Nozione di sede sindacale e contrasto interpretativo in Cassazione: la sede di conciliazione va intesa come luogo fisico?
14 Giugno 2024
Massime Cass., ord., 15 aprile 2024, n. 10665. La conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell'art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore. Cass., ord., 18 gennaio 2024, n. 1975. La necessità (derivante dal combinato disposto dell'art. 412-ter c.p.c. e del contratto collettivo di volta in volta applicabile) che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell'atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda a una consapevole e genuina volontà del lavoratore. Il caso Conciliazione in sede sindacale: l'incerta rilevanza della sede rispetto all'assistenza La prima delle pronunce in commento è relativa ad una fattispecie piuttosto articolata che prende l'avvio da un accordo siglato tra le parti ai sensi dell'art. 2103 c.c., sesto comma, con cui il lavoratore aveva accettato una proposta di riduzione della retribuzione allo scopo di scongiurare il rischio di licenziamento. L'accordo, concluso ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c. e 2113, co. 4, c.c., come indicato nell'intestazione dello stesso, era stato condizionato dalle parti a una successiva ratifica da avvenire “con le modalità inoppugnabili indicate agli artt. 410 e 411 c.p.c.”. Tale adempimento non era poi mai avvenuto. La conciliazione in esame era stata sottoscritta dalle parti alla presenza di un rappresentante sindacale che, come si dava atto nel verbale, aveva previamente e dettagliatamente informato il lavoratore in merito agli effetti definitivi e inoppugnabili ex art. 2113, co. 4, c.c., tuttavia era stata conclusa non presso la sede del sindacato, bensì presso i locali della società. Tale circostanza, unitamente all'omessa successiva ratifica espressamente prevista, ha indotto la Suprema Corte a enunciare il principio innanzi detto sul presupposto che la protezione del lavoratore non possa essere affidata unicamente alla assistenza del rappresentante sindacale, ma debba essere assegnata anche al luogo in cui la conciliazione avviene, essendo l'assistenza e il luogo (fisico) “concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore e l'assenza di condizionamenti di qualsiasi genere nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili”. La seconda pronuncia è riferita a un'azione per differenze retributive per superiore inquadramento proposta a seguito della sottoscrizione di un verbale di conciliazione concluso anch'esso ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c. e 2113, co. 4, c.c., con l'assistenza del sindacalista e presso i locali aziendali. Avvalendosi dell'istruttoria svolta, che aveva confermato l'effettività dell'assistenza, la contestualità della firma del rappresentante sindacale e l'espresso avvertimento formulato al lavoratore circa l'inoppugnabilità della conciliazione, la Cassazione ha sancito la validità del verbale, benché sottoscritto in una sede (fisica) diversa da quella sindacale propriamente detta. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto irrilevante il fatto che la conciliazione fosse avvenuta in luogo diverso dalla sede del sindacato in assenza di prova che tale situazione avesse in qualche modo determinato uno squilibrio in favore del datore di lavoro o avesse altrimenti inciso sulla libera determinazione di volontà del lavoratore o, ancora, avesse in qualche modo pregiudicato la comprensione della portata e delle conseguenze dell'accordo. La questione La protezione del lavoratore è correlata alla sede fisica della conciliazione o al ruolo effettivo del conciliatore? Le ordinanze in commento, pervenendo a conclusioni divergenti, affrontano la questione relativa alla validità delle conciliazioni sottoscritte in sede sindacale. La fattispecie oggetto delle pronunce consente di sviluppare alcune considerazioni sul tema, più ampio, delle sedi protette e della funzione ad esse affidata dall'ordinamento. Come noto, la validità ab origine degli atti dispositivi dei lavoratori è prevista nell'unica ipotesi di cui all'art. 2113, co. 4, c.c. che sancisce la validità delle rinunzie e delle transazioni – aventi per oggetto i diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi – nel caso in cui siano sottoscritte nell'ambito di una conciliazione intervenuta ai sensi degli artt. 185,410,411,412-ter e 412-quater, c.p.c. o ai sensi dell'art. 31, co. 13, l. n. 183/2010. In tali casi la sede protetta innerva e determina