I finanziamenti su pegno nelle procedure concorsuali

13 Giugno 2024

L’Autore approfondisce il regime dei finanziamenti su pegno nelle procedure concorsuali, con particolare focus sulla disciplina in tema di realizzazione della garanzia prevista, dapprima, nella legge fallimentare e, ora, nel codice della crisi, oltreché nella legislazione speciale (in primis, in quella dei contratti di garanzia finanziaria).

Premessa

Nel panorama delle operazioni di credito poste in essere dalle banche, i finanziamenti su pegno, senza dubbio, rivestono un ruolo preponderante: attraverso tale strumento, infatti, da un lato, i soggetti in difficoltà possono valorizzare i propri beni per ottenere liquidità costituendoli in pegno; dall’altro, gli intermediari, beneficiari di una garanzia reale, godono di particolare tutela in caso di insolvenza del debitore.

Peraltro, a ben vedere, quanto più questi ultimi sono agevolati nelle possibilità di recupero di quanto erogato, tanto più sono incentivati a concedere prestiti, favorendo in tal modo l’accesso al credito.

Il presente contributo è volto ad approfondire il regime dei finanziamenti su pegno nel peculiare settore delle procedure concorsuali, con particolare focus sulla disciplina in tema di realizzazione della garanzia prevista, dapprima, nella legge fallimentare e, ora, nel codice della crisi, oltreché nella legislazione speciale (in primis, in quella dei contratti di garanzia finanziaria).

ll finanziamento su pegno nella revocatoria fallimentare

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Il pegno regolare

Il primo rilievo riguarda la revocatoria fallimentare, così come disciplinata, prima, dall'art. 67 l. fall., e ora, senza rilevanti modifiche, dall'art. 166 c.c.i.i.: ci si chiede, al riguardo, se siano suscettibili di revocatoria i pagamenti effettuati dal debitore in adempimento del debito verso la banca e le somme incassate da questa all'esito della vendita dei beni oggetto di garanzia, attraverso le modalità regolate dalle norme di carattere generale di cui agli artt. 2796-2798 c.c.

La disposizione di cui al comma 2 dell'art. 67 l. fall. stabilisce la revocabilità, se il curatore prova che l'altra parte conosceva lo stato d'insolvenza del debitore, dei “pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, (de)gli atti a titolo oneroso e (di)quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento”.

Per affrontare la questione, giova analizzare come la recentissima sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., sez. un., 16 febbraio 2022, n. 5049) ha contribuito a delineare una risposta al problema, con l'intento di risolvere quell'incertezza suscitata in capo agli interpreti a causa di pronunce giurisprudenziali non sempre orientate nella stessa direzione.

La vicenda riguardava la costituzione in pegno di un certificato di deposito a garanzia di un credito concesso dalla banca e il successivo incameramento da parte di quest'ultima del corrispettivo della vendita del bene nel periodo sospetto di cui all'art. 67 comma 2, l. fall. (al tempo della vicenda, ossia aprile 1997, il periodo sospetto per la revocabilità dei pagamenti consisteva in un anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; ora, dopo la modifica della norma operata dall'art. 2 del d.l. n. 35/2005, convertito con modificazioni dalla l. n. 80/2005, sono revocabili i pagamenti avvenuti nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento).

I punti salienti – gli stessi che portano la questione di fronte alle Sezioni Unite – concernono sia la revocabilità dei pagamenti compiuti dal debitore derivanti dalla vendita dei beni oggetto di un pegno ormai consolidato, sia la natura del credito della banca conseguente alla restituzione delle somme ricevute e all'insinuazione nel passivo in sede concorsuale (la S.C. si limita a confermare quanto affermato dalla Corte d'appello di Messina con la sent. n. 423/2015 in merito alla natura di pegno regolare del certificato di deposito oggetto di garanzia; secondo un orientamento ormai consolidato, infatti, vi è pegno irregolare soltanto laddove “sia espressamente conferita alla banca la facoltà di disporre della relativa somma”; se, invece, “difetti il conferimento di tale facoltà, si rientra nella disciplina del pegno regolare”; Cass. 8 agosto 2016, n. 16618; così anche Cass. 15 febbraio 2008, n. 3794).

Per quanto attiene al primo profilo, la Corte rileva come, effettivamente, una prima giurisprudenza di legittimità abbia considerato non revocabile quanto ricevuto dalla banca durante il periodo sospetto, a titolo di escussione della garanzia di un proprio credito, facendo leva, in primis, sul fatto che il contratto costitutivo di pegno era ormai consolidato, e, in secundis, perché, altrimenti, ciò avrebbe comportato il venir meno della garanzia ex tunc e la degradazione del credito da privilegiato a chirografario (si veda Cass. 14 settembre 2004, n. 18439; Cass. 10 novembre 2008, n. 26898, dove si afferma che “in tema di pegno avente per oggetto titoli del debito pubblico, gli atti di incasso del controvalore dei titoli stessi venduti dalla banca creditrice e accreditati sul conto corrente del cliente poi fallito, con corrispondente parziale riduzione della sua esposizione debitoria nel periodo sospetto, non sono revocabili ai sensi dell'art. 67 l. fall., rivestendo natura di atti di escussione delle garanzie pignoratizie e non di pagamenti di debiti liquidi ed esigibili”).

Inoltre, non si spiegherebbe quella forma di autotutela esecutiva prevista dall'art. 53 l. fall. (ora 152 c.c.i.i.), il quale consente al creditore pignoratizio di realizzare il proprio credito anche a fallimento in corso, previa ammissione al passivo: chiara, infatti, sarebbe l'incompatibilità con la revocabilità di una soddisfazione avvenuta precedentemente la dichiarazione di apertura della procedura concorsuale (Cass. 16 febbraio 2022, cit., pt. 9.1.). Vi sarebbe, in sostanza, una equiparazione dal punto di vista del regime giuridico tra l'ipotesi in cui vi è consolidamento del pegno e sua realizzazione prima dei sei mesi ante fallimento, e l'ipotesi in cui il primo non avvenga in periodo sospetto, ma la seconda sì (ibid.): i pagamenti ricevuti dalla banca, come sostenuto dalla ricorrente nella vicenda portata di fronte alle Sezioni unite, non avrebbero, in questo modo, natura solutoria, ma sarebbero mero esercizio del diritto alla realizzazione di un pegno ormai consolidato (ivi, pt. 7). La c.d. tesi della “irrevocabilità in ogni caso” è rinvenibile in pronunce risalenti in tema di credito garantito da ipoteca (si v. Cass. 19 ottobre 1976, n. 3608; Cass. n. 2180/1969).

Una diversa ricostruzione del tema è fornita da un altro orientamento, sempre giurisprudenziale, il quale afferma la necessità di verificare se l'interesse a promuovere l'azione revocatoria sussiste in concreto: se quest'ultima, come sostiene la Corte (Cass.,16 ottobre 1987, n. 7649, secondo la quale “la prova da parte del terzo della natura privilegiata del suo credito, pagato prima della dichiarazione di fallimento del debitore, preclude l'esperibilità della revocatoria fallimentare quando il curatore non provi l'eventus damni attraverso la dimostrazione dell'esistenza di altri crediti aventi diritto di prededuzione o di prelazione di grado superiore o eguale a quello estinto”), ha carattere indennitario, ossia, al fine della sua esperibilità, richiede sempre la presenza di un eventus damni, andrà effettuato un giudizio prognostico e ci si dovrà chiedere se “in sede di riparto al creditore pignoratizio […] si sarebbe potuto attribuire il medesimo importo ottenuto con il pagamento eseguito in sede prefallimentare” (Cass. 16 febbraio 2022, cit., pt. 9.2; qui la S.C. rileva come non sarebbe per nulla agevole accertare caso per caso l'effettiva presenza dell'eventus damni, fondamento della legittimazione ad agire in revocatoria, e come non vi è alcun riferimento normativo a sostegno di questa teoria): in caso di risposta positiva, pertanto, vi sarà difetto dell'interesse ad agire.

È, tuttavia, la c.d. tesi della “revocabilità in ogni caso” ad essere sposata dalla S.C. nella sentenza in esame. Già da più di un decennio, infatti, l'orientamento giurisprudenziale prevalente è quello di attribuire all'azione revocatoria una natura distributiva e antindennitaria, tale per cui “l'eventus damni è in re ipsa e consiste nel fatto stesso della lesione della par condicio creditorum, ricollegabile, per presunzione legale assoluta, all'uscita del bene dalla massa conseguente all'atto di disposizione” (Cass. 28 marzo 2006, n. 7028).

