La nuova disciplina dell’autotutela tributaria

Francesco Pistolesi
02 Luglio 2024

Il presente contributo esamina la nuova disciplina dell'autotutela tributaria alla luce della riforma della l. n. 212/2000 operata dal d.lgs. n. 219/2023, volgendo il focus sul nuovo istituto dell'autotutela obbligatoria.

L'assetto antecedente alla recente riforma

Prima di affrontare la riforma della disciplina dell'autotutela tributaria introdotta con il d.lgs. n. 219/2023, conviene ricordare come la giurisprudenza abbia ricostruito questo istituto alla luce del quadro normativo antecedente.

Secondo la Corte di cassazione, una volta ammesso il ricorso contro l'atto di diniego dell'autotutela – grazie all'interpretazione estensiva del­l'art. 19 del d.lgs. n. 546/1992 – poiché idoneo a incidere sul rapporto tributario, «la valutazione circa la sussistenza del presupposto dell'eser­cizio dell'autotutela dipende dal contemperamento tra l'esigenza di tutelare l'interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l'interesse, altrettanto pubblicistico, alla stabilità dei rapporti giuridici e pertanto all'incontestabilità degli atti impositivi quando essi siano divenuti definitivi» (in questi termini, v. Cass., sez. V, 26 settembre 2019, n. 24032) .

Perciò, in materia tributaria, l'autotutela veniva apprezzata quale un potere fondato su valutazioni ampiamente discrezionali. Conseguentemente, essa non poteva rappresentare uno strumento di tutela dei diritti individuali dei contribuenti, tant'è che  il sindacato sul diniego all'esercizio dell'autotutela poteva riguardare solo eventuali profili di illegittimità del rifiuto in relazione a ragioni di interesse generale, originarie o sopravvenute, alla rimozione del provvedimento definitivo, che giustificassero l'esercizio di tale potere.

Tuttavia, la Corte di cassazione non esplicitava quali fossero dette ragio­ni di interesse generale, sì che – in concreto – risultava arduo ravvisare un effettivo spazio di tutela giurisdizionale per il privato.

Quel che è certo, sempre stando alla giurisprudenza, è che tale interesse generale non poteva consistere nel mero ripristino della legalità violata dall'atto impositivo, sia con riguardo al rispetto della corretta imposizione che delle norme procedimentali regolanti l'operato dell'ente impositore (v. Cass., sez. V, 26 gennaio 2018, n. 1965; solo di recente si registra uno spunto nel considerare come d'interesse generale l'impedimento di una doppia imposizione: v. Cass., sez. V, 3 gennaio 2024, n. 161).

Impostazione, questa, del tutto discutibile, soprattutto per quanto attiene alla salvaguardia della giusta imposizione e, quindi, del principio costituzionale di capacità contributiva.

Difatti, se si rammenta che ogni ente impositore ha il compito istituzionale di assicurare la corretta imposizione, come può negarsene la natura di interesse generale?

Ad ogni modo, nel tentativo di individuare un interesse generale, distinto rispetto al ripristino della disattesa legalità, si sarebbe potuta avanzare l'ipotesi dell'annullamento, in via definitiva, da parte del Giudice amministrativo di un provvedimento costituente il presupposto dell'atto impositivo in ordine al quale veniva invocata l'autotutela. Oppure, un'altra ipotesi avrebbe potuto essere rappresentata dal giudicato penale che avesse accertato il mancato compimento dell'illecito avente rilevanza tributaria. Fattispecie, quella appena enunciata, adesso disciplinata dal nuovo art. 21-bis del d.lgs. n. 74/2000, secondo cui la sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso, pronunciata a seguito di dibattimento e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel giudizio tributario, ha in quest'ultimo efficacia di giudicato quanto ai fatti medesimi.

Sull'argomento, poi, era intervenuta anche la Corte costituzionale, con la nota sentenza 13 luglio 2017, n. 181, evidenziando anzitutto come l'autotutela tributaria si esercitasse in base a «valutazioni largamente discrezionali» e non fosse uno «strumento di protezione del contribuente».

Perciò, sebbene il privato potesse stimolarla, l'autotutela non si trasfor­mava in un procedimento destinato a concludersi con un atto espresso.

Cosicché, il silenzio sull'istanza del contribuente non avrebbe integrato un inadempimento o un diniego che consentisse di invocare la tutela giurisdizionale.

Altrimenti, sempre secondo la Consulta, si sarebbe indebitamente offerta una generalizzata «seconda possibilità» di tutela a chi avesse fatto inutilmente decorrere il termine per impugnare l'atto impositivo.