la funzione di garanzia e tutela prevista dall'ordinamento lavoristico in favore della parte debole del rapporto, posto che la sottoscrizione dell'accordo dinanzi ad uno dei soggetti ivi tassativamente indicati garantisce la libera e consapevole volontà del lavoratore nel compimento dell'atto abdicativo e consente un corretto bilanciamento tra le esigenze dell'effettività-efficacia dello statuto protettivo e le finalità deflattive del contenzioso giudiziario. Nello specifico caso della conciliazione sindacale, al fine della sua inoppugnabilità ai sensi dell'art. 2113 c.c., l'elemento dirimente è sempre stato quello dell'effettiva tutela del lavoratore nella sua posizione di debolezza contrattuale nei confronti del datore di lavoro di guisa che si è sempre – pacificamente – sostenuto che, ogni qual volta dall'accertamento di fatto fosse risultata non sussistente una posizione di debolezza del lavoratore, la funzione di supporto assegnata al sindacato nella fase conciliativa della controversia (esistente o potenziale) poteva ritenersi comunque assolta. Diversamente, secondo l'orientamento consolidato, è da considerare inidonea ai fini della inoppugnabilità della transazione una generica assistenza sindacale, costituendo requisiti imprescindibili per la validità dell'atto sia l'effettiva assistenza del lavoratore da parte del rappresentante sindacale incaricato, sia l'attiva partecipazione del sindacato al raggiungimento dell'accordo. La Corte di legittimità ha precisato, ormai in modo assolutamente granitico, che condizione necessaria, ai fini della validità ed efficacia dei verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, e quindi della loro inoppugnabilità, è che l'assistenza fornita dal rappresentante sindacale sia effettiva ovvero idonea a porre il lavoratore nella condizione di conoscere compiutamente tanto il diritto oggetto dell'atto dismissivo quanto l'ampiezza e le conseguenze dell'atto abdicativo, sia esso di rinuncia o di transazione. Dunque, il lavoratore, preliminarmente alla sottoscrizione del verbale, deve essere posto nelle condizioni di poter comprendere in modo esaustivo ogni effetto derivante dalla sottoscrizione del verbale di conciliazione e deve poter avere piena consapevolezza delle conseguenze cui va incontro con le rinunce o le transazioni sottoscrivende. In linea con tale indirizzo è stata considerata insufficiente la mera presenza del rappresentante sindacale, occorrendo di contro una sua attiva partecipazione e un'opera di effettiva assistenza a favore del lavoratore, tale da ripristinare una reale parità con l'impresa, a tutela del suo consapevole consenso; in alcuni casi, è stata ritenuta invalida la conciliazione sindacale conclusa con l'assistenza di un esponente di sindacato diverso da quello cui lo stesso lavoratore aveva ritenuto di «affidarsi». Il sindacalista, peraltro, non può limitarsi a leggere il verbale, ma deve essere a conoscenza della intera vicenda, deve soppesare analiticamente con il lavoratore i rischi e i vantaggi che sono correlati alla conciliazione proposta, fornendo tutti gli elementi utili a far sì che l'interessato sia pienamente consapevole delle conseguenze legate alla conciliazione. In altri termini, per il sindacalista prestare assistenza al lavoratore nell'espletamento della conciliazione non significa limitarsi a essere presente al momento della firma, né sottoporgli una soluzione già definita chiedendogli di accettare o meno, ma significa assisterlo nella scelta ponendolo in condizione di conoscere compitamente a quale diritto rinuncia ed in quale misura, con quali vantaggi e rispetto a quali concessioni, così sottraendo il lavoratore all'ontologico metus nei confronti del datore di lavoro. In definitiva, gli arresti giurisprudenziali sin qui noti hanno reso evidente che ciò che effettivamente conta nella valutazione della validità di una conciliazione sindacale è la circostanza che il lavoratore abbia ricevuto un concreto supporto ed un'effettiva assistenza in tutto l'iter sotteso all'individuazione della proposta/soluzione conciliativa, durante le trattative così come nel momento della sottoscrizione del verbale. Conformemente alla ratio sottesa alla norma, l'assistenza sindacale prestata al lavoratore in modo vero ed effettivo ha il fine – indipendentemente dal luogo di conclusione dell'accordo – di evitare che quella rinuncia o quell'atto transattivo possa essere impugnato per vizi afferenti la genericità del contenuto dell'accordo o per l'assenza