Pertanto, è necessario che i pagamenti effettuati nel periodo sospetto, anche derivanti dalla vendita di un bene oggetto di pegno, confluiscano nuovamente nella massa fallimentare: è solo in sede di riparto dell'attivo, infatti, che si potrà verificare se il pagamento non pregiudichi altri creditori privilegiati o crediti di grado poziore, come quelli prededucibili nel passivo fallimentare (Cass. 16 febbraio 2022, cit., p. 7. L'art. 221 c.c.i.i., prima art. 111 l. fall., disciplina l'ordine di distribuzione delle somme in sede di riparto: sono erogate, innanzitutto, quelle volte al pagamento dei crediti prededucibili; successivamente quelle per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l'ordine assegnato dalla legge; le somme indirizzate a soddisfare i creditori chirografari, in proporzione dell'ammontare del credito per cui ciascuno di essi sia stato ammesso; e infine quelle destinate al pagamento dei crediti postergati).

Come conseguenza della adesione alla teoria della “revocabilità in ogni caso”, è opinione dominante in giurisprudenza che il creditore pignoratizio, una volta restituito il pagamento revocato, vanti nei confronti del fallimento un credito di natura chirografaria. Secondo una pronuncia recente, la spiegazione di questa soluzione risiede nel fatto che questo credito, che può essere ammesso al passivo ai sensi dell'art. 70 comma 2, l. fall. (ora, art. 171 comma 2, c.c.i.i.), “non è quello originario, ma un credito nuovo che nasce dall'effettiva restituzione e trova fonte direttamente nella legge” (Cass. 5 ottobre 2018, n. 24627).

Tuttavia, le Sezioni Unite rilevano come, se è pur vero che la revocabilità del pagamento in questione è necessaria al fine di ristabilire la par condicio creditorum, questo principio si fonda anche sulla “graduazione dei crediti secondo criteri di poziorità predeterminati dalla legge” (Cass. 16 febbraio 2022, cit., pt. 14): l'atto revocato, infatti, si qualifica come adempimento di un'obbligazione a copertura della quale vi è una garanzia reale, da ciò derivando che, anche in sede concorsuale, sopravvive il medesimo diritto di prelazione. La regola della par condicio deve valere non solo a favore di tutti gli altri creditori – a danno dei quali, sicuramente, la sottrazione del bene dal patrimonio del fallito produce effetti –, ma anche a vantaggio del creditore pignoratizio, il quale, se è tutelato ex art. 53 l. fall., grazie alla possibilità di soddisfare la propria pretesa a procedura concorsuale aperta, non si vede come non debba esserlo anche qualora abbia restituito quanto ricevuto nel periodo sospetto e, successivamente, si sia insinuato nel passivo.

La privazione in sede concorsuale della prelazione con la quale, fino a quel momento, è stata garantita la banca non risponde alla funzione distributiva dell'azione di cui all'art. 67 l. fall.: essa si realizza attraverso una verifica in sede di riparto della consistenza e dell'ordine di soddisfazione dei crediti insinuatisi nel passivo, con la necessità che i creditori pignoratizi rimangano in posizione poziore rispetto a quelli chirografari.

In definitiva, sulla base di quanto detto e, in aggiunta, data la lettera della norma di cui all'art. 70 comma 2, l. fall. (“colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito”), la quale non specifica a quale titolo è ammesso al passivo il soggetto che ha subito la revocatoria, a quest'ultimo va “riconosciuta la stessa causa di prelazione di cui godeva in precedenza” (Cass. 16 febbraio 2022, cit., pt. 14; l'importante, infatti, è che la pretesa sia verificata e soddisfatta in sede di riparto dell'attivo fra tutti coloro che si insinuano nel passivo).

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L'esenzione per le operazioni di credito su pegno

Necessitano di un ulteriore approfondimento quei finanziamenti in cui l'ammontare della somma erogata è calcolato sulla base del valore di beni che vengono contestualmente consegnati in pegno all'istituto di credito. Ci si riferisce, ad esempio, al contratto di anticipazione bancaria su pegno di titoli e di merci, disciplinato agli artt. 1846-1851 c.c., in forza del quale la banca anticipa al cliente una somma proporzionale al valore di merci o titoli, che vengono contestualmente consegnati in garanzia (per un approfondimento sul contratto di anticipazione bancaria, si v. De Poli, L'anticipazione bancaria in L'attività delle banche, a cura di Urbani, Padova, 2020, 183 ss.).

Già nella sua versione originaria, l'art. 67 l. fall. prevedeva, al comma 3, l'esenzione dall'applicazione delle norme dell'articolo per le operazioni di credito su pegno poste in essere da istituti autorizzati a compierle.

Sul punto si è sollevato un dibattito dottrinale e giurisprudenziale in merito alla possibile estensione dell'esenzione nei confronti di qualunque istituto che erogasse credito su garanzia pignoratizia. La questione sorgeva anche a partire da una comunanza lessicale tra quanto espresso dal comma in questione, e quanto previsto dall'art. 2787 comma 4, c.c., il quale stabilisce una deroga in tema di prova della data certa di una scrittura a favore di enti autorizzati che compiono professionalmente operazioni di credito su pegno.

I sostenitori dell'estensione della portata applicativa dell'esenzione di cui all'art. 67 l. fall. vedevano una corrispondenza in quanto affermato dalle due disposizioni: se, infatti, è opinione dominante che la deroga di cui all'art. 2787 c.c. spiega i suoi effetti nei confronti di tutti gli istituti di credito (Cass. sez. un., 15 aprile 1976, n. 1333 Trib. Milano 9 gennaio 1997, in BBTC, 1999, II, 69 ss., con nota di Rufini, Considerazioni sull'accertamento della data nel pegno bancario, anche alla luce della disciplina contenuta nel testo unico in materia creditizia, 71 ss.; Trib. Torino 3 febbraio 1993, in Giur. it., 1994, 1-2, cc. 581 ss., con nota di Martina, Pegno di titoli di credito al portatore, pegno “bancario”, gestioni patrimoniali “in monte” e collegamento negoziale, cc. 581 ss.; ma, soprattutto si veda la Relazione al Codice civile, n. 1134, 264-265, dove si afferma che “parlando di enti debitamente autorizzati non si è inteso alludere alla necessità di specifica autorizzazione a compiere operazioni di credito su pegno […], ma si è inteso alludere alla necessità che l'ente sia autorizzato all'esercizio del credito, e in tale esercizio sono, infatti, comprese le anticipazioni su pegno di titoli e di merci. La deroga giustificata dall'opportunità di non intralciare queste operazioni non concerne, pertanto, solo le sovvenzioni effettuate dai monti di credito su pegno denominati monti di pietà, ma concerne anche le anticipazioni effettuate dagli istituti di credito in genere”), nello stesso senso andrebbe interpretato quanto si rinviene in tema di revocatoria fallimentare (si veda sul punto Cass. sez. un. 15 aprile 1976, cit.; Trib. Roma 14 dicembre 1985, in Fallimento, 1986, 1371; Trib. Roma 2 febbraio 1983, in Dir. fall. e delle soc. comm., 1983, II, 908.).

Tuttavia, almeno prima della riforma del 2005 (il d.l. n. 35/2005, convertito nella l. n. 80/2005, ha modificato sostanzialmente la norma di cui all'art. 67 l. fall., introducendo al nuovo terzo comma diverse esenzioni dall'applicazione delle disposizioni dell'articolo; per un approfondimento su tale riforma, si v. ampiamente Bozza, L'azione revocatoria nel fallimento, in Giur. comm., 2013, 1026), l'indirizzo consolidato andava verso una limitazione dei soggetti beneficiari dell'esenzione.

Le diverse rationes delle due norme, l'una inserita in una legge speciale, l'altra in una legge generale, non consentirebbero di equiparare tali istituti: da una parte, infatti, si vuole tutelare i monti, le casse di risparmio e gli altri istituti specificamente autorizzati in quanto enti pubblici economici, la cui attività è condotta, peraltro, senza scopo di lucro ed è, soprattutto, volta a perseguire un interesse pubblico, consistente nel soddisfare “un corrente e generalizzato bisogno di assistenza e di beneficenza pubblica” (Cass. 30 gennaio 1985, n. 579); dall'altra, invece, l'intento è, più semplicemente, quello di concedere delle agevolazioni probatorie per non intralciare le operazioni in questione, svolte anche da istituti che si propongono di ottenere profitti dalle proprie erogazioni di finanziamenti (già in tempi più remoti la S.C. aveva affrontato il tema: si v. a proposito Cass. 3 dicembre 1954, n. 4367 e Cass., 25 ottobre 1956, n. 3932).