Ebbene, se è corretto escludere il fine «giustiziale» dell'autotutela e se è parimenti condivisibile che essa – dinanzi all'atto definitivo – rappresenti il frutto della valutazione discrezionale insita nella comparazione fra l'interesse alla rimozione del provvedimento illegittimo (soddisfacendo così i principi di legalità e capacità contributiva) e quello alla stabilità dei rapporti giuridici ovvero – in caso di giudizio pendente o suscettibile di essere avviato – fra l'interesse alla rimozione dell'atto, da un lato, e quelli all'economia processuale e al sottrarsi alla condanna alle spese processuali, dall'altro lato, non convince invece che l'ente impositore possa disinteressarsi della domanda del privato.

Per un verso, detto ente annovera fra i propri compiti istituzionali anzitutto quello di favorire e assicurare la corretta attuazione dei rapporti tributari, cui consegue quello di verificare gli adempimenti dei contribuenti. E i poteri ad esso attribuiti sono strumentali all'attuazione di tali funzioni. Sicché il relativo esercizio deve avvenire in termini trasparenti e rispettosi delle finalità che ogni pubblica amministrazione è chiamata realizzare. Di modo che la mancata risposta all'istanza di autotutela non appare affatto coerente rispetto alla condotta che ogni ente impositore dovrebbe assumere.

Per l'altro verso, l'art. 2 comma 1, l. n. 241/1990 – senz'altro operante in ambito tributario, ancorché la recente riforma della l. n. 212/2000 abbia espunto i richiami alla legge generale sul procedimento amministrativo – assegna rilievo a ogni «domanda» del privato seppur inammissibile, palesando così la «doverosità» del contegno dell'amministrazione che la riceva. Né, d'altronde, la «doverosità» della risposta incrina la discrezionalità della valutazione sull'esistenza o meno delle condizioni per disporre l'invocata autotutela. Dover rispondere alla sollecitazione ricevuta dal privato, com'è evidente, non significa certo dover esercitare il potere di autotutela.

Allora, è inevitabile dissentire dalla soluzione offerta dalla Corte costituzionale. Se l'ente impositore non può trincerarsi dietro il silenzio, all'istan­te andava concesso di dolersi della mancata risposta dinanzi al Giudice tributario.

La riforma: profili sostanziali e processuali

La disciplina dell'autotutela è una delle più significative novità della riforma della l. n. 212/2000 operata dal d.lgs. n. 219/2023.

In prima battuta, appare pienamente condivisibile la scelta di collocare detta disciplina nello Statuto dei diritti del contribuente, posto che l'autotutela rappresenta uno dei profili più delicati e qualificanti dei rapporti fra il privato e l'ente impositore. Detto altrimenti, lo Statuto rappresenta la corretta e natura collocazione di un istituto – qual è l'autotutela – che rileva significativamente nella configurazione delle relazioni fra il debitore e il creditore del tributo, anche al cospetto del principio di collaborazione e buona fede che le deve caratterizzare in forza dell'art. 10 comma 1.

Poi, la grande innovazione è rappresentata dal debutto dell'autotutela obbligatoria, che si affianca a quella facoltativa, sempre esistita.

Il legislatore, cogliendo uno spunto contenuto nella ricordata sentenza 13 luglio 2017, n. 181 della Corte costituzionale, impone all'ente impositore di annullare gli atti impositivi ove ricorrano i tassativi casi di «manifesta illegittimità dell'atto o dell'imposizione» indicati dall'art. 10-quater.

Come osservato dalla Corte costituzionale con tale sentenza, nulla osta all'autotutela obbligatoria in materia tributaria. E ne è chiara la ragione: il rispetto dei principi costituzionali di legalità e di capacità contributiva giustifica l'annullamento d'ufficio ancorché ciò possa talora compromettere la stabilità dei rapporti giuridici, come accade quando gli atti impositivi siano divenuti definitivi.

In sostanza, di fronte ai casi di «manifesta illegittimità dell'atto o dell'imposizione» individuati dall'art. 10-quater (consistenti nell'errore di persona; nell'errore di calcolo; nell'errore sull'individuazione del tributo; nell'errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall'amministrazione finanziaria; nell'errore sul presupposto d'imposta; nella mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti; nella mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini ove previsti a pena di decadenza), è ragionevole che l'insindacabilità del provvedimento divenuto inoppugnabile non possa essere invocata dall'ente impositore per sottrarsi dal – doveroso, d'ora in avanti – ripristino della legalità violata.

Rispetto alla bozza iniziale dell'art. 10-quater, approvata dal Governo e trasmessa al Parlamento, sono state meritoriamente ampliate le fattispecie di autotutela obbligatoria. Con la previsione dell'errore sul presupposto d'imposta, dell'omessa considerazione dei pagamenti eseguiti e della mancanza di documentazione successivamente sanata, purché non oltre i termini decadenziali, aumentano considerevolmente le occasioni nelle quali l'ente impositore dovrà ricorrere all'autotutela.

Èragionevole pure che venga meno l'obbligatorietà dell'annullamento decorso un anno (anziché tre mesi, come originariamente previsto nella menzionata bozza) dalla definitività degli atti viziati.