Funzione e ambito applicativo dell’art. 2486, comma 3, c.c.: la lettura della Cassazione
02 Luglio 2024
Massima L'art. 2486 c.c. può essere definito come una norma latamente “processuale”: essa si applica anche ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, perché rivolta a stabilire non un criterio (nuovo) di riparto di oneri probatori, ma semplicemente un criterio valutativo del danno, rispetto a fattispecie integrate dall'accertata responsabilità degli amministratori per atti gestori non conservativi dell'integrità e del valore del capitale sociale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento. Il caso L'illecita prosecuzione dell'attività sociale, nonostante l'avvenuta perdita del capitale aveva fatto “guadagnare” all'amministratore della società Alfa s.r.l. una spiacevole condanna al risarcimento del danno. Il Tribunale di Roma aveva infatti ritenuto l'amministratore responsabile dei danni causati al patrimonio di Alfa s.r.l. Tali pregiudizi, peraltro, erano stati quantificati, tenendo conto (i) della differenza fra il patrimonio netto della società rispettivamente alla data di perdita del capitale sociale e alla data del fallimento e (ii) delle ulteriori voci di danno relative all'incasso di fatture non registrate e a valori di cassa non riscontrati. Adita dall'amministratore insoddisfatto, la Corte d'Appello di Roma aveva considerato corretta l'applicazione del criterio della differenza dei netti patrimoniali ai fini della quantificazione del danno, riformando la decisione impugnata solo nella misura in cui aveva deciso di sommare al differenziale dei patrimoni netti ulteriori voci di danno. A quel punto, all'amministratore non era rimasto che rivolgersi alla Corte di Cassazione, chiedendo la riforma della pronuncia per l'erronea applicazione del novellato art. 2486, comma 3, c.c.: secondo il ricorrente, la norma non sarebbe stata applicabile ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore né in relazione alla scelta del “differenziale dei patrimoni netti” quale criterio presuntivo legale per la quantificazione del danno né in relazione all'inversione dell'onere della prova del danno. La prospettazione del ricorrente, però, come si vedrà, non è stata accolta dalla Corte di Cassazione. Le questioni La Corte di Cassazione si è interrogata sulla portata applicativa dell'art. 2486, comma 3, c.c., fornendo un importante intervento chiarificatore in merito a due aspetti dirimenti: se la norma (i) abbia introdotto una presunzione che determina a favore dell'attore un'inversione dell'onere della prova del danno e (ii) se possa trovare applicazione ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore. Le soluzioni giuridiche Come noto, con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza), il legislatore ha aggiunto all'art. 2486 c.c. un terzo comma, in virtù del quale il danno risarcibile, fatta salva la prova di un diverso ammontare, si presume in alternativa:
La novella, entrata in vigore il 16 marzo 2019, ha, di fatto, recepito i criteri che la giurisprudenza aveva utilizzato per la liquidazione in via equitativa del pregiudizio derivante dall'indebita prosecuzione dell'attività d'impresa in violazione del dovere di gestione conservativa. Del resto, poiché nella fattispecie di cui all'art. 2486 c.c. si rivelava assai difficile quantificare i danni derivanti dalle singole condotte pregiudizievoli realizzate dagli amministratori, a tal fine il diritto vivente aveva ormai da tempo elaborato due criteri presuntivi, pur applicandoli con alcune differenze e correttivi: il criterio della differenza dei netti patrimoniali e il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare. All'indomani della riforma, per quanto più rileva ai fini del presente commento, il dibattito ermeneutico si è soprattutto incentrato attorno a due questioni: (i) se la presunzione introdotta dall'art. 2486, comma 3, c.c. riguardasse anche l'an del danno, incidendo in modo significativo sul riparto degli oneri probatori; (ii) se la disposizione si applicasse ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore. Quanto alla prima questione, è stato osservato che la presunzione di cui all'art. 2486, comma 3, c.c. si estendeva pure all'an del danno, determinando così una relevatio ab onere probandi a beneficio dell'attore: questi avrebbe dovuto soltanto allegare – e avrebbe potuto facilmente provvedervi mediante una consulenza tecnica d'ufficio – l'esistenza di una causa di scioglimento della società e la violazione del dovere di gestione conservativa, senza dover dimostrare il pregiudizio derivante dalle