La stessa Relazione al Codice civile del 1942, al paragrafo 1134, afferma come con l'espressione di enti “debitamente autorizzati” di cui all'art. 2787 comma 4, c.c., non si intendono gli stessi per i quali, invece, l'art. 67 comma 3, l. fall. richiede una “specifica autorizzazione […] agli effetti della disapplicabilità di talune disposizioni nella revocatoria fallimentare”; inoltre, prosegue aggiungendo che “la deroga giustificata dall'opportunità di non intralciare queste operazioni, non concerne, pertanto, solo le sovvenzioni effettuate dai monti di credito su pegno […], ma anche le anticipazioni effettuate dagli istituti di credito in genere” (a favore dell'orientamento consolidato secondo il quale l'esenzione di cui all'art. 67 comma 3, l. fall. si applica soltanto agli istituti di credito specificamente autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno si veda anche App. Milano 11 ottobre 1994, in BBTC, 1996, II, 188; Cass. 16 ottobre 1987, n. 7649, dove si afferma che se il legislatore avesse voluto estendere l'applicabilità della norma a tutti gli istituti di credito non avrebbe menzionato espressamente soltanto l'istituto di emissione, gli istituti di credito fondiario e quelli autorizzati a compiere tali operazioni: questi, infatti, a differenza delle normali banche, “insieme alla funzione del credito svolgono di fatto un'azione di soccorso immediato per il soddisfacimento di piccoli bisogni”).

Parte della dottrina sostiene, inoltre, che la ratio di questa speciale tutela va rinvenuta anche nel fatto che a questi enti non è richiesto di indagare sulla capacità patrimoniale del debitore (si v. Gatti, Operazioni con i Monti di credito su pegno, fallimento del cliente, responsabilità dello stimatore, in Riv. dir. comm., 1993, 45 ss.; Bonfatti, Le procedure concorsuali e le garanzie bancarie. La verifica dei requisiti di regolarità formale e l'assoggettabilità delle garanzie a revocatoria fallimentare dopo il nuovo testo unico, in Censoni, Guerrini, Vivaldi (a cura di), I difficili rapporti tra banche e procedure concorsuali, Milano, 1997, 72.

Tuttavia, a parere di chi scrive, tale tesi non sembra potersi condividere: dopo l'emanazione della l. 30 luglio 1990, n. 218, del d. lgs. del 20 novembre 1990, n. 356 e della l. 6 giugno 1991, n. 175, gli istituti di credito di diritto pubblico si sono progressivamente trasformati in società per azioni; con l'abrogazione della l. banc. del 1936 ad opera del TUB, essi sono soggetti alla disciplina prevista per tutti gli istituti di credito e, di conseguenza, anche all'obbligo di verifica del merito creditizio di cui all'art. 124-bis TUB).

Se prima, però, la concessione di credito su pegno era prerogativa dei Monti di credito (l'art. 1 comma 1, dell'abrogata l. 10 maggio 1938, n. 745, li definiva come quegli “enti che si propongono come attività fondamentale la concessione di prestiti di importo anche minimo, a miti condizioni, con garanzia di pegno su cose mobili per loro natura”), ora, con l'introduzione del testo unico bancario, in particolare ai sensi dell'art. 48, “le banche possono intraprendere l'esercizio del credito su pegno di cose mobili disciplinato dalla Legge 10/05/1938 n. 745, e dal regio decreto 25/05/1939, n. 1279, dotandosi delle necessarie strutture e dandone comunicazione alla Banca d'Italia”. Qualcuno ha sostenuto che fosse ancora giustificabile quell'orientamento consolidato in tema di revocatoria: la norma, infatti, sarebbe intervenuta a modificare soltanto l'aspetto soggettivo ai fini di eliminare qualsiasi suddivisione in termini di forma giuridica necessaria per svolgere l'attività di credito su pegno, ritenuta, altrimenti, anacronistica in considerazione del processo di despecializzazione del diritto bancario (Bonfatti, Le procedure concorsuali, cit., 73).

Invero, qualche anno più tardi rispetto all'emanazione del Testo unico bancario, il d.l. n. 35/2005, convertito nella l. n. 80/2005, ha modificato sostanzialmente la norma di cui all'art. 67 l. fall. (la novità più rilevante riguarda senza dubbio il nuovo comma 3, il quale contiene diverse esenzioni dall'applicazione delle disposizioni dell'articolo. Per un approfondimento sul tema si v. Federico, La riforma dell'azione revocatoria fallimentare, in Il nuovo diritto fallimentare e il ruolo del notaio, in Fondazione notariato, 2008).

Il nuovo comma 4 stabilisce che “le disposizioni di questo articolo non si applicano all'istituto di emissione, alle operazioni di credito su pegno e di credito fondiario”, segnando così il passaggio da un approccio soggettivo ad uno oggettivo, ai fini dell'individuazione della fattispecie esonerativa. Pertanto, se tali operazioni sono esenti da revocatoria e, ora, ai sensi dell'art. 48 TUB, tutte le banche possono esercitare tale attività, risulta evidente come il legislatore abbia ritenuto opportuno ampliare la portata delle tutele concesse in favore degli istituti che svolgono concessioni di credito così strutturate.

Si noti, infine, che il comma 4 dell'art. 67 l. fall. è confluito tale e quale all'interno dell'art. 166 c.c.i.i., il quale attualmente disciplina l'azione revocatoria.

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Il pegno irregolare

Quanto detto in tema di pegno regolare non vale, invece, laddove a garanzia del finanziamento vi sia un pegno irregolare.

Si è discusso in dottrina con riguardo alla natura giuridica del pegno irregolare: in primo luogo si è parlato di negozio fiduciario (Nicolò, in Riv. dir. civ., 1939, 372; Rubino, La responsabilità patrimoniale, il pegno, Torino, 1943, 29, 214 ss.; Trib Padova 3 febbraio 1951, in Arch. Ric. Giur., 1951, 928, con nota di Ingrasci).

A ciò si è obiettato che, nella fattispecie di cui all'art. 1851 c.c., al passaggio in proprietà dei beni non vi è apposto alcun limite oltre il quale l'atto dispositivo su di essi diventa abusivo  (Dalmartello, Il pegno irregolare, in NN.D.I., XII, Torino, 1965, 328 ss.), come accade, invece, nei negozi fiduciari.

Alcuni Autori, successivamente, hanno sostenuto che il negozio è caratterizzato da una causa solvendi, declinata come datio in solutum sottoposta a condizione risolutiva (Gorla, Del pegno. Delle ipoteche. Art. 2784-2899, III ed., Roma, 1962, 27 ss.; Torrente, Pegno irregolare e interessi, in Giur. compl. Cass. civ., 1944, 242), oppure come esecuzione di una prestazione facoltativa (Dalmartello, Il pegno irregolare, cit., 336 ss.); tuttavia, tale configurazione non si concilia con quanto previsto dall'art. 1851 c.c., secondo il quale, ai fini della restituzione dell'eccedenza, il calcolo del valore delle merci va fatto al tempo della scadenza del credito, non a quello della traditio delle res (De Martini, Sulla natura giuridica del deposito cauzionale, in Giur. it., 1947, I, 2, 334; Simonetto, I contratti di credito, Padova, 1953, 409).

Ecco che, il fatto che quanto il creditore deve restituire vada stabilito solo quando il credito garantito deve essere soddisfatto, dimostra la funzione di garanzia del pegno irregolare (così anche Cass., 2 agosto 1956, in BBTC, 1957, II, 173).

Esso, però, pur condividendo con il pegno regolare una comune causa di garanzia, si distingue da quest'ultimo “in quanto le somme di danaro o di titoli depositati presso il creditore diventano di proprietà del medesimo, sicché in caso di inadempimento del debitore, il creditore è tenuto soltanto a restituire l'eventuale eccedenza dei titoli rispetto alle somme garantite, mentre nel pegno regolare egli ha diritto a soddisfarsi disponendo dei titoli ricevuti in pegno” (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24137, che conferma Cass. 10 febbraio 2015, n. 2479; Cass. 1° febbraio 2008, n. 2456).

Se, dunque, la caratteristica della fattispecie disciplinata dall'art. 1851 c.c. è quella di trasferire la proprietà delle res oggetto di garanzia alla banca, ne consegue che le somme incamerate da questa a seguito del realizzo di un pegno irregolare, non sono i “pagamenti” di cui all'art. 166 comma 2, c.c.i.i. (prima, art. 67 comma 2, l. fall.), ma l'effetto della compensazione, la quale opera tra contrapposte ragioni di debito/credito tra cliente e istituto bancario, che vanno ad estinguersi per le quantità corrispondenti (art. 1241 c.c.), con l'obbligo per il creditore di restituire l'eventuale eccedenza (Cass. 5 novembre 2004, n. 21237. Per la verità, qualche anno più tardi, la S.C. ha precisato che l'estinzione del credito deriva, più propriamente, da “un'operazione meramente contabile” (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2479, che conferma Cass. 1° febbraio 2008, n. 2456).

Il finanziamento su pegno nella liquidazione giudiziale: la realizzazione della garanzia

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Pegno regolare e irregolare

Il secondo rilievo attiene alla sorte del contratto di credito su pegno e, in particolare, alle modalità di realizzazione della garanzia dopo la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale del soggetto finanziato.

Innanzitutto, va premesso che l'art. 172 c.c.i.i. (prima, art. 72 l. fall.) stabilisce che, per quanto concerne i rapporti pendenti al tempo dell'apertura della procedura concorsuale, l'esecuzione del contratto è sospesa finché il curatore non decide se subentrare o sciogliersi da questo.

