Demansionamento del lavoratore: se è espressione del mobbing non si applica il Jobs Act
25 Giugno 2024
Il caso Il responsabile della Squadra Investigativa di un Commissariato ligure ricorreva impugnando una serie di provvedimenti amministrativi e lamentando l'esistenza di una dinamica mobbizzante nei suoi confronti, iniziata con il cambio del vertice all'interno dello stesso Commissariato. Con l'insediamento della nuova dirigente, infatti, prendevano avvio una serie di atti e di comportamenti vessatori, che si sostanziavano:
Le questioni Il contesto fattuale portava, a seguito di una lunga querelle giudiziaria, all'accertamento prima del demansionamento e successivamente anche del mobbing ai danni dell'Ispettore, con il correlativo risarcimento del danno non patrimoniale (determinato nella somma di 8.249,00 euro). Ricorrevano in Consiglio di Stato sia il dipendente pubblico sia il Ministero dell'Interno, censurando il primo l'esigua entità del risarcimento e contestando il secondo la sussistenza tanto del mobbing quanto del demansionamento. La pronuncia in esame, nell'accogliere le doglianze dell'Ispettore disponendo la rideterminazione dell'entità del risarcimento dovuto, si rivela di particolare interesse perché fa il punto, in modo organico, sullo stato del diritto vivente in materia di condotte persecutorie e demansionanti, delineandone i contenuti e i reciproci confini. Le soluzioni giuridiche Mobbing e demansionamento La sentenza del Consiglio di Stato si apre con il richiamo alla puntuale definizione invalsa nella law in action dei fenomeni del mobbing e del demansionamento. Con riferimento alla più importante tra le diverse condotte persecutorie (cfr. EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, Milano, 2021), si precisa la natura di “fattispecie quadripartita” (cfr. ex multis, Cass., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass., 11 dicembre 2019, n. 32381; nella giurisprudenza amministrativa, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2016, n. 4509), costituita da:
Per quanto riguarda invece il demansionamento, esso si caratterizza nell'assegnazione al lavoratore di “mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza”. In concreto, il demansionamento si realizza quando il datore di lavoro abusa del proprio ius variandi , superando il limite definito dall'art. 2103 c.c. Limite modificato dopo la riforma attuata con il cosiddetto “Jobs Act” (cfr. art. 3 d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81), che ha ampliato il perimetro della facoltà datoriale di modificare unilateralmente le mansioni dei lavoratori, consentendo l'adibizione a qualsiasi mansione differente da quella di provenienza, con il solo vincolo costituito dal rispetto del formale livello di inquadramento. Si tratta, con ogni evidenza, di una nozione meramente formale che ha il suo baricentro nella sussumibilità delle nuove mansioni nel medesimo livello e categoria contrattuale di quelle originariamente assegnate, senza che possa venire in considerazione alcuna considerazione sul complessivo patrimonio di professionalità eventualmente perso nel cambiamento. In tale contesto, dunque, il demansionamento è ravvisabile quando, a seguito del raffronto con le declaratorie contenute nella contrattazione collettiva applicabile, i nuovi compiti assegnati al lavoratore siano ascrivibili ai livelli di inquadramento inferiori. La previgente nozione “sostanzialista” dell'art. 2103 c.c., al contrario, valorizzava la professionalità concretamente acquisita dal lavoratore nel tempo, imponendo di “ricavare l'equivalenza da una serie di fattori atti ad evidenziare la pesatura in concreto delle nuove mansioni svolte (in termini organizzativi, di relazione con l'interno o l'esterno, di autonomia decisionale, di disponibilità di budget ovvero di mezzi e risorse strumentali, etc.)”