Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: se dovuto alla malattia del lavoratore soggiace sempre alla regola del comporto

09 Luglio 2024

La S.C. conferma il proprio orientamento in tema di licenziamento intimato per il perdurare delle assenze del dipendente a causa di malattia o infortunio. In tale ipotesi, unica norma di riferimento è l'art. 2110, comma 2, c.c.: che attribuisce al datore di lavoro il potere di recesso dal rapporto nel solo caso di superamento del periodo di comporto stabilito dalla contrattazione collettiva. Sono al contrario estranee alla questione considerazioni di natura soggettiva e disciplinare; come anche, sul piano oggettivo, quelle attinenti all'organizzazione aziendale.

Massima

In caso di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), ai fini del licenziamento si applica l'art. 2110, comma 2, c.c., che è norma prevalente, per la sua specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.

Ne consegue, da un lato, che il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza, il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa; dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.

Il caso

Si esamina il caso di un dipendente le cui reiterate assenze dal lavoro a causa di malattia vengono valutate dal datore di lavoro non nell’ambito della fattispecie dell'avvenuto superamento, o meno, del periodo di comporto, bensì quale giustificato motivo di licenziamento per eccessiva morbilità ovverosia scarso rendimento

Un lavoratore dipendente viene licenziato per giustificato motivo oggettivo in ragione delle sue assenze dal lavoro per brevi ma ripetuti periodi di malattia.

In particolare, tali assenze erano state superiori rispetto alla media di quelle del personale dell'azienda appartenente alla stessa categoria e, prevalentemente, adiacenti a periodi di riposo.

Il datore di lavoro, nell'intimare il licenziamento, sostiene che i numerosi giorni di mancata prestazione lavorativa abbiano inciso negativamente sull'organizzazione aziendale e sui livelli di produzione del settore a cui il lavoratore era stato assegnato.

Dopo l’impugnazione del licenziamento, il primo grado di giudizio si chiude, in entrambe le fasi che caratterizzano il c.d. rito Fornero, con la dichiarazione di nullità del recesso, perché intimato prima del superamento del periodo di comporto, e con l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata, secondo il disposto dell’art.18, comma 7. Stat. lav.

La Corte di Appello conferma la sentenza di prime cure.

L'azienda ricorre allora avanti la S. C. per la cassazione di tale pronuncia.

La questione

Il carattere speciale del licenziamento dovuto alle assenze dal lavoro per malattia

Nella pronuncia in esame, la S.C. affronta il tema dell'inquadramento sistematico del recesso deliberato dal datore di lavoro in conseguenza delle assenze lavorative del dipendente determinate da malattia: sia essa unica e continuata, oppure contraddistinta dalla successione di distinti episodi morbosi.

Il fenomeno, si conferma nell'occasione, deve necessariamente essere collocato entro il perimetro dell’istituto noto con l'appellativo di licenziamento per superamento del periodo di comporto e deve pertanto essere ricondotto, in maniera altrettanto inevitabile ed esclusiva, alla regola posta in materia dall'art. 2110, comma 2, c.c.

La disposizione, ricordiamo, conferisce all'imprenditore il diritto di recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato quando la malattia dei lavoratore si sia protratta oltre il periodo stabilito dalla legge, dal contratto collettivo o dagli usi.

Tale previsione, secondo un consolidato principio giurisprudenziale (cfr. Cass. n. 1861/2010; conf., ex pluribus, Cass. n.1404/2012; Cass. n.19676/2005), per il suo carattere di specialità prevale sulla generale disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro (legge n. 604 del 1966) nonché sulla disciplina in materia di impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1256 e 1464 cod. civ.) e persegue la ratio di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere la produttività dell'azienda) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione).

La norma non è ritenuta in contrasto con l’art. 38 Cost., poiché quest’ultimo impone solo che al lavoratore sia garantito un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione (Cass. 27 giugno 1996, n. 5927).

Il combinato disposto dell'art. 2110, secondo comma, cod. civ. e delle previsioni del CCNL (nei singoli settori merceologici) conforma, dunque, il potere di recesso del datore di lavoro; e, dal punto di vista sistematico, connota il licenziamento per superamento del comporto come fattispecie autonoma di recesso.

Una fattispecie nella quale, essendo il limite di tollerabilità dell'assenza predeterminato per legge, il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso.

Con riferimento all'onere di motivazione, in applicazione dell’art. 2 legge n.604/1966, si ritiene che, pur escludendosi la necessità di specificare i singoli giorni di assenza, nel provvedimento espulsivo vada indicato il numero complessivo di assenze per malattia verificatesi in un dato periodo, in modo da consentire al lavoratore un’adeguata difesa (Cass. 6/3/2023, n. 6336; Cass. 23.8.2018, n. 21042).