Sulla disciplina avente ad oggetto il contratto pendente vi era parecchia incertezza, soprattutto alla luce del riferimento che a questo facevano sia l'art. 72 l. fall., che utilizzava i termini di contratto “ancora ineseguito o non compiutamente eseguito”, sia l'art. 169-bis l. fall., il quale parlava di “contratti in corso di esecuzione”, da cui sorse un contrasto dottrinale e giurisprudenziale in relazione alla coincidenza o meno della portata applicativa delle due norme.

Dopo la modifica dell'art. 169-bis, intervenuta ad opera del d.l. n. 83/2015, i termini usati sono gli stessi e pertanto si ritiene che le due disposizioni siano volte a disciplinare la medesima fattispecie.

La definizione di contratto pendente, dunque, è quella di contratto “ancora ineseguito o non compiutamente eseguito nelle prestazioni principali da entrambe le parti al momento in cui è aperta la procedura di liquidazione giudiziale”; a questa categoria appartengono, ad esempio, l'anticipazione bancaria e l'apertura di credito, nelle quali, soprattutto in caso regolazione in conto corrente, la concessione di credito della banca si configura come un'obbligazione di durata, non potendosi, quindi, sostenere che l'obbligo della stessa si esaurisca con la mera essa a disposizione della somma (Della Vedova, La sorte dei contratti bancari nella procedura di concordato preventivo, in www.fallimentiesocietà.it, 2016; per un più ampio approfondimento sulla disciplina dei rapporti pendenti, con particolare focus al contratto di affitto di azienda, si v. Bozza, I rapporti pendenti nelle procedure concorsuali, in Fallimento, 2018, 1135).

La questione, pertanto, sussiste una volta sciolto il rapporto o, comunque, in tutti i casi in cui esso si è concluso ante liquidazione e l'istituto di credito è rimasto insoddisfatto.

Secondo autorevole e risalente dottrina (Molle, I contratti bancari, in Tratt. Cicu e Messineo, Milano 1981, 351) lo scioglimento del contratto è automatico in caso di fallimento dell'accreditato. Tale conclusione potrebbe essere sostenuta, qualora il contratto di credito sia regolato in conto corrente, alla luce di quanto disposto dall'art. 183 c.c.i.i. (prima, 78 l. fall.), che dispone, per l'appunto, l'immediato scioglimento del contratto di conto corrente (anche bancario) per effetto della liquidazione giudiziale nei confronti di una delle parti].

Quanto alle modalità di realizzazione della pretesa creditoria, esse differiscono a seconda che a garanzia del finanziamento vi sia un pegno regolare o irregolare.

Qualcosa si è già accennato in merito alla prima ipotesi (si v. supra, par. 2.1.): ai sensi dell'art. 152 c.c.i.i. (prima, 53 l. fall.), la banca, in quanto creditrice privilegiata, ha la possibilità di realizzare il proprio credito, anche durante la procedura, previa sua ammissione al passivo con prelazione. La facoltà di vendere autonomamente i beni è subordinata alla presentazione di un'istanza al giudice delegato, il quale stabilisce con decreto i tempi e le modalità di vendita e, in alcuni casi, anche l'assegnazione dei beni al creditore (comma 2). Quest'ultimo, qualora il ricavato o la stima del bene eccedano l'ammontare del credito ammesso al passivo, è tenuto a restituire al curatore l'eccedenza (comma 3).

Per quanto riguarda la seconda ipotesi, invece, ben diversa è la modalità di realizzazione del credito. Alla fine del secolo scorso, ci fu un contrasto giurisprudenziale sulla applicabilità o meno anche al pegno irregolare dell'art. 53 l. fall., nella parte in cui, ai fini della realizzazione della garanzia, richiede la previa ammissione al passivo (Lobuono, Il pegno bancario, in I contratti, a cura di Capobianco, 2021, 2291).

Inizialmente, la Corte riteneva inapplicabile tale norma, sulla base del fatto che i beni consegnati in pegno al creditore diventano di sua proprietà, con la conseguenza che, nel momento in cui il debitore è inadempiente e fallito, il primo può soddisfarsi direttamente su questi al di fuori del concorso con gli altri creditori, non avendo senso, infatti, che egli sia soggetto a quella fase di accertamento del credito avente lo scopo di verificare il diritto al concorso; inoltre, rilevava, come il meccanismo dell'autorizzazione alla vendita delle res, così come previsto dall'art. 53 comma 2, l. fall., non può ritenersi compatibile con il fatto che queste sono già di proprietà del creditore. In aggiunta, la realizzazione della garanzia, più che attraverso una vera e propria compensazione, avverrebbe attraverso un'operazione contabile, dalla quale deriva l'estinzione del credito, con la conseguenza che non avrebbe senso stabilire un onere di preventiva ammissione al passivo di un credito già estinto (Cass. 24 gennaio 1997, n. 745). Qualche mese più tardi, tuttavia, la stessa Corte si pronunciava in favore della necessaria ammissione al passivo di un credito garantito da pegno irregolare, affermando che, se è pur vero che il comma 2 e 3 dell'art. 53 l. fall. presuppongono che il bene sia rimasto in proprietà del debitore, essi si riferiscono solamente alle modalità di esercizio della prelazione, mentre la previa ammissione al passivo sarebbe disposizione di carattere generale applicabile ad ogni tipologia di pegno, con la conseguenza che gli elementi che caratterizzano e differenziano le figure di pegno regolare e irregolare non giustificano l'applicazione di una diversa disciplina (si v. Cass. 28 agosto 1997, n. 81643, secondo cui “l'art. 52 l. fall., disponendo che ogni credito anche se munito di prelazione deve essere accertato, porrebbe il “canone fondamentale della verifica di tutti i crediti a garanzia della par condicio creditorum””.).

Le Sezioni unite nel 2006 hanno definitivamente risolto la questione, affermando che il creditore garantito da pegno irregolare non può e non ha l'onere di insinuarsi nel passivo per realizzare il proprio credito: la possibilità di soddisfarsi direttamente sul bene e usufruire della compensazione come modalità tipica di esercizio della prelazione comporta la sua carenza di interesse ad utilizzare la procedura di cui all'art. 53 l. fall. (Cass. 6 dicembre 2006, n. 26154, cit.). Inoltre, se inizialmente il meccanismo di autosoddisfazione era configurato come una compensazione, con conseguente applicazione dell'art. 56 l. fall. in quanto a limiti di compensabilità dei debiti verso il fallito, come già anticipato, qualche anno più tardi la S.C. ha precisato che l'estinzione del credito è effetto di un'operazione meramente contabile, da cui nasce l'obbligo di restituzione dell'eventuale eccedenza della somma o dei beni oggetto del pegno (si v. supra, nt. 29.).

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I contratti di garanzia finanziaria

L'art. 1 comma 1, lett. d), d. lgs. n. 170/2004, emanato in attuazione della direttiva 2002/47/CE del 6 giugno 2002, definisce i contratti di garanzia finanziaria come quei contratti di pegno o di cessione del credito o di trasferimento della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia, ivi compreso il contratto di pronti contro termine, e qualsiasi altro contratto di garanzia reale avente ad oggetto attività finanziarie e volto a garantire l'adempimento di obbligazioni finanziarie, stipulati da soggetti, diversi dalle persone fisiche, e autorità pubbliche, istituzioni finanziarie centrali, enti sottoposti a vigilanza prudenziale (quali, appunto, le banche; per un più ampio approfondimento del rapporto tra la disciplina dei contratti di garanzia finanziaria e alcune norme in materia di procedure concorsuali contenute nella legge fallimentare e, ora, nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in particolare con riguardo all'istituto della revocatoria fallimentare, si v. Gallina, La portata derogatoria della disciplina in materia di contratti di garanzia finanziaria, in corso di pubblicazione in Giur. it., 2024, a commento di Cass., 30 ottobre 2023, n. 29998).

L'obiettivo del legislatore comunitario, espressamente dichiarato nel considerando n. 3 della direttiva, è quello di favorire l'integrazione e l'efficienza del mercato finanziario, nonché la stabilità del sistema finanziario dell'Unione europea: tale scopo è perseguito attraverso la prescrizione dell'obbligo in capo agli Stati membri di garantire che talune disposizioni delle legislazioni nazionali sull'insolvenza non si applichino ai contratti in questione, specialmente quelle che ostacolerebbero il realizzo delle garanzie finanziarie o che porrebbero in dubbio la validità di tecniche invalse nell'uso come la compensazione bilaterale per close-out, l'integrazione della garanzia e la sua sostituzione [si v. il considerando n. 5 della direttiva 2002/47/CE).

