Licenziamento per inidoneità fisica del dipendente: onere probatorio e tutela applicabile
18 Giugno 2024
Massima L'onere datoriale di provare l'impossibilità del repêchage, in quanto concernente un fatto negativo, potrà essere assolto non già sfruttando la mancata indicazione da parte del lavoratore, ma solo mediante la prova (presuntiva) che tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni. Il caso La rilevanza del riparto dell'onere probatorio in materia e le conseguenze giuridiche La fattispecie oggetto della presente trattazione di commento trae origine dal ricorso avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento “per ritenuta inidoneità fisica”, promosso da un dipendente di una Società operante nel settore ferroviario. Più nel dettaglio, il lavoratore aveva provveduto a contestare la legittimità del provvedimento risolutivo datoriale, deducendo, tra le altre cose, la violazione dell'obbligo di repêchage, senza però offrire alcuna indicazione circa la sussistenza di mansioni alternative in cui poter essere reimpiegato. Il Giudice del lavoro di prime cure, rilevata la carenza di dimostrazione, ad opera datoriale, dell'impossibilità di repêchage del lavoratore, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato “per ritenuta inidoneità fisica”, con condanna dell'azienda, ai sensi del comma 4 dell'art. 18 della legge n. 300/1970 (come novellato dalla l. n. 92/2012), alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno pari ad un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto, nella misura di dodici mensilità, oltre accessori e rivalutazione monetaria e versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Proposto appello da parte della datrice di lavoro, in sede di gravame la Corte territoriale, nel confermare la pronuncia del primo estensore, osservava come, rispetto all'onere datoriale di provare l'impossibilità del repêchage, non gravasse sul lavoratore alcun obbligo di indicare, in seno all'atto introduttivo del giudizio, eventuali posizioni alternative cui avrebbe potuto essere adibito. Per i Giudici di merito, infatti, è il datore di lavoro che deve provvedere a tale dimostrazione, mediante la prova (presuntiva) che tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni, non potendo sfruttare, in alcun modo, la mancata indicazione del lavoratore in merito alla sussistenza di attività di reimpiego asseritamente vacanti. Per la Corte territoriale, dunque, la violazione dell'obbligo di repêchage del lavoratore in mansioni per le quali non sussista inidoneità fisica (e quindi compatibili con le sue condizioni di salute) era stata correttamente sanzionata in primo grado con l'applicazione della tutela reintegratoria prevista dalla legge n. 92/2012, con conseguente integrale rigetto dell'appello proposto dalla datrice di lavoro soccombente. Nonostante l'esito doppio conforme del giudizio, parte datoriale decideva, comunque, di ricorrere in Cassazione, contestando, in particolare e per quel che rileva ai fini della presente trattazione, la violazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 115 e 116 in ordine alla libertà dei mezzi di prova, nonché dell'art. 421, co. 2. c.p.c. in ordine ai poteri istruttori del giudice del lavoro (relativamente alla dimostrazione della insussistenza di posizioni lavorative disponibili), in uno alla violazione dell'art. 18, commi 4, 5 e 7, St. Lav., in ordine all'applicazione della tutela reintegratoria conseguente alla ritenuta illegittimità del licenziamento. Secondo la Società datrice di lavoro, infatti, la Corte di merito avrebbe rifiutato l'ammissione della prova testimoniale in ordine alla indisponibilità di utili posizioni lavorative ed avrebbe altresì errato nell'individuazione della tutela spettante, posto che, nel caso di violazione dell'obbligo di repêchage, andrebbe applicata la sola tutela indennitaria del comma 5 dell'art. 18 novellato. La questione L'integrazione dell'onere probatorio datoriale e la tutela applicabile La questione sottesa alla pronuncia in esame riguarda la disamina e la strutturazione del corretto assolvimento datoriale dell'onere probatorio in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto, in uno all'individuazione della tutela concretamente applicabile al caso di specie. La soluzione giuridica Il mancato assolvimento dell'onere probatorio datoriale comporta l'illegittimità del licenziamento e l'applicazione della tutela reintegratoria La Suprema Corte, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dalla disamina congiunta, per connessione, dei primi due motivi di ricorso, evidenziando come la mancata ammissione della prova testimoniale possa formare oggetto di valida denuncia in sede di legittimità solo nel caso in cui essa abbia determinato l'omissione di motivazione su di un punto decisivo della controversia. Sottolineano, infatti, gli Ermellini, come tale circostanza si verifichi nel caso in cui la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (ferma restando, in ogni caso, la competenza esclusiva del giudice del merito a valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti). Nella fattispecie in esame, tuttavia, in base al corretto ragionamento espresso dalla Corte territoriale, risulta evidente come la prova non ammessa non potesse avere alcuna incidenza realmente decisiva sull'esito della lite, in quanto, per le ragioni espresse dai Giudici di merito, il datore di lavoro aveva l'onere di fornire non solo la prova che tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento, ma anche che, nel periodo successivo e per un congruo lasso temporale, non erano state effettuate assunzioni, in uno all'impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli; dimostrazione che appare certamente carente nel caso in esame. Evidenzia, pertanto, la Suprema Corte come, considerando che nell'ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore il datore di lavoro ha l'onere, ai sensi dell'art. 5 della l. n. 604/1966, di provare (mediante i presupposti indicati) la sussistenza delle giustificazioni del recesso, la sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio per cui la violazione dell'obbligo di repêchage datoriale integri una specifica ipotesi di difetto di giustificazione del licenziamento, suscettibile, come tale, di applicazione del rimedio reintegratorio. Va, invero, a tal fine ricordato come, con la sentenza n. 125/2022, il Giudice delle leggi abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della l. n. 300/1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della l. n. n. 92/2012, limitatamente alla parola «manifesta», dopo aver, con la sentenza n. 59/2021, già dichiarato l'illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, un potere discrezionale del giudice in ordine all'applicazione della tutela reale. Ne consegue, dunque, come, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la "insussistenza dei fatto" (da intendersi comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore) debba essere applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti dì legittimità del recesso. Il ricorso è stato, pertanto, respinto nel suo complesso. Osservazioni L'insussistenza della giustificazione nel licenziamento per inidoneità del lavoratore e l'evoluzione della materia La pronuncia in esame ci consente di avanzare alcune considerazioni di sintesi sul tema del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente, quale ambito di possibile operatività risolutiva del rapporto di lavoro, che, per lungo tempo, ha costituito argomento di ampio dibattito in campo dottrinale e giurisprudenziale. Pensiamo, infatti, come, sino quasi alla fine del secolo scorso, nel caso in cui il lavoratore fosse divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni assegnate in costanza del rapporto di lavoro, il rimedio comunemente adottato ed ammesso per regolare il destino delle obbligazioni immanenti alla vicenda lavorativa fosse sostanzialmente ricondotto al disposto dell'art. 1464 c.c. ed alla disciplina del recesso datoriale per sopraggiunta impossibilità della prestazione da parte del dipendente. In tale ipotesi, il lavoratore non poteva vantare alcun pregnante diritto o pretesa nei confronti dell'azienda, non sussistendo, peraltro, in capo al datore di lavoro, alcun onere probatorio in merito alla dimostrazione dell'impossibilità di reimpiego del dipendente ovvero in merito all'inesistenza di alternative occupazionali endoaziendali, con riferimento a mansioni confacenti alle condizioni psicofisiche del lavoratore. Ma nel 1998 si registra un punto di svolta, grazie all'intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, che espressamente riconducono l'ipotesi della risoluzione del rapporto lavorativo per inidoneità del dipendente allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto nell'alveo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con conseguente rinvenimento dello specifico obbligo di repêchage datoriale, connesso alla concreta possibilità di ricollocamento lavorativo del soggetto all'interno dell'azienda ed in mansioni, anche inferiori, che il lavoratore è in grado di svolgere. Di talché, viene così cristallizzato un doppio onere datoriale insito nell'accertamento preventivo della inidoneità lavorativa del dipendente e nella successiva verifica di esistenza, in seno alla propria struttura produttiva, di altre mansioni che risultino confacenti alle condizioni del lavoratore ed a cui poterlo adibire salvaguardandone la prosecuzione del rapporto lavorativo. Si apre, quindi, la strada alla disciplina di tutela, poi confluita nel disposto dell'art. 42 del d.lgs. n. 81/2008, in base al quale “il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un'inidoneità alla mansione specifica, adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”. Ma vi è di più. Nel tempo si fa strada un orientamento di derivazione comunitaria, che tende ad equiparare il lavoratore giudicato inidoneo alla mansione ad una condizione di sostanziale disabilità, intesa come limitazione funzionale della partecipazione attiva del soggetto nell'ambito professionale, per ragioni riconnesse a menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature. Ciò comporterebbe, per parte datoriale, la necessità di non limitarsi alla sola verifica della possibilità di reimpiego del dipendente in mansioni compatibili con il suo stato di salute, ma di spingersi oltre sino ad attuare degli “accomodamenti ragionevoli” (quali ad esempio il trasferimento del lavoratore in locali idonei o la riduzione degli orari lavorativi dello stesso o similari), al fine di garantire la massima tutela della posizione lavorativa del soggetto e con l'unico limite dell'eccessiva sproporzione di tali misure dal punto di vista finanziario. In tal guisa, si impone al datore la ricerca di misure organizzative ragionevoli ed idonee a consentire lo svolgimento di una attività lavorativa a persona con disabilità, in stretta connessione con la previsione dell'art. 3 comma 3-bis del d.lgs. n. 216/2003, che dispone come: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”. Senonché, tale impostazione viene avversata da quanti rinvengono in tale eccessivo allargamento di tutela una sorta di speculare compressione del diritto alla libertà di iniziativa economica e del connesso esercizio legittimo del potere di recesso datoriale. Il terreno di sconto, dunque, viene traslato sull'opzione di bilanciamento necessario tra la tutela del diritto alla salute e al lavoro, come sanciti dal combinato disposto degli articoli 32 e 4 della Costituzione, con il diritto alla libertà di impresa di cui al richiamato art. 41 Cost. Consentire, invero, il legittimo licenziamento del lavoratore nella generalità dei casi di