. In buona sostanza, mentre la ratio dell'originaria disposizione codicistica era da rinvenirsi “nella necessità di salvaguardare il lavoratore da scelte datoriali che ne comportassero l'impoverimento del patrimonio professionale complessivo, inteso cioè come insieme di attitudini, capacità, competenze ed esperienze, non semplicemente in termini economici”, quella attualmente vigente, al contrario, vuole tutelarne il solo inquadramento formale “in un'ottica di attenzione privilegiata anche alle esigenze organizzative del datore di lavoro”. Mobbing e demansionamento - precisano i giudici di Palazzo Spada - sono quindi fenomeni totalmente autonomi sul piano teorico, il cui discrimine è rappresentato “dalla mancata necessità di dimostrare nel demansionamento l'esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro” (conf. Cons. Stato, sez. III, 12 gennaio 2015, n. 28). Resta fermo il fatto che, in ogni caso, anche il lavoratore demansionato o dequalificato può rivendicare “il risarcimento del danno professionale subito, patrimoniale, biologico o esistenziale, previa dimostrazione della sua sussistenza, che non può evidentemente identificarsi nel dispiacere che accompagna di regola qualunque cambiamento non condiviso, la cui entità, seppure consistente, dipende piuttosto da fattori di natura meramente emotiva ed interiore, correlati alla sensibilità del singolo”. La differenza tra le due categorie, cristallina sul piano teorico, sfuma invece - sino ad evaporare - nella concreta realtà dei fatti; è noto, infatti, come il demansionamento sia una delle condotte “tipiche” delle dinamiche persecutorie (non solo mobbizzanti. Il demansionamento, infatti, rientra nella terza categoria di azioni ostili del Metodo LIPT EGE - cambiamenti delle mansioni lavorative -, cfr. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, Milano, 2019). In questa cornice, il quadro cambia totalmente: ecco il pregevole “salto quantico” della sentenza in commento. Quando infatti il demansionamento “costituisca uno dei modi, se non il modo per eccellenza di manifestazione del mobbing”, allora lo scrutinio giudiziale dovrà essere condotto alla luce della nozione “sostanzialista” previgente alla riforma del 2015. Più precisamente, “la cartina di tornasole della liceità della scelta, cioè, torna ad essere il depauperamento qualitativo della prestazione lavorativa ove essa sia mossa da intento vessatorio, ancorché giustificata e giustificabile sul piano organizzativo e comunque rispettosa formalmente del livello e del ruolo precedentemente rivestiti dal dipendente”. Si tratta di un “salto” razionalmente giustificabile sul piano del diritto, considerato che la condotta demansionante, quando è parte integrante di una dinamica persecutoria (mobbing, straining, work stalking etc.), muta i propri connotati giuridici di atto contrario ai precetti dell'art. 2103 c.c., essendo invece sussumibile nel più ampio paradigma dell'art. 2087 c.c. Osservazioni Le “gradazioni” della dequalificazione La pronuncia è di particolare interesse anche perché individua, in modo lineare, l'esistenza di una serie di “gradazioni” nella dequalificazione (sulle diverse forme di dequalificazione, cfr. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, cit., p. 103-104), ovverosia nell'esercizio dello ius variandi datoriale in violazione dell'art. 2103 c.c. Se, come abbiamo visto, il demansionamento è una forma di dequalificazione che si sostanzia in un peggioramento qualitativo delle mansioni attraverso l'assegnazione al lavoratore di compiti “inferiori” rispetto a quelli propri della qualifica di appartenenza, lo svuotamento totale di contenuto dell'attività lavorativa mediante l'emarginazione e l'isolamento del lavoratore, invece, “costituisce la forma più grave ”. L'inattività lavorativa totale (una delle due forme di svuotamento del contenuto del lavoro, insieme alla “limitazione delle mansioni”. Cfr. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, cit., p. 104 [1]), soprattutto se protratta nel tempo, “finisce per ledere al tempo stesso il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, e l'immagine e la professionalità dello stesso, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche del ruolo”. In questo caso, infatti, è direttamente messa in discussione “la dignità del dipendente che si manifesta nell'estrinsecazione della propria utilità e delle proprie capacità nel contesto lavorativo”. Il richiamo, nemmeno tanto velato, è al principio di dignità (cfr. RODOTA', Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, p. 179 e ss.), architrave dell'ordinamento costituzionale. L'estrema gravità dell'inattività lavorativa totale -come abbiamo appena visto la più grave tra le forme di dequalificazione- non esime comunque il giudice dal valutare e risarcire