La clausola di compensazione (netting) per close-out è definita dall'art. 2 comma 1, lett. n), della direttiva come quella clausola in forza della quale “in caso di un evento determinante l'escussione della garanzia, attraverso compensazione (netting o set off) o altra modalità: i) la scadenza delle obbligazioni delle parti viene anticipata, cosicché tali obbligazioni diventano immediatamente esigibili e vengono tradotte nell'obbligazione di versare un importo pari al loro valore corrente stimato, oppure esse sono estinte e sostituite dall'obbligazione di versare un importo identico; e/o ii) si stabilisce in un conto quanto ciascuna parte deve all'altra con riferimento a dette obbligazioni, e la somma netta globale pari al saldo dovuto dalla parte il cui debito è più elevato”.

La clausola di integrazione, invece, “prevede l'obbligo di prestare una garanzia finanziaria o di integrare la garanzia finanziaria già prestata: 1) in caso di variazione dell'importo dell'obbligazione finanziaria garantita, a seguito di variazione dei valori di mercato correnti, o del valore della garanzia originariamente prestata; 2) in caso di variazione dell'importo dell'obbligazione finanziaria garantita per causa diversa da quella di cui al numero 1)” (art. 1 comma 1, lett. e), d. lgs. n. 170/2004).

La clausola di sostituzione, infine, “prevede la possibilità di sostituire in tutto o in parte l'oggetto, nei limiti di valore dei beni originariamente costituiti in garanzia” (art. 1 comma 1, lett. g), d. lgs. n. 170/2004).

Il fatto che il valore dei beni sostituiti non deve superare quello degli originari è previsto al fine di evitare che vi sia una sottrazione al patrimonio del debitore maggiore, a danno degli altri creditori concorrenti (si v. sul punto Gabrielli, Il pegno «anomalo», Padova, 1990, 248).

La valutazione del valore dei beni va fatta al momento dell'atto di sostituzione e non al momento dell'eventuale apertura dell'esecuzione forzata o concorsuale (Gabrielli, “Forma” e “realtà” nel diritto italiano delle garanzie reali, in Riv. di Dir. Civ., 2012, 10449).

Il principio di fondo, in sostanza, è quello per cui lo scopo delle parti consiste nel perseguire la funzione di garanzia attraverso beni che rilevano non tanto per la loro individualità in quanto res, ma per il loro valore economico (Gabrielli, Il pegno, cit., 155; si cfr. anche Gabrielli, Studi sulle garanzie reali, Torino, 2015, 14 ss.); a conferma si v. anche Cass. 28 maggio 1998, n. 5264].

A tal proposito, gran parte della disciplina è dedicata all'escussione della garanzia: il legislatore nazionale, all'art. 4 del d. lgs. n. 170/2004, stabilisce che al verificarsi di un evento legittimante l'escussione della garanzia, il creditore ha facoltà, anche in caso di apertura di una procedura di risanamento (e, quindi, anche durante la procedura di concordato preventivo, dal momento che quest'ultimo fa parte delle “procedure di risanamento” secondo quanto previsto dall'art. 1 comma 1, lett. s), d. lgs. n. 170/2004) o di liquidazione, di procedere: a) alla vendita delle attività finanziarie oggetto del pegno, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del credito; b) all'appropriazione di queste fino a concorrenza del valore dell'obbligazione finanziaria garantita; c) all'utilizzo del contante per estinguere quest'ultima, sempre con l'obbligo di restituire agli organi della procedura di risanamento o di liquidazione l'eventuale eccedenza.

Tali modalità di autotutela esecutiva evocano il meccanismo satisfattivo che opera in tema di pegno irregolare; tuttavia, se, da un lato, può dirsi che il legislatore comunitario si sia ispirato alla disciplina del pegno irregolare, dall'altro non sembra altrettanto corretto affermare che dalla somiglianza dei meccanismi satisfattivi derivi automaticamente l'applicabilità del medesimo regime giuridico in materia di realizzazione della garanzia nelle procedure concorsuali. La disciplina in materia di contratti di garanzia finanziaria, infatti, prescinde dalla distinzione del pegno in regolare o irregolare, limitandosi a qualificare come “garanzia finanziaria” quella che presenta determinate caratteristiche dal punto di vista oggetto e soggettivo. Il legislatore, pertanto, non solo ha ritenuto necessario stabilire in maniera puntuale come il creditore insoddisfatto può realizzare le proprie pretese in sede concorsuale, ma ha, altresì, precisato che può esercitare tali facoltà “anche in caso di apertura di una procedura di risanamento o di liquidazione”: gli unici obblighi che la banca ha nei confronti degli organi della procedura (oltre che del datore della garanzia) sono quelli di informarli per iscritto circa le modalità adottate e l'importo ricavato e restituire contestualmente l'eccedenza (art. 4 comma 2, d. lgs. 170/2004).

Quanto disposto dall'art. 4 del d. lgs. 170/2004 va, a questo punto, inevitabilmente confrontato con l'art. 53 l. fall. (ora, art. 152 c.c.i.i.), ai sensi del quale i crediti garantiti da pegno possono essere realizzati successivamente alla loro ammissione al passivo con prelazione, garantendo, così, in sede di riparto dell'attivo, il rispetto della par condicio creditorum (a norma dell'art. 152 c.c.i.i., , la facoltà per il creditore pignoratizio di vendere autonomamente i beni è subordinata alla presentazione di un'istanza al giudice delegato, il quale stabilisce con decreto i tempi e le modalità di vendita e, in alcuni casi, anche l'assegnazione dei beni al creditore. Quest'ultimo, qualora il ricavato o la stima del bene eccedano l'ammontare del credito ammesso al passivo, è tenuto a restituire al curatore l'eccedenza.

Le procedure dettate per le due modalità di realizzazione della garanzia sono manifestamente diverse: nel diritto concorsuale ordinario, la tutela delle posizioni creditorie passa attraverso l'intervento del giudice, mentre nel decreto sulle garanzie finanziarie essa avviene in totale autonomia. È per tale ragione che si parla di “autotutela esecutiva”.

Ci si chiede, quindi, se la normativa in materia di contratti di garanzia finanziaria deroghi alla legge fallimentare, almeno per quanto attiene alle modalità di escussione del credito privilegiato in sede concorsuale.

La risposta positiva al quesito risulta evidente alla luce della direttiva 2002/47/CE del 6 giugno 2002 , modificata dalle direttive 2009/44/CE del 6 maggio 2009 e 2014/59/UE del 15 maggio 2014: il riferimento è, innanzitutto, al già citato considerando 5, secondo il quale gli Stati membri devono garantire che talune disposizioni delle legislazioni nazionali sull'insolvenza non si applichino ai predetti contratti, in particolare quelle che ostacolerebbero il realizzo delle garanzie finanziarie; in attuazione di questo principio, l'art. 4, ai commi 4 e 5, stabilisce che le modalità di escussione della garanzia finanziaria non prescrivono l'obbligo “che le condizioni del realizzo siano approvate da un tribunale, un pubblico ufficiale o altra persona” e “che il realizzo avvenga per asta pubblica o in altra forma prescritta”, ma, soprattutto, che “gli Stati membri garantiscono che un contratto di garanzia finanziaria abbia effetto conformemente ai termini in esso previsti nonostante l'avvio o il perseguimento di una procedura di liquidazione”.

La necessità di disapplicare le norme interne in materia di insolvenza è disciplinata in dettaglio dall'art. 8 della direttiva, ai sensi del quale: la garanzia finanziaria non può essere dichiarata nulla, annullabile o essere resa inefficace soltanto in base al fatto che il contratto di garanzia finanziaria è stato perfezionato “il giorno dell'avvio delle procedure di liquidazione o dei provvedimenti di risanamento, ma anteriormente all'ordinanza o al decreto di avvio; o nel corso di un determinato periodo antecedente all'avvio di tali procedure o provvedimenti e definito in rapporto a tale avvio o in rapporto all'emanazione di un'ordinanza o di un decreto o all'adozione di qualunque altro provvedimento o di qualunque altro evento concomitante con dette procedure o con detti provvedimenti” (comma 1); “gli Stati membri assicurano che, qualora sia stato perfezionato un contratto di garanzia finanziaria o sia sorta un'obbligazione finanziaria garantita, o si sia fornita la garanzia finanziaria alla data delle procedure di liquidazione o delle disposizioni di risanamento, ma dopo l'avvio di tali procedure, esso è legalmente opponibile ai terzi e vincolante nei confronti di questi ultimi se il beneficiario della garanzia può dimostrare di non essere stato, né di aver potuto essere, a conoscenza dell'avvio di tali procedure” (comma 4).

La disposizione è attuata a livello nazionale dall'art. 9 del d. lgs. n. 170/2004, il quale prevede che “la garanzia finanziaria prestata, anche in conformità ad una clausola di integrazione o di sostituzione, ed il contratto relativo alla garanzia stessa non possono essere dichiarati inefficaci nei confronti dei creditori soltanto in base al fatto che la prestazione della garanzia finanziaria o il sorgere dell'obbligazione finanziaria garantita siano avvenuti: a) il giorno di apertura della procedura medesima e prima del momento di apertura di detta procedura; b) il giorno di apertura della procedura medesima e dopo il momento di apertura di detta procedura, qualora il beneficiario della garanzia possa dimostrare di non essere stato, né di aver potuto essere, a conoscenza dell'apertura della procedura”.