di bilanciamento degli opposti e confliggenti interessi, ovvero per vizi del consenso inficianti la volontà, quali la violenza psicologica, l'errore o il dolo. Osservazioni Le sedi sindacali nel discrimine tra l'art. 411, co. 3, c.p.c. e l'art. 412-ter c.p.c. Nel condivisibile intento di garantire un'effettiva protezione dei lavoratori nel contesto degli atti dismissivi, anche a fronte di talune distorte applicazioni pratiche del disposto normativo, in tempi relativamente recenti le conciliazioni sindacali sono state indagate in modo molto rigoroso, con un severo approccio interpretativo che ha valorizzato in modo pressoché inedito gli aspetti formali e procedurali. Si è assistito però ad un'errata assimilazione-sovrapposizione tra le due diverse forme di conciliazione sindacale che, come noto, trovano i loro referenti giuridici in due differenti norme. In particolare, da un lato la conciliazione sindacale invocata dall'art. 411, co. 3, c.p.c. non prescrive né rimanda a peculiari requisiti formali o procedurali, mentre la conciliazione sindacale svolta ai sensi dell'art. 412-ter c.p.c.“presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative” rimanda – quanto alle modalità e ai requisiti formali e procedurali – alle previsioni pattizie contenute nei contratti collettivi volta per volta applicabili. Nel primo caso in esame, con l'ordinanza n. 10065/2024, la Suprema Corte occupandosi di una fattispecie ricadente nell'alveo applicativo dell'art. 411, co. 3, c.p.c. – esente come si diceva da vincoli formali e procedurali – ha sancito la nullità della conciliazione rilevando la necessità del requisito formale della sede sindacale interpretato peraltro in modo restrittivo e formalistico; nel secondo caso, quello deciso con l'ordinanza n. 1975/2024 relativo ad una fattispecie ricadente nell'alveo applicativo dell'art. 412-ter c.p.c. – sottoposto ai vincoli formali e procedurali previsti dalla contrattazione collettiva – la Cassazione ha valorizzato l'effettività dell'assistenza ritenendo irrilevante la circostanza che la conciliazione fosse stata conclusa presso la sede aziendale. L'ordinanza n. 10065/2024 richiama il proprio precedente costituito dall'ordinanza n. 1975/2024 ritenendolo però circoscritto – per i presupposti fattuali ad esso sottesi – alle sole conciliazioni ex art. 412-ter c.p.c. Tuttavia il laconico (e un po' sbrigativo) accenno alla non sovrapponibilità tra le due fattispecie di conciliazione sindacale appare fuorviante poiché nell'ultimo comma dell'art. 2113 c.c. (richiamato nel caso di specie dall'art. 2103, co. 6, c.c.), non si rinviene alcuna distinzione tra le due sedi sindacali, entrambe idonee – nel caso di effettiva assistenza – a integrare la sede protetta tradizionalmente intesa. Probabilmente la distinzione qui tracciata è anche destinata a perdere di rilevanza giuridica se si considera, in prospettiva de jure condendo, che risulta proposto un emendamento al DDL 672, in tema di “Semplificazioni in materia di lavoro e legislazione sociale” pendente presso la decima Commissione permanente del Senato che, all'art. 16-bis, propone di apportare “Modifiche all'articolo 412-ter c.p.c. in materia di conciliazioni in sede protetta” aggiungendo, all'articolo 412-ter c.p.c., dopo il primo comma, il seguente periodo: "La conciliazione, nelle materie di cui all'articolo 409 c.p.c., può essere svolta altresì con l'assistenza di un rappresentante dell'associazione sindacale a cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato". Tale previsione, pleonastica per chi ritiene già sufficiente l'art. 411, co. 3, c.p.c. consentirebbe comunque di superare alcune posizioni più scettiche che lamentano un'eccessiva libertà e informalità del modus operandi dei conciliatori sindacali. Le soluzioni giuridiche Approccio formale o sostanziale alla protezione del lavoratore dal metus datoriale nell'ambito degli atti abdicativi Le due pronunce si caratterizzano per un differente approccio al concetto di sede protetta, nella specifica fattispecie di sede sindacale, formalistico in un caso, sostanzialistico nell'altro. L'ordinanza n. 10065/2024 propone un approccio formalistico secondo cui la conciliazione in sede sindacale, quella di cui all'art. 411, co. 