indebite condotte degli amministratori. (Sul punto, fra gli altri: L. Castelli – S. Monti, Il nuovo art. 2486, comma 3, c.c.: background, profili di continuità e di innovazione, impatto processuale, in questo Portale, 14 ottobre 2019; N. Abriani – A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d'impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, 407; S. Monti, Violazione del dovere di gestione conservativa e danno: an, quantum e…quando?, in Società, 2020, 821; G.P. La Sala, Scioglimento di società di capitali e responsabilità degli amministratori dopo il Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza, in Giustizia Civile.com, 20 maggio 2024). Quanto alla seconda questione, determinata dall'assenza di una disciplina transitoria, si sono delineate due posizioni contrapposte. Nello specifico, l'art. 2486, comma 3, c.c.:
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è soffermata su entrambe le menzionate questioni. La Suprema Corte ha in effetti precisato che l'art. 2486, comma 3, c.c. specifica soltanto “la metodica della valutazione giudiziale quanto all'apprezzamento delle conseguenze pregiudizievoli” della gestione societaria contraria al dovere di gestione conservativa: si tratta di una disposizione che è rivolta al giudice e non ha in alcun modo inciso né sulla declinazione degli obblighi comportamentali posti alla base della responsabilità civile né sul contenuto del diritto al risarcimento del danno; pertanto, non determinando alcuna inversione nel riparto degli oneri probatori, deve essere applicata anche ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore. Osservazioni A distanza di circa cinque anni dall'introduzione dell'art. 2486, comma 3, c.c., la Corte di Cassazione ha fornito i tanto attesi chiarimenti sia sulla funzione sia sull'ambito applicativo della norma, optando per una soluzione netta e confermata dopo meno di un mese con l'ordinanza n. 8069 del 25 marzo 2024. In tale rinnovato quadro interpretativo, occorre allora abbandonare l'idea che l'espressione “salva la prova di un diverso ammontare” contenuta all'art. 2486, comma 3, c.c. introduca una presunzione sull'esistenza del danno tale da determinare un'inversione dell'onere probatorio a beneficio dell'attore. Questo passaggio però è tutt'altro che immediato. Invero, proprio continuando a ritenere che i parametri codificati dall'art. 2486, comma 3, c.c. incidano sul riparto dell'onere probatorio, qualche interprete ha già manifestato dissenso rispetto alla conclusione a cui è giunta la giurisprudenza di legittimità per sostenere che l'articolo in questione “non può essere applicato ai giudizi pendenti all'epoca dell'introduzione […], in quanto relativi a fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore” (Così, G.P. La Sala, Scioglimento di società di capitali e responsabilità degli amministratori, cit.). Non si fatica a comprendere l'opinione dissenziente e le ragioni che la sostanziano, rendendosi in ogni caso doverosa una precisazione. L'impossibilità di applicare l'art. 2486, comma 3, c.c. ai giudizi pendenti al momento dell'entrata in vigore non pare possa derivare dalla circostanza che i medesimi abbiano ad oggetto fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore della disposizione; altrimenti, questo approccio “sostanzialista” procrastinerebbe di molto l'applicazione della novella, con buona pace dell'intenzione del legislatore di assicurarne l'effettività immediata e anticipata rispetto alle altre disposizioni del Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza. Altra sembra piuttosto la ragione della descritta impossibilità, ossia l'esigenza di interpretare il principio del tempus regit actum in modo tale da attribuire adeguato rilievo all'affidamento legislativo sotteso all'art. 11 delle Preleggi, “tenendo conto della giusta aspettativa di chi, avendo scelto di promuovere un giudizio in riferimento alle prescrizioni di rito vigenti al tempo in cui ha proposto la domanda, si veda alterare in peius, in base alle nuove regole, la possibilità di essere vincitore; o, per converso, di resistere con successo all'altrui pretesa” (così, Cass. 7 ottobre 2010, n. 20811. In senso conforme, fra le altre, Cass. 15 dicembre 2015, n. 25216). Si tratta comunque di dissertazioni che, dinanzi alla posizione di recente espressa dalla Corte di Cassazione, rischiano di divenire irrilevanti sul piano pratico. Resta inteso che il concretarsi o meno del delineato rischio dipenderà dall'interpretazione che, nei prossimi mesi, verrà avallata dalla giurisprudenza.
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