La portata derogatoria della norma, pertanto, può dirsi avere effetto anche nei confronti dell'art. 44 l. fall.: lo rileva la S.C., secondo cui “in armonia col diritto unionale, il legislatore ha quindi derogato all'art. 44 l. fall., in virtù del quale “tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci nei confronti dei creditori”, senza eccezione, e quindi senza rilievo alcuno dell'inscientia, da parte del beneficiario, dell'avvio della procedura” (Cass. 30 ottobre 2023, n. 29998, pt. 8.1].

La stessa giurisprudenza sovranazionale, chiamata a pronunciarsi in sede di rinvio pregiudiziale per chiarire il campo di applicazione della fattispecie in rapporto alle norme interne degli Stati membri in materia di escussione della garanzia nelle procedure di insolvenza, ha chiarito che il sistema instaurato dalla direttiva 2002/47 “conferisce ai beneficiari di tali garanzie il diritto di escuterle nonostante l'avvio di una procedura di insolvenza nei confronti del datore della garanzia” (Corte di giust. 10 novembre 2016, C-156/15, EU:C:2016:851, pt. 23), attribuendo in questo modo “un vantaggio alle garanzie finanziarie rispetto ad altri tipi di garanzie che non rientrano nel campo di applicazione di tale direttiva”.

Inoltre, in merito alla compatibilità del sistema instaurato dalla direttiva con il principio della par condicio creditorum nell'ambito di una procedura di insolvenza, “si deve ancora ricordare che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, il principio di uguaglianza, sancito all'articolo 20 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, è un principio generale di diritto dell'Unione che impone che situazioni paragonabili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato. Una differenza di trattamento è giustificata se si fonda su un criterio oggettivo e ragionevole, ossia se è correlata a un legittimo scopo perseguito dalla normativa in questione e se è proporzionata allo scopo perseguito dal trattamento in questione” (si cfr. anche sent. del 17 ottobre 2013, Schaible, C‑101/12, EU:C:2013:661, ptt. 76-77).

Qui la differenza di trattamento si fonda su un criterio oggettivo correlato con lo scopo della direttiva di migliorare la certezza giuridica e l'efficacia delle garanzie finanziarie al fine di garantire la stabilità del sistema finanziario (ivi, pt. 51), e non vi è “alcun elemento che consentirebbe di ritenere che la suddetta differenza di trattamento sia sproporzionata rispetto allo scopo perseguito” (pt. 52)(a conferma si v. anche la sent. del 25 luglio 2018, C-107/17, pt. 24, dove la Corte ribadisce che la “direttiva ha instaurato un sistema che ha lo scopo di limitare le formalità amministrative gravanti sugli operatori che utilizzano le garanzie finanziarie rientranti nel suo campo di applicazione, di migliorare la certezza giuridica di tali garanzie facendo sì che non vengano loro applicate talune disposizioni delle legislazioni nazionali sull'insolvenza per salvaguardare la stabilità finanziaria e limitare gli effetti di contagio in caso di inadempimento di una delle parti del contratto di garanzia finanziaria”).

Anche la giurisprudenza italiana ha più volte confermato questo orientamento.

In un caso (Trib. Brescia 27 gennaio 2015) si è affermato che  “L'interpretazione dell'art. 53 L.F. che vorrebbe che la facoltà di vendita diretta delle attività finanziarie oggetto di pegno al verificarsi di un evento determinante l'escussione della garanzia (facoltà prevista anche in caso di apertura di una procedura di risanamento o di liquidazione dall'art. 4 del D.Lvo. 21 maggio 2004 n. 170 di attuazione della direttiva comunitaria 2002/47) debba, in caso di fallimento del debitore pignoratizio, essere preceduta dall'ammissione al passivo fallimentare con privilegio del credito garantito, risulta contrastare con il disposto dell'art. 4 comma 4 lettera b) di detta direttiva che prevede espressamente che le modalità di realizzo delle garanzie finanziarie non possano prescrivere l'obbligo “che le condizioni di realizzo siano approvate da un tribunale, un pubblico ufficiale o altra persona”. Dal momento che il termine “condizioni di realizzo” pare riferirsi ai presupposti per la realizzazione della garanzia può fondamentalmente dubitarsi della correttezza di detta interpretazione, parendo che la norma comunitaria voglia escludere il controllo preventivo del tribunale nella realizzazione della garanzia, tanto più che il punto 17) dei “considerando” della stessa direttiva prevede per gli Stati membri la possibilità di conservare o introdurre un controllo, ma parrebbe solo ‘a posteriori'” [a conferma, si v. Cass. 7 aprile 2016, n. 6760, secondo la quale “in tema di contratti di garanzia finanziaria, l'art. 4, commi 1, lett. a), e 2, del d.lgs. n. 170 del 2004 (attuativo della direttiva 2002/47/CE), nello stabilire che, al verificarsi di un evento determinante l'escussione della garanzia, il creditore pignoratizio ha facoltà, anche nel caso di apertura di una procedura di risanamento (concordato preventivo e amministrazione controllata) o di liquidazione (fallimento e liquidazione coatta amministrativa), di procedere alla vendita delle attività finanziarie oggetto di pegno nel rispetto delle formalità contrattualmente previste, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del proprio credito fino a concorrenza del valore dell'obbligazione finanziaria garantita, informando per iscritto gli organi della procedura sulle modalità di escussione adottate e sull'importo ricavato, nonché restituendo contestualmente l'eccedenza, attiene alla facoltà di esecuzione coattiva del credito in autotutela”; aggiunge, inoltre, che la norma “si applica anche alle garanzie pignoratizie costituite in data antecedente alla sua entrata in vigore, sia per il generale criterio procedimentale del tempus regit actum, sia in ragione dell'espressa previsione dell'art. 11 del menzionato decreto, che ritiene applicabili le sole disposizioni dell'art. 3 alle garanzie costituite in epoca successiva”].

Si è arrivati, addirittura, a sostenere che la portata derogatoria della normativa dei contratti di garanzia finanziaria investe i caratteri generali dell'intero sistema disciplinato dalla legge fallimentare (Trib. Monza, 10 giugno 2021, in dirittobancario.it, in cui si afferma che “deve ritenersi che le norme speciali in tema di contratto di garanzia finanziaria deroghino a quelle di carattere generale previste dalla legge fallimentare, tra cui l'art. 53 L.F.”; si fa notare che “peraltro, una tale deroga rispetto al regime normativo generale di cui all'art. 53 L.F. non ha carattere isolato, visto che un fenomeno analogo si verifica anche in tema di pegno irregolare” (si cfr. in tema Cass. 24 gennaio 1997, n. 745,; Cass. 6 dicembre 2006, n. 26154, cit.; Cass. 6 febbraio 2018, n. 2818).

In senso contrario, invece, si è ritenuto, con isolata pronuncia (Trib. Latina 27 marzo 2020, n. 654, in One Legale) che la differenza tra pegno regolare e irregolare rimanga rilevante anche dopo l'introduzione del d. lgs. n. 170/2004: questo, infatti, deve essere coordinato con la disciplina speciale di cui alla legge fallimentare e segnatamente con l'art. 52 comma 3, il quale sancisce che le regole generali in materia di accertamento del passivo si applicano anche a “crediti esentati dal divieto di cui all'art. 51”, ai sensi del quale “dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per crediti maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento”. Pertanto, la libera realizzabilità della garanzia finanziaria non può prevalere sulla par condicio né derogare alle regole del concorso: l'unica eccezione è quella delle garanzie finanziarie aventi ad oggetto esclusivamente “depositi di denaro, merci o titoli che non siano stati individuati e di cui il creditore garantito abbia la facoltà di disporre”, ossia la fattispecie di pegno irregolare.

Si noti, infine, l'influenza esercitata dalle norme in materia di contratti di garanzia finanziaria, con riguardo, soprattutto, alle modalità di escussione della garanzia, nei confronti di interventi legislativi successivi: ci si riferisce, in particolare, all'art. 1 del d.l. n. 59/2016, convertito nella l. 30 giugno 2019, n. 119, recante le disposizioni in tema di pegno mobiliare non possessorio (per un più ampio approfondimento della fattispecie, si v. Gabrielli, Nuovi modelli di garanzie patrimoniali - Una garanzia reale senza possesso, in Giur. it., 2017, 1715.).