Si è ad ogni modo reputato che, nel caso che il comporto contrattuale venga superato a seguito di plurime e frammentate assenze, valutate per sommatoria, l’indicazione specifica delle medesime è tuttavia necessaria, vista la maggiore difficoltà nel relativo calcolo per il lavoratore (Cass. 27 febbraio 2019, n. 5752).

Il datore di lavoro è legittimato a recedere dal rapporto soltanto quando il comporto sia stato superato, costituendo l’evento medesimo requisito di validità e non di mera efficacia del licenziamento, il quale opera ex nunc dal momento dell'atto negoziale (Cass. 30/8/1991, n. 9243; Cass. n.12031/1999).

Sicché, accertata l’invalidità di un primo licenziamento per superamento del periodo di comporto, è legittimo un secondo licenziamento intimato a tale titolo, laddove si fondi su una situazione diversa e nuova rispetto alla precedente, ovvero sulla comunicazione di un ulteriore periodo di malattia del lavoratore che abbia determinato il definitivo superamento del periodo di comporto (Cass. 18 novembre 2014, n. 24525).

Qualora la malattia derivi da condizioni morbigene presenti nell’ambiente di lavoro, delle quali il datore di lavoro deve ritenersi responsabile ex art. 2087 c.c., le relative assenze vanno escluse dal computo del comporto (Cass. 19 ottobre 2018, n. 26498).

Non avendo la figura di recesso in questione connotati disciplinari, resta escluso l’obbligo di rispettare la procedura di contestazione di cui all’art. 7 Stat. lav. (Cass. 10 gennaio 2008, n. 278).

Così come, in via generale,  non è previsto l'onere per il datore di lavoro di avvertire preventivamente il lavoratore dell’imminente scadenza del periodo di comporto, al fine di permettergli di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa, se e come previsto dal contratto collettivo (cfr. Cass. n. 14891/2006; Cass. n. 12563/2014; Cass, n. 3645/2016; Cass. n. 2076/2018).

Eccezion fatta, per il caso in cui tale onere sia previsto dal CCNL applicato in azienda: attraverso  l'imposizione dell’obbligo per il datore di lavoro di preavvertire il lavoratore che il periodo di assenza (per malattia o infortunio) si sta approssimando all'arco temporale massimo previsto dalle parti sociali per la conservazione del rapporto di lavoro (Cass. 15 maggio 2024, n.1349).

Sul versante sanzionatorio, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere nullo il licenziamento intimato in violazione delle norma, ritenuta imperativa, di cui al citato art. 2110, comma 2, c.c., da leggersi in combinato disposto con le condizioni previste dal contratto collettivo a garanzia dei diritti del lavoratore (Cass. SS.UU. 22.5.2018, n. 12568; difforme Cass. 04/07/2001, n.9037, la quale in applicazione del principio della conservazione degli atti giuridici (art. 1367 c.c.) ha dichiarato la temporanea inefficacia del recesso stesso fino alla scadenza della situazione ostativa).

Per conseguenza, si considera sempre applicabile la tutela restitutoria, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (Cass. SS.UU. 16 settembre 2022 n. 27334).

Sul punto va peraltro precisato che, per effetto della novella della legge Fornero, l’art.18, commi 7 e 4, della legge n. 300/1970 garantisce al lavoratore licenziato in violazione dell'art. 2110 cod. civ. (come integrato dalle previsioni dei contratti collettivi) la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre ad un risarcimento del danno contenuto nella misura massima di dodici mensilità (c.d. tutela reintegratoria attenuata).

Al contrario, le nuove regole del Jobs Act (d.lgs.. n. 23/2015) non fanno menzione espressa della fattispecie, con conseguente incertezza interpretativa sulle possibili soluzioni.

Nella giurisprudenza di merito (ad es., App. Torino, 5 agosto 2022, n.315), si è comunque ricondotto il vizio in questione agli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, ritenendosi pertanto applicabile la tutela reintegratoria (piena) di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015.

Le relative critiche a tale soluzione, basate sulla constatazione che l’art. 2110, comma 2, c.c. non sancisce in modo espresso la nullità del licenziamento intimato durante la malattia, possono dirsi sono ormai superate dal recente pronunciamento in punto della Corte Costituzionale, con la sentenza 23 gennaio - 22 febbraio 2024 n. 22.

Quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato articolo 2, primo comma, limitatamente alla parola “espressamente”.

Pertanto,  nel caso di illegittimo licenziamento di lavoratori con contratto a tutele crescenti (vale a dire, a partire dal 7 marzo 2015) gli stessi vengono a godere di una tutela più favorevole di quella dei “vecchi” assunti, a cui come detto spetta invece la reintegrazione depotenziata di cui all’art. 18, comma 4, Stat. lav.