inidoneità sopravvenuta alle mansioni senza prevedere un effettivo obbligo di repêchage datoriale parrebbe soluzione azzardata e estrema. Parimenti, costringere il datore di lavoro a modificare il proprio assetto operativo, pretendendo la dimostrazione di aver adempiuto all'obbligo di “accomodamento” ovvero dar prova che l'inadempimento sia dovuto a causa non imputabile, consentendo al contempo un eccessivo sindacato giudiziale sulle scelte di gestione ed organizzazione imprenditoriale, risulterebbe anch'essa condotta di dubbia legittimità. Ecco che, allora, il possibile punto di bilanciamento tra tali contrapposti interessi lo si potrebbe rinvenire proprio nella concreta articolazione dell'onere probatorio in materia, traendo spunto dalle osservazioni contenute anche nella pronuncia in commento. In caso di licenziamento per inidoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni, invero, così come in tutte le altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'onere della prova della sussistenza delle giustificazioni legittimanti il recesso spetta al datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 l. n. 604/1966. Parte datoriale, dunque, sarà tenuta a dimostrare non solo la sussistenza di una sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ma anche l'impossibilità di ricollocare il dipendente in altre posizioni aziendali, adibendolo a mansioni, anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute ed anche considerando la possibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli. Si tratta di una prova negativa inerente all'impossibilità del repêchage, che potrà essere assolta non già sfruttando la mancata indicazione da parte del lavoratore in merito alla esistenza di possibilità di concreto ricollocamento lavorativo, ma solo mediante la prova, di tipo indiziario o presuntivo, che tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, per un congruo periodo successivo al recesso, non vi sono state nuove assunzioni oppure che vi sono state nuove assunzioni ma per mansioni richiedenti capacità non possedute dal lavoratore licenziato, in uno alla impossibilità effettiva per l'azienda di adottare non eccessivi accomodamenti organizzativi idonei a salvaguardare la posizione lavorativa del prestatore. Solo in caso di positivo assolvimento di tale complessivo onere probatorio potrà essere considerato legittimo il licenziamento del dipendente per il giustificato motivo oggettivo afferente all'inidoneità psico fisica al lavoro; in mancanza, la risoluzione del rapporto lavorativo non potrà che essere ritenuta illegittima, con conseguente accesso al successivo profilo inerente alla valutazione della concreta tipologia di tutela applicabile in tale evenienza. Ebbene, la Suprema Corte, nel delibare la vicenda posta al suo esame, fa espresso richiamo all'applicazione della tutela reintegratoria prevista dalla legge n. 92/2012, sul presupposto della ricorrenza di una ipotesi di difetto di giustificazione del licenziamento comminato per tale ragione. Ed invero, in caso di licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica, ove sia stata accertata la "insussistenza dei fatto" (da intendersi comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore) va applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti dì legittimità del recesso. Ciò in quanto, con la sentenza n. 125/2022, il Giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della l. n. 300/1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della l. n. 92/2012, limitatamente alla parola «manifesta», considerando come tale locuzione presentasse profili di irragionevolezza intrinseca, risultando labile il discrimine tra l'evidenza conclamata del vizio e l'insussistenza pura e semplice del fatto, da cui discendeva l'ancoraggio della scelta tra il rimedio reintegratorio e quello indennitario a punti di riferimento poco chiari e intellegibili. Come è stato sottolineato, invero, la sussistenza di un fatto non è suscettibile di controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma importa l'opzione per una alternativa netta in termine postivi o negativi di effettiva esistenza, che l'accertamento del giudice è chiamato a sciogliere. Ma non è tutto. La Corte ha fornito, al contempo, una chiave di decifrazione ermeneutica oltremodo importante, sancendo come il fatto posto a base del recesso per g.m.o ricomprenda sia le regioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia, “in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore”. Ecco che, dunque, con tale prezioso inciso, si risolve l'interrogativo su ruolo da riconoscere all'obbligo di repêchage, ovvero se considerare anch'esso posto a presidio della prova dell'assenza di pretestuosità del recesso intimato per g.m.o., posto che, a seconda che tale obbligo venga posto all'interno o all'esterno del nucleo essenziale del “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o., si potrà avere un licenziamento sanzionato con la sola tutela indennitaria o uno sanzionato con la reintegrazione. Ebbene, come chiarito inequivocabilmente dalla Corte, il fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. si compone di più elementi oggettivi, vendendo in rilievo, da un lato, la sussistenza effettiva di ragioni tecnico-organizzative, il nesso causale tra le stesse e il recesso di quel dato lavoratore (elemento la cui sussistenza e verificabilità in giudizio consente di escludere la pretestuosità del singolo recesso), nonché, dall'altro, l'impossibilità di utilizzare quel lavoratore aliunde in maniera altrettanto proficua per l'azienda. È così che l'obbligo di repêchage, di creazione giurisprudenziale, assurge ad elemento costitutivo del fatto e viene posto a presidio dell'imprescindibile assenza di pretestuosità del recesso in quanto diretto a dimostrare l'effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale. |