All'art. 1 comma 7, d.l. n. 59/2016, infatti, si prevede che al verificarsi di un evento che determina l'escussione del pegno (ad esempio, l'inadempimento del debitore o la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nei suoi confronti) il titolare di un pegno non possessorio ha facoltà di procedere: i) alla vendita dei beni oggetto del pegno trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del credito fino a concorrenza della somma garantita, con successiva restituzione al debitore dell'eccedenza, dopo averlo informato immediatamente per iscritto circa l'importo ricavato; ii) nel caso in cui ad oggetto di pegno vi siano crediti, alla loro escussione o cessione fino a concorrenza della somma garantita; iii) ove previsto nel contratto di pegno e iscritto nel registro, alla locazione del bene imputando i canoni a soddisfacimento del proprio credito, fino a concorrenza della somma garantita e a patto che il contratto preveda i criteri e le modalità di determinazione del corrispettivo della locazione; iv) sempre se pattuito, all'appropriazione dei beni oggetto del pegno, sempre fino a concorrenza della somma garantita e a condizione che siano stati previsti anticipatamente i criteri e le modalità di valutazione del valore del bene e dell'obbligazione garantita.

Va precisato, tuttavia, che diversamente da quanto evidenziato in precedenza in tema di contratti di garanzia finanziaria, “in caso di fallimento [ora, liquidazione giudiziale] del debitore il creditore può procedere a norma del comma 7 solo dopo che il suo credito è stato ammesso al passivo con prelazione” (art. 1 comma 8), con la conseguenza, pertanto, che non sembra esserci, qui, una deroga all'art. 152 c.c.i.i. (prima, art. 53 l. fall.) (sul punto si v. De Santis, Garanzie dei finanziamenti alle imprese in crisi ed autotutele esecutive, in Fallimento, 2021, 1262. Per un approfondimento sul pegno mobiliare non possessorio nello scenario della liquidazione giudiziale, si v. Senni, Pegno non possessorio e strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza, in dirittodellacrisi.it, 2023).

Il finanziamento su pegno nel concordato preventivo

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La sorte del contratto

Con il terzo rilievo si vuole approfondire il regime della fattispecie in esame nel concordato preventivo (sul punto, si v. ampiamente anche Bonfatti, La nozione di finanziamento. Le forme negoziali tipiche e atipiche, in Fallimento, 2021, 1189 ss.).

Ci si chiede, in via preliminare, quale sia la sorte del contratto di credito pendente: il principio cardine, qui, consiste nella prosecuzione del rapporto, il quale, come si è anticipato, è definito come quello ancora ineseguito o non compiutamente eseguito nelle prestazioni principali da entrambe le parti alla data del deposito della domanda di accesso al concordato (art. 97 comma 1, c.c.i.i.).

Con l'entrata in vigore delcodice della crisi, la disciplina dei contratti pendenti è confluita nell'art. 97 c.c.i.i., il quale, in primo luogo, stabilisce la loro prosecuzione nonostante l'apertura della procedura e l'inefficacia di eventuali patti contrari (comma 1). Il debitore, tuttavia, ha la facoltà di presentare un'istanza autonoma con la quale può chiedere la sospensione o lo scioglimento [con riguardo all'istituto dello scioglimento, si è pronunciata di recente la S.C., la quale ha affermato che “costituisce una facoltà di natura potestativa messa a disposizione del debitore nel contesto delle soluzioni concordatarie, volte a perseguire il miglior soddisfacimento del ceto creditorio. A determinate condizioni, soggette a verifica giudiziale prima fra tutte la coerenza con il piano concordatario, anche sotto il profilo della sua “fattibilità”, lo scioglimento assume i connotati della legittimità, in deroga al diritto comune (posto che, in assenza di vizi genetici o funzionali, il contratto continua ad avere forza di legge tra le parti, ex art. 1372 c.c., anche in costanza di concordato, a differenza del fallimento, che di regola comporta invece la sospensione automatica dei contratti pendenti)”: Cass., 23 novembre 2020, n. 26568,].

La necessità di contemperare l'interesse del debitore alla soluzione concordataria e quello del contraente in bonis all'adempimento del contratto è espressa dalle disposizioni a tutela di quest'ultimo: il comma 3, a tal proposito, prevede che il primo, con l'istanza di scioglimento o sospensione, deve proporre una quantificazione dell'indennizzo dovuto alla controparte per la mancata attuazione dell'obbligazione pattuita (Conforto, La sorte dei contratti pendenti nel concordato preventivo: riflessioni sulla disciplina prevista dal codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Contratto e Impresa, 2022, 152). Va aggiunto, però, che, ai sensi del comma 11, il legislatore attribuisce natura chirografaria a questo diritto patrimoniale: a detta di qualcuno, sottoporre tale credito a falcidia concordataria comporterebbe “lo svuotamento della tutela del contrente in bonis” (ivi,  154. L'Autore rileva come non è l'unico al quale sono sorti forti dubbi in merito alla scelta operata dal legislatore; si v. Censoni, La continuazione e lo scioglimento dei contratti pendenti nel concordato preventivo, in Crisi d'Impresa e Fallimento, 2013, 20 ss.).

Qualora la controparte sia in disaccordo sulla quantificazione, la sua determinazione è rimessa al giudice ordinariamente competente (comma 10), che si pronuncia solo provvisoriamente, ai fini del voto e del calcolo delle maggioranze per l'approvazione del concordato di cui all'art. 109 c.c.i.i..

Il contraente in bonis, inoltre, ha il diritto di opporsi alla richiesta del debitore, attraverso il deposito di una memoria scritta entro sette giorni dalla notificazione dell'istanza: si ritiene che, data la competenza del giudice ordinario, l'opposizione possa concernere soltanto la coerenza o la funzionalità del negozio con il piano concordato.

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L'escussione della garanzia

L'art. 168 l. fall. prevedeva che, una volta pubblicata la domanda introduttiva nel registro nelle imprese, i creditori concorsuali per titolo o causa anteriore non potevano iniziare o proseguire qualunque azione esecutiva o cautelare sul patrimonio del debitore; tale divieto, a ben vedere, si configurava come un effetto automatico e obbligatorio, il quale trovava fonte direttamente nella legge (Angeloni-Buoni, Il tramonto dell'automatic stay nel concordato semplificato, in dirittobancario.it, 2022).

Fra le azioni esecutive devono ricomprendersi anche le tipiche modalità di realizzazione del pegno, dal momento che hanno la medesima funzione di realizzare al di fuori del concorso degli altri creditori l'obbligazione del debitore e, inoltre, perché, in tema di disciplina applicabile, non vi era alcun rinvio all'art. 53 l. fall. (Censoni, Gli effetti del concordato preventivo nei confronti dei creditori dalla legge fallimentare al codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in ilcaso.it, 2019).

La regola del cosiddetto automatic stay muta completamente con l'emanazione del codice della crisi: ora, ai sensi dell'art. 54 c.c.i.i., l'applicazione delle misure protettive discende da esplicita richiesta del debitore, contestuale alla domanda di accesso al concordato. Dopo la pubblicazione di questa, viene designato il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento (art. 55 comma 1), il quale conferma o revoca le misure protettive, stabilendone la durata entro trenta giorni dall'iscrizione della domanda nel registro delle imprese (art. 55 comma 3). E se per qualunque motivo il decreto non viene depositato entro trenta giorni, gli effetti protettivi cessano. Pertanto, in caso di mancata richiesta, revoca o cessazione della misura, il creditore può esperire qualsiasi azione esecutiva sul patrimonio del debitore.

Diversamente da quanto previsto in tema di revocatoria fallimentare e liquidazione giudiziale, le norme relative alla procedura di concordato preventivo non prevedono particolari esenzioni dall'applicazione della disciplina. L'unica specifica eccezione al divieto di esperimento o proseguimento di azioni esecutive è quella prevista in tema di contratti garanzia finanziaria: come si è già avuto modo di approfondire (si v. supra, par. 3.2.), infatti, l'art. 4 del d.lgs. n. 170/2004 attribuisce al creditore, “anche in caso di apertura di una procedura di risanamento” – delle quali fa parte, ai sensi dell'art. 1 comma 1, lett. s) d.lgs. n. 170/2004, anche il concordato preventivo. – la facoltà di procedere alla realizzazione della garanzia attraverso le modalità di cui al comma 1.

Si ritiene, tuttavia, che quanto si è detto in tema di pegno irregolare in ambito di revocatoria fallimentare e liquidazione giudiziale valga anche nei confronti della procedura di concordato preventivo (si veda ad esempio, Fumagalli, L'escussione del pegno nell'ambito della procedura di concordato preventivo, in iusletter.com, 2014): l'acquisto della proprietà delle cose oggetto di pegno, infatti, consentirebbe al creditore di soddisfarsi su beni che non fanno più parte del patrimonio del debitore e, pertanto, senza violare la regola della par condicio creditorum (secondo taluno, il non aver espressamente previsto, in tema di pegno mobiliare non possessorio, deroghe a tale disciplina comporta che la banca non è esente dal divieto di azioni esecutive sul patrimonio del debitore, dal momento che l'art. 1 comma 7, del d.l. n. 59/2016, per “evento che determina l'escussione del pegno”, intenderebbe soltanto la dichiarazione di fallimento, e non, invece, la pubblicazione della domanda introduttiva di concordato preventivo: Censoni, Gli effetti del concordato, cit.).

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Il regime dei pagamenti dei debiti e dei finanziamenti in esecuzione di concordato

Ai sensi dell'art 94 c.c.i.i., il debitore, dalla presentazione della domanda di accesso al concordato preventivo e fino all'omologazione, conserva l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale. In questa fase di “spossessamento attenuato” (in questi termini, si v. Cass., 15 febbraio 2021, n. 3850), egli può compiere atti di straordinaria amministrazione solo con l'autorizzazione del giudice delegato: in mancanza di questa, essi saranno inefficaci nei confronti dei creditori anteriori al concordato (art. 94 comma 2, c.c.i.i.).

Per quanto attiene ai pagamenti effettuati in adempimento di un finanziamento concesso dalla banca, essi costituiscono atti di ordinaria amministrazione solo laddove la loro esecuzione sia conforme e coerente con la domanda e il piano concordatario (Donvito, Il regime dei pagamenti nel concordato preventivo, in letteralegale.info, 2014). Tale compatibilità è anche parametro di valutazione circa l'autorizzazione al compimento di quegli atti indicati dall'art. 94 comma 2, c.c.i.i., come, ad esempio, la concessione di una garanzia reale.

Se è prevista la continuazione dell'attività aziendale, il nuovo art. 100 c.c.i.i. (modificato dall'art. 21 comma 2, d. lgs. n. 83/2022), stabilisce che, qualora il debitore faccia richiesta al tribunale, egli può essere autorizzato a pagare crediti anteriori, “se un professionista indipendente attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell'attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori”. Tra i cosiddetti “fornitori strategici” di beni e servizi, tuttavia, non sembrano fare parte le banche: se, infatti, queste non possono esperire azioni esecutive per realizzare le proprie pretese, non si vede come il debitore possa voler pagare i propri debiti nei loro confronti, prima dell'omologazione. La stessa relazione al codice, nei riguardi dell'art. 100 c.c.i.i., giustifica la disciplina nell'ottica di soddisfare quei “fornitori strategici di beni e servizi indispensabili per la gestione dell'impresa, che potrebbero legittimamente rifiutarsi di aderire alla richiesta di ulteriori forniture, con la prospettiva di ottenere anche l'immediato e integrale pagamento di quelle pregresse”: tali poteri, in caso di applicazione delle misure protettive, non si confanno con quelli azionabili dagli istituti di credito in questa fase.

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Il finanziamento su pegno in esecuzione di concordato

Non resta che affrontare, in conclusione, l'ipotesi in cui il contratto di finanziamento su pegno sorga in esecuzione del piano concordatario, successivamente, dunque, alla presentazione della domanda di accesso alla procedura o dopo l'omologazione del concordato.

Nell'ottica, soprattutto, della continuazione dell'attività aziendale, risulta conveniente ricorrere a delle linee di credito funzionali a permettere al debitore in crisi di proseguire la propria attività economica: questi, a tal proposito, potrebbe sfruttare i propri assets a garanzia di concessione di finanziamenti da parte delle banche.

La delicata situazione in cui si trova il debitore, il quale, se non riesce a superare la crisi, rischia di incorrere nella liquidazione giudiziale, ha portato il legislatore a tutelare questa tipologia di crediti attraverso un sistema di prededucibilità in sede di riparto dell'attivo.

Già sotto la vigenza della l. fall., l'art. 111 comma 2, in termini generali, configurava come prededucibili quei crediti sorti in occasione o in funzione di una procedura concorsuale o così ritenuti in forza di una specifica disposizione di legge. Quest'ultima si rinveniva nell'art. 182-quater l. fall. (norma introdotta dal d.l. n. 78/2010, convertito in l. n. 122/2010, successivamente modificata dal d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012), il quale, tuttavia, prevedeva una regolamentazione molto più articolata e complessa rispetto a quella generale.

Lo stesso problema di coordinamento si ritrova nel codice della crisi, in cui l'art. 6, lett. d), riconosce come prededucibili “i crediti legalmente sorti durante le procedure concorsuali per la gestione del patrimonio del debitore, la continuazione dell'esercizio dell'impresa, il compenso degli organi preposti e le prestazioni professionali richieste dagli organi medesimi” (Falcone, I finanziamenti “in esecuzione” di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti: continuità ed innovazioni nel “Codice della crisi e dell'insolvenza”, in Riv. dir. banc., 2018, 726-727. Qui l'Autore fa notare come il legislatore abbia sostituito i criteri della “occasionalità” e “funzionalità” con l'avverbio “durante”).

Parallelamente esiste una disciplina speciale avente ad oggetto i finanziamenti in esecuzione: l'art. 101 c.c.i.i., al comma 1, stabilisce che “quando è prevista la continuazione dell'attività aziendale, i crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati, ivi compresa l'emissione di garanzie, in esecuzione di un concordato preventivo ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ed espressamente previsti nel piano ad essi sottostante sono prededucibili”.

Pertanto, sembra potersi riassumere che, da una parte, i finanziamenti in esecuzione di un concordato omologato sono prededucibili solo laddove siano stati previsti sia la continuazione dell'attività aziendale, sia, specificamente nel piano, quel determinato atto.

Iin realtà, ci sono stati casi in cui la giurisprudenza ha ritenuto irrilevante la specifica previsione nel piano, dal momento che “nel corso dell'esecuzione del concordato, e proprio allo scopo di darvi adempimento”, può accadere che il debitore si trovi “nella necessità di contrarre nuove obbligazioni, che, in tal caso, devono senz'altro ritenersi sorte “in funzione” della procedura” (Cass., 10 gennaio 2018, n. 380).

Non sempre, infatti, è possibile prevenire in partenza tutti gli atti che saranno necessari al superamento della crisi (in tal senso, si v. Bonfatti, I presupposti e gli effetti del sostegno finanziario alle imprese in crisi. Uno sguardo d'insieme, in dirittobancario.it., 2022); dall'altra, i finanziamenti contratti dopo la domanda di accesso e prima del decreto di apertura producono crediti prededucibili soltanto se sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore (art. 46 comma 4, c.c.i.i.), ossia quelli da questo compiuti nell'esercizio dell'ordinaria amministrazione o con l'autorizzazione del tribunale (Falcone, I finanziamenti “in esecuzione”, cit., 726).

Per gli atti compiuti, invece, a partire dal decreto di apertura e fino all'omologazione, sull'istanza di autorizzazione provvede il giudice delegato (art. 46 comma 3, c.c.i.i.).

Infine, se ai sensi dell'art. 6 comma 2, c.c.i.i., la prededucibilità permane anche nell'ambito delle successive procedure esecutive o concorsuali e l'art. 221 c.c.i.i. stabilisce che, in sede di liquidazione dell'attivo, sono soddisfatti prioritariamente i crediti prededucibili e quelli ammessi con prelazione, la banca, la quale ha finanziato il debitore in crisi attraverso un finanziamento su pegno, risulta essere doppiamente garantita: pattiziamente, in forza del contratto di credito su garanzia reale pignoratizia, ed ex lege, in forza di specifica disposizione normativa.

Conclusioni

Alla luce dell'analisi qui svolta, può ritenersi sussistere un favor, normativo e giurisprudenziale, nei confronti dei finanziamenti bancari su pegno nelle procedure concorsuali.

In primo luogo, in tema di revocatoria fallimentare, si è visto come, da un lato, l'art. 166 c.c.i.i. preveda una deroga speciale all'applicazione di tale istituto alle operazioni di credito su pegno, dall'altro, la revocabilità dei pagamenti derivanti dall'escussione della garanzia, avvenuta nel c.d. periodo sospetto, sia esclusa qualora a copertura del finanziamento vi sia un pegno irregolare.

In secondo luogo, è emerso come, accanto alla procedura ordinaria di realizzazione della garanzia pignoratizia di cui all'art. 152 c.c.i.i., il legislatore degli ultimi anni abbia introdotto delle modalità di autotutela esecutiva volte ad agevolare e rendere più rapide le modalità di recupero del credito da parte dei creditori insoddisfatti, come nel caso del pegno mobiliare non possessorio e dei contratti di garanzia finanziaria.

Per questi ultimi, infine, si è evidenziato come la facoltà di escutere autonomamente il pegno sia prevista anche in una procedura di risanamento, quale il concordato preventivo.

In definitiva, si può constatare come, nella disciplina dei finanziamenti bancari su pegno, la tendenza del legislatore sia quella di tutelare prioritariamente gli interessi delle banche, le quali, nella loro attività di concessione di credito, si espongono al rischio di un'eventuale insolvenza del debitore. Ma, a ben vedere, attraverso questa tutela, si incentiva anche l'intermediario a erogare prestiti, favorendo, così, l'accesso al credito.

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