Trattasi dell’ennesima disparità presente nell’affastellata normativa sui licenziamenti che, una volta di più, dimostra la necessità di un suo complessivo ripensamento da parte del legislatore.

Infine, va segnalato che, soprattutto sotto l’impulso della produzione normativa UE, come applicata dalla CGUE, la recente giurisprudenza di Cassazione ha in parte ridisegnato i tratti dell’istituto del comporto nella prospettiva di una maggiore tutela del lavoratore disabile.

Sull’interessante tema, che però solo in parte pertiene alla questione ora trattata, ci limitiamo a richiamare, in successione cronologica, le ultime più significative pronunce della S.C.: Cass. 31 marzo 2023, n. 9095;. Cass. 21 dicembre 2023, n. 35747; Cass. 18 aprile 2024, n. 10568; Cass. 2 maggio 2024, n. 11731; Cass. n. 22 maggio 2024, n. 14316; Cass. 23 maggio 2024, n. 14402.

Le soluzioni giuridiche

L'assenza per malattia o infortunio non può essere valutata come scarso rendimento del lavoratore: né oggettivamente né soggettivamente

Come detto, l'ordinanza della Corte di Cassazione 19 aprile 2024, n. 10640 individua e valuta, ai fini della legittimità del licenziamento, la fattispecie delle ripetute assenze del lavoratore causate da malattia o infortunio.

La questione viene nell’occasione esaminata attraverso il confronto con il principio, dottrinale ma non solo, secondo il quale un fatto imputabile al comportamento del lavoratore nell’attuazione del rapporto contrattuale, segnatamente un difetto di intensità della prestazione individuabile come “scarso rendimento”, sarebbe suscettibile di essere qualificato non solo come notevole inadempimento ma anche come giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Nella specie, la censura mossa dal ricorrente datore di lavoro riguardava infatti l’avere il giudice di merito sussunto la fattispecie oggetto di causa nella previsione dell’art. 2110 c.c. anziché in quella del licenziamento per g.m.o., sotto la specifica ipotesi dell’eccessiva morbilità.

La S.C., pur non negando l’eventualità di casi di scarso rendimento riferibili alle ragioni organizzative dell'impresa (c.d. scarso rendimento oggettivo), rigetta però l’impostazione di fondo della parte ricorrente.

Gli ermellini, invero, sottolineano ancora una volta che allorquando il recesso del datore di lavoro è collegato ad assenze determinate da malattia del lavoratore, lo stesso è sempre e soltanto soggetto alle regole dettate dall'art. 2110 c.c.

Queste ultime, si ribadisce, prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.

Ne consegue, da un lato, che il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza, il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa; dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.

Il Collegio richiama in proposito il consolidato proprio orientamento; cfr, tra le tante, Cass. n. 1861/2010; Cass. n. 1404/2013; Cass. n. 24525/2014; Cass. n. 31763/2018; Cass. n. 27334/2022.

Particolare significato assume la continuità con la pronuncia a SS. UU. n. 12568/2018, nella quale si è utilmente chiarito che il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva di per sé non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate); e che, per dare luogo a licenziamento non si richiede un'accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l'assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell'impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.

Ciò a rimarcare, secondo la Corte, che nell'art. 2110, comma 2, cod. civ. si rinviene un'astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre d'un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale.

In conclusione, il giudice di legittimità ritiene di confermare integralmente l’impugnata sentenza di merito che, alla luce dei ricordati accertamenti di fatto, aveva escluso che il lavoratore fosse rimasto assente dal servizio per un numero di giorni superiore a quello previsto dal contratto collettivo per la conservazione del posto di lavoro.

Osservazioni

Il potere organizzativo del datore di lavoro non può mai, veramente, valicare la barriera del comporto?

L’indirizzo della S.C. sull’argomento è ormai consolidato e costante. Sintetizzabile nel seguente precetto: per le assenze dal lavoro causate da malattia, non vi è spazio per l’applicazione di norme sul licenziamento diverse da quelle attinenti al superamento del periodo di comporto.

Cionondimeno, nel caso giurisprudenziale appena esaminato, il datore di lavoro ha ritenuto che il protrarsi continuato ed intermittente delle assenze per malattia di un proprio dipendente valesse ad integrare la distinta ipotesi dello scarso rendimento, ragione fondante il licenziamento per g.m.o.

Il ragionamento fa leva sulla circostanza che, oggettivamente, e cioè al di fuori della sfera volitiva del lavoratore e della violazione da parte di questi di obblighi contrattuali,  la prestazione lavorativa risultava nella specie inadeguata dal punto di vista produttivo nonché pregiudizievole per l’organizzazione aziendale.

La tesi della legittimità del recesso datoriale nel caso in cui le ripetute assenze dal lavoro per malattia, pur se in numero inferiore al comporto contrattuale,  possono produrre grave pregiudizio all’impresa nel suo assetto organizzativo e/o tecnico-produttivo e, in ultima analisi, l’impossibilità di utilizzare la prestazione del dipendente non è affatto peregrina.

