciò, come l'unico strumento a disposizione dei creditori per avere piena contezza dell'effettiva consistenza del patrimonio societario e, quindi, quale unica garanzia su cui poter far pieno affidamento.  

Tanto premesso, la Cassazione, riprendendo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, formatosi dopo la riforma legislativa introdotta dalla l. n. 69/2015, ha precisato che il reato di false comunicazioni sociali attraverso l'esposizione in bilancio di enunciati valutativi si configura solo qualora venga accertato che il soggetto che ha redatto il bilancio si sia consapevolmente discostato dai criteri predeterminati e vincolanti ai quali è tenuto a conformarsi in sede di redazione. In particolare, con riguardo alle immobilizzazioni, la Cassazione ha rilevato che il criterio di riferimento, riconosciuto come inderogabile, è fissato dall'art. 2426 c.c., secondo cui il valore di iscrizione in bilancio è individuato nel costo di acquisto o di produzione del bene.

L'unica ipotesi del tutto eccezionale che giustifica la derogabilità di tale criterio è quella prevista ai sensi dell'art. 2423 comma 5, c.c., ossia quando l'applicazione del criterio risulta incompatibile con una rappresentazione veritiera e corretta del dato iscritto. Tale deroga, oltre a richiedere una adeguata e specifica motivazione, ricorrerebbe, secondo la Cassazione, solamente nelle ipotesi di “eccezionalità gestionale”, e cioè solo nei casi in cui ricorrano degli scenari operativi del tutto atipici o imprevedibili, nei quali la corretta applicazione della normativa avrebbe come effetto quello di ingannare i terzi con riguardo alla reale rappresentazione dei fatti esposti. In questi casi la nota integrativa deve motivare la deroga e deve indicare l'influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria e sul risultato economico.

Pertanto, nel rigettare le censure mossa della difesa, la Corte di cassazione ha affermato che le “cause eccezionali” indicate a sostegno della tesi difensiva, oltre a non essere adeguatamente sostenute da valide allegazioni, non rappresentano, comunque, “uno scenario imprevedibile ed imponderabile, ma una delle tante evenienze tipiche della ordinaria aleatorietà del mercato, che non giustifica pertanto alcuna deroga al criterio vincolante di cui all'art. 2426 c.c.”.

Con riguardo al secondo profilo, la Cassazione ha affermato che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, a nulla rilevava che i creditori avessero subito un effettivo pregiudizio dall'operazione posta in essere, poiché la ratio del legislatore con riguardo al reato di false comunicazioni sociali non è tanto quella di voler sanzionare la condotta che ha generato un pregiudizio patrimoniale, quanto, soprattutto, quella di voler sanzionare l'effettiva alterazione del dato informativo rappresentato nel bilancio. In particolare, l'operazione di accollo da parte di uno degli imputati, non avendo effetto liberatorio, aveva avuto quale unica finalità quella di alleggerire in bilancio l'esposizione debitoria nei confronti delle banche e dei fornitori.

Per tali ragioni, la Corte dichiarava infondate le predette censure, ma annullava la sentenza impugnata, senza rinvio, in relazione al reato di bancarotta preferenziale, nel frattempo estinto, nonché con rinvio per un nuovo esame in relazione alle altre ipotesi di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali commesse dopo il 28 luglio 2003.

Osservazioni

La soluzione interpretativa offerta dalla sentenza in commento si inserisce nell'ambito dell'orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, sorto in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione del 2016 (Cass. pen., sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474). Con quella sentenza si pose fine ad un contrasto interpretativo, sia giurisprudenziale sia dottrinale, originatosi a seguito dell'entrata in vigore delle modifiche normative introdotte dalla l. n. 69/2015. Invero, tra le principali novità della riforma vi era la riformulazione del reato di false comunicazioni sociali, in cui la locuzione “fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni” veniva sostituita con quella “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”. Pertanto, le Sezioni Unite dovettero definire se l'intervento legislativo avesse determinato un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie di cui all'art. 2621 c.c. e la risposta fu in senso negativo. In particolare, le Sezioni Unite evidenziarono come la ratio della l. n. 69/2015 era quella di ripristinare quanto possibile la “trasparenza societaria” e di reintegrare una significativa risposta sanzionatoria ai fatti di falsità in bilancio rispetto al quadro previgente; pertanto, i giudici della S. Corte hanno respinto quella tesi interpretativa che sosteneva la parziale abrogazione della norma, in ragione della natura complessa del bilancio, il cui contenuto è prevalentemente valutativo, con la conseguenza che il suo redattore non può esimersi da valutazioni, purché queste siano guidate ed ancorate a criteri specifici. Secondo le Sezioni Unite, infatti, la disciplina codicistica del bilancio prescrive una serie di criteri a cui attenersi in sede di accertamento dei momenti valutativi del bilancio, definendo, pertanto, un vero e proprio “metodo convenzionale di valutazione”. 

In conclusione, le Sezioni Unite hanno chiarito che il reato di false comunicazioni sociali sussiste sia nelle ipotesi di esposizione o di omissione di fatti oggetto di valutazione sia “se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l'agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”.

La giurisprudenza successiva, nella quale si inserisce anche la sentenza qui commentata, si è conformata alla suddetta pronuncia delle Sezioni Unite, ribadendo, in primo luogo, il principio per cui le sopravvenute modifiche normative che si sono susseguite negli anni non hanno in alcun modo determinato una abolitio criminis del reato di cui all'art. 2621 c.c. Ed, in secondo luogo, che la fattispecie incriminatrice delle false comunicazioni sociali viene integrata ogni qualvolta vengono esposte delle voci valutative nel bilancio che si discostano da una rappresentazione corretta e veritiera secondo i criteri di riferimento normativamente fissati, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni.

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