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette, aventi il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente all'assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore. In tale situazione, secondo la Corte, la protezione del lavoratore non sarebbe affidata unicamente all'assistenza del rappresentante sindacale, come sempre si è ritenuto, ma anche al luogo in cui la conciliazione che – unitamente all'assistenza – rappresenta un concomitante accorgimento necessario al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore e l'assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere. La conclusione cui perviene la S.C, sembra produrre un arretramento rispetto al dato sostanziale – valorizzato nell'ordinanza n. 1975/2024 e da sempre ritenuto essenziale nelle conciliazioni sindacali – ovvero quello della effettività della tutela prestata dal sindacalista al lavoratore nel confronto con la controparte datoriale, specie se l'attività istruttoria abbia inequivocabilmente confermato la partecipazione attiva del sindacalista rispetto alla conclusione dell'accordo. Invero, l'impostazione sposata nell'ordinanza n. 10065/2024, sembrerebbe più correttamente applicabile alla fattispecie di cui all'art. 412-ter che, come accennato, prevede requisiti stringenti formali, già valorizzati nella nota pronuncia del Tribunale di Roma, sez. lavoro 8 maggio 2019, n. 4354. In quell'occasione il Giudice del merito aveva accertato l'invalidità di un verbale di conciliazione sindacale sottoscritto senza il rispetto delle prescrizioni del contratto collettivo la cui ratio è quella di «assicurare, anche attraverso l'individuazione della sede e delle modalità procedurali, la pienezza di tutela del lavoratore in considerazione dell'incidenza che ha la conciliazione sindacale sui suoi diritti inderogabili e dell'inoppugnabilità della stessa. La norma codicistica, dunque, attribuisce valenza di conciliazioni in sede sindacale solo a quelle conciliazioni che avvengano con le modalità procedurali previste dai contratti collettivi e in particolare da quelli sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative». In effetti, nel caso delle conciliazioni previste dalla contrattazione collettiva che ad essi si auto-vincola, il rispetto dei requisiti formali assume il connotato di requisito sostanziale e appare condizione ineludibile per la validità dell'accordo sindacale e la formazione del negozio giuridico in esame. Se infatti la forma della conciliazione sindacale di cui all'art. 412-ter è rimessa all'autonomia collettiva, non si può arrivare a concludere che, pur non rispettando la procedura prevista dalla contrattazione collettiva, la conciliazione possa essere comunque valida. Invero, la fonte che disciplina in modo esclusivo la conciliazione sindacale ex art. 412-ter, per legge, è solo il contratto collettivo e – come noto – i contratti collettivi, quelli che prevedono e disciplinano questo istituto, statuiscono solitamente che l'unica sede abilitata è di tipo bilaterale, cioè una sede dove sono rappresentate congiuntamente le organizzazioni sindacali dei lavoratori e quelle datoriali, che hanno sottoscritto proprio quel contratto collettivo. Diversamente, si ritiene di non poter condividere il principio in base al quale si afferma che la conciliazione in sede sindacaleex art. 411, co. 3, c.p.c. abbia necessità di ulteriori accertamenti riferiti alla collocazione geografica del luogo di conciliazione. Una tale impostazione mostra di non tenere in debito conto il descritto e consolidato arresto di legittimità per il quale ciò che appare rilevante ai fini della conformità al tipo legale della conciliazione sindacale è l'effettività dell'assistenza offerta dal sindacato al lavoratore rinunciante ovvero la corretta trasmissione delle informazioni atte a rendere consapevole il dipendente della consistenza giuridica ed economica dei diritti di cui sta disponendo, indipendentemente dalla sede “fisica” in cui è stata stipulata. In questa prospettiva, occorre valorizzare (piuttosto che la sede) la protezione del lavoratore dal metus del contraente forte e la capacità di far comprendere al lavoratore gli effetti legali dell'atto posto in essere e il complesso dei diritti oggetto dell'atto abdicativo. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, lo scopo voluto dal legislatore deve dirsi raggiunto e la stipula del verbale di conciliazione in una sede (fisica) diversa da quella sindacale non può produrre alcun effetto invalidante sulla transazione. Si consideri, peraltro, che il presupposto fattuale della fattispecie sottoposta al vaglio della Corte nell'ordinanza n. 10065/2024 rappresenta (già esso) un uso improprio della fattispecie conciliativa. Invero le parti erano addivenute ad un accordo per la conservazione dei livelli occupazionali che prevedeva una diminuzione della retribuzione del 20%, per i lavoratori il cui esodo era stato scongiurato. Si trattava, in sostanza, di un accordo di riduzione della retribuzione che, a rigore, non avrebbe neppure richiesto la sede protetta di cui all'art. 2103, sesto comma, che, come noto, trova applicazione quando le parti con accordo bilaterale, incidono contemporaneamente sull'inquadramento, la categoria legale e la retribuzione del lavoratore. Nella pratica questi accordi sono spesso formulati dalle parti utilizzando espressioni equivoche tendenti a far rientrare queste pattuizioni nel campo di applicazione, da un lato, dell'art. 2113 c.c., e dall'altro, dell'art. 2103, co. 6, c.c. Quando, invece, siamo di fronte ad accordi modificativi del contratto originariamente stipulato, privi di un reale contenuto dispositivo, che vanno ad incidere pressoché esclusivamente sull'aspetto retributivo, senza intaccare l'inquadramento e/o la categoria professionale non si rientra – a rigore – nel campo di applicazione del patto di demansionamento di cui all'art. 2103, sesto comma. Il dato normativo, infatti, non avrebbe richiesto la sede protetta che però è stata (erroneamente) opzionata dalle parti le quali peraltro – inopinatamente – hanno sottoscritto un accordo ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c. e 2113, co. 4, c.c. condizionandolo a una successiva ratifica da avvenire “con le modalità inoppugnabili indicate agli artt. 410 e 411 c.p.c.”, mai effettuata. Vero è che il locus della conciliazione può invece rilevare sul piano del riparto degli oneri probatori atteso che, nel caso della conciliazione sindacale, la prova della piena consapevolezza dell'atto dispositivo può ritenersi in re ipsa o desumersi in via presuntiva; pertanto, graverà sul lavoratore l'onere di provare che, nonostante la presenza del sindacalista, egli non abbia avuto effettiva assistenza sindacale. Se invece la conciliazione è stata conclusa in una sede diversa, allora l'onere della prova grava sul datore di lavoro il quale deve dimostrare che, nonostante la sede non protetta, il lavoratore, grazie all'effettiva assistenza sindacale, abbia comunque avuto piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte”. Con l'ordinanza n. 10065/2024 la Suprema Corte arriva a fissare un inedito, quanto discutibile, principio alla stregua del quale il concetto di sede sindacale viene assimilato al luogo di stipula, senza invece tenere in debito conto la funzione sociale di protezione tutela affidata al sindacato, come ricavabile dagli insegnamenti del Maestro Gino Giugni. In più, affidare l'effettività dell'assistenza a un eccessivo formalismo non appare utile ai fini della protezione reale del lavoratore, ancor di più ora che, oramai da più di un anno, alla materia lavoristica è stata estesa la procedura di negoziazione assistita ex art. 2-bis d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modif. dalla l. 10 novembre 2014, n. 162, che non prevede più una sede protetta di conciliazione, ma abilita il mero accordo tra le parti, purché assistite dai loro avvocati, agli effetti di cui all'art. 2113, co. 4, c.c. La valorizzazione del luogo sembra peraltro ulteriormente anacronistica ora che con il DDL 672, in tema di “Semplificazioni in materia di lavoro e legislazione sociale” si propone, con l'art. 9-bis di apportare modifiche all'art. 2-bis del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv., con modif., dalla l. 10 novembre 2014, n. 162 in materia di “Risoluzione alternativa delle controversie di lavoro” estendendo alla disciplina delle conciliazioni lavoristiche la possibilità di svolgimento in modalità telematica, così dematerializzando completamente il luogo fisico della conciliazione, tanto valorizzato in una delle ordinanze in commento. Sarà probabilmente utile, negli accordi di conciliazione sottoscritti telematicamente, prevedere un'apposita elezione di domicilio delle parti, così da individuare espressamente un luogo fisico, anche ai fini della corretta individuazione della competenza territoriale. È chiaro che l'approccio restrittivo alla nozione di sede sindacale –anche sotto il profilo topografico – sia proposto dalla Suprema Corte nella prospettiva di garantire maggiormente il lavoratore, ma sembra che nella prima fattispecie in esame il formalismo abbia superato anche l'effettività dell'assistenza, quasi esacerbando il requisito formale su quello sostanziale. |