La stessa trova conferma, oltre che in parte della dottrina, in uno specifico precedente giurisprudenziale, espresso anch’esso a livello di legittimità.

Con la sentenza 4 settembre 2014, n. 18678, la S.C. ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento ritendo nell’occasione provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dallo stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, l'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione relativi al dipendente e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento.

In particolare, in quel caso il licenziamento era stato intimato per asserito motivo “soggettivo” (poi, però, qualificato dal giudice di merito come “oggettivo”), sul presupposto che le reiterate assenze effettuate dal lavoratore, comunicate all'ultimo momento ed "agganciate" ai giorni di riposo, determinavano una prestazione lavorativa ritenuta non proficuamente utilizzabile dal datore, incidendo negativamente ed misura pesante sulla produzione aziendale.

La pronuncia, tuttavia, non ha avuto seguito nella successiva giurisprudenza del Supremo Collegio (vd., tra le altre, Cass. n. 17436/2015; n. 31763/2018).

Con tratti parzialmente differenti, ed esito peraltro opposto, sulla questione si è pronunciato il Tribunale di Roma il quale, con riferimento ad un licenziamento intimato per motivo oggettivo in relazione ad assenze “a macchia di leopardo”, sempre in virtù dei propri poteri di qualificazione ha ex officio reputato lo stesso come licenziamento disciplinare per scarso rendimento, dichiarandolo illegittimo per difetto di prova sulla effettiva violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente (Trib. Roma, sez lav., 24 dicembre 2015,  in IUS Lavoro , 26 febbraio 2016).  

Il tema di fondo, come evidenziato in dottrina (Ichino) e nella stessa giurisprudenza (cfr. Cass. n. 3250/2003), rimane quello della natura “anfibia” della fattispecie dello scarso rendimento, che si presta a fondare tanto un giustificato motivo soggettivo quanto un giustificato motivo oggettivo di recesso.

Nel primo caso, lo scarso rendimento, ontologicamente connotato da colpa, attribuisce al provvedimento espulsivo natura di licenziamento disciplinare per “assenteismo”, con conseguente onere probatorio a carico del datore di lavoro sulla gravità dell’inadempimento del dipendente rispetto agli obblighi contrattuali.

Senonché, se riferita al campo delle assenze dal lavoro per malattia, l’ipotesi interpretativa non regge alla considerazione che, come espressamente ricordato dalla S.C., il mero protrarsi delle stesse, di per sé, non costituisce inadempimento del lavoratore, trattandosi di eventi pienamente giustificati e, del resto, giustificabili soltanto in sede medica.  

Nella seconda prospettiva, quella di carattere oggettivo, la malattia del lavoratore non viene in rilievo in quanto tale ma come fonte, sebbene incolpevole, di scompensi nell’organizzazione e nel funzionamento dell’azienda. Pertanto, come ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, ai sensi dell’art. 3 legge n. 604/1966.

Anche in tale ipotesi, comunque, a confutazione della sostenibilità concettuale dell’assunto pare stagliarsi la surriferita diversa opinione dominante della giurisprudenza la quale, nel sottolineare la specialità della disposizione rispetto alla disciplina limitativa dei licenziamenti, suole rimarcare che l’art. 2110, comma 2, c.c. enuncia un’astratta ed insuperabile predeterminazione legislativo-contrattuale del punto di equilibrio tra l’interesse del lavoratore e quello del datore di lavoro.

Del resto, facciamo in ultimo notare, pure inquadrando la fattispecie nella figura del licenziamento per g.m.o. parimenti emerge la notevole difficoltà probatoria per il datore di lavoro: dovendo questi in giudizio compiutamente dimostrare che le anomale modalità di astensione dal lavoro per malattia attuate dal dipendente - quand’anche suggestivamente definibili “a macchia di leopardo”, e di fatto frammentarie, immediatamente precedenti o successive a giorni di festa o riposo nonché comunicate con minimo preavviso – hanno effettivamente provocato l’inutilizzabilità a fini produttivi della prestazione lavorativa.

Ad esempio,  a causa dei problemi legati alla sostituzione dell’interessato sul posto di lavoro in un tempo particolarmente ristretto oppure, ove possibile, alla riorganizzazione secondo un diverso modello o piano operativo del servizio alla cui realizzazione l’opera del lavoratore medesimo avrebbe dovuto contribuire.

Guida all'approfondimento

L. Di Paola (a cura di), Il licenziamento, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2024.

F. Baraschi-M. Proietti, Il licenziamento per scarso rendimento, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2018.

P. Ichino, Il contratto di lavoro, Milano, Giuffrè, 2003.

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