il decremento alla professionalità che si attua nelle diverse “gradazioni” della dequalificazione -quindi anche nel demansionamento- allorquando vi sia prova di un depauperamento “nell'insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono mediante il concreto svolgimento dell'attività lavorativa” o “ nel bagaglio di esperienze e di specifiche abilità che si conseguono con l'applicazione delle nozioni teoriche e pratiche acquisite”. Mutamento di mansioni, art. 2103 c.c. e art. 2087 c.c.: i “quattro quadranti” del potere datoriale Passando a una visione sistematica, la recente evoluzione del diritto vivente obbliga l'interprete a fare uso di termini nuovi, più idonei a governare la complessità della vita reale. In un panorama in cui emerge come sempre più impellente la necessità di tutelare il lavoro rispetto agli ambienti nocivi e stressogeni (a loro volta espressione di un'organizzazione disfunzionale dei fattori produttivi), il “mutamento di mansioni” consente una visione più ampia dei fenomeni lavorativi, aprendo ad una prospettiva “sistemica”. In questa nuova ottica, la modifica unilaterale delle mansioni da parte del datore di lavoro rivela una possibile pluralità di declinazioni sugli “assi portanti” delineati rispettivamente dall'art. 2103 c.c. e dall'art. 2087 c.c., e in particolare:
Siamo di fronte ai “quattro quadranti” del potere datoriale in materia di mutamento delle mansioni, che evidenziano scenari nuovi e in parte inediti. Pensiamo al quadrante c), ovverosia alla modifica delle mansioni apparentemente lecita perché attuata nei limiti dell'art. 2103 c.c., ma inserita in un contesto non mobbizzante, ma stressogeno perché espressione e attuazione di un ambiente di lavoro nocivo e molesto: pensiamo, in concreto, a un lavoratore che pur nel formale rispetto del principio di “equivalenza”, venga colpevolmente adibito a mansioni incompatibili rispetto al proprio stato di salute perché, ad esempio, esposto a una turnazione di lavoro disagevole. Siamo pienamente nell'ambito di quei “comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692. V. anche ROSIELLO, TAMBASCO, Lo SLC nella giurisprudenza di legittimità: nuovi sviluppi, in ISL, n. 5, 2023, p. 247 e ss.). Volgiamo lo sguardo ora al quadrante d), ovverosia al mutamento di mansioni (eventualmente anche temporaneo) realizzato dal datore di lavoro violando i limiti dell'art. 2103 c.c., ma giustificato dall'esigenza di tutela della salute e della personalità morale del lavoratore o della lavoratrice, tenendo conto del dovere di “affidare i compiti ai lavoratori” in considerazione “delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza” (art. 18, lett. c d.lgs. n. 81/2008). Può essere il caso del lavoratore che, all'esito di una visita periodica di idoneità, non risulti temporaneamente nelle condizioni di svolgere un determinato tipo di compiti e venga pertanto provvisoriamente preposto, dopo un'attenta verifica all'interno dell'organizzazione che abbia rivelato l'assenza di mansioni equivalenti compatibili, allo svolgimento di mansioni immediatamente inferiori. L'utilizzo dei quadranti per determinare le coordinate del potere datoriale di modifica delle mansioni lavorative ha, pertanto, due rilevanti ricadute di ordine pratico:
Siamo di fronte a nuovi orizzonti che, anche attraverso l'utilizzo case by case delle valvole di “apertura” della buona fede e correttezza ex art. 1175 e 1375 c.c., indicano la strada -per ripetere le parole di Adriano Olivetti- verso un luogo di lavoro che sia “uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza” (A. OLIVETTI, Ai lavoratori, Edizioni di Comunità, ed. 2012, p. 31). ---------------------- [1] In particolare, la limitazione di mansioni si configura allorché ad un lavoratore che abbia dieci compiti da svolgere in una giornata gli vengano attribuiti solo i due o tre incarichi meno considerati dai colleghi e meno qualificanti dal punto di vista professionale. Al contrario, ci troviamo di fronte a un caso di inattività lavorativa totale quando a un lavoratore o a una lavoratrice che abbiano dieci compiti per 40 ore settimanali non venga ridotto il numero degli incarichi (come nel caso della limitazione di mansioni) bensì il carico di lavoro, in modo tale che la persona è impegnata per nulla o soltanto per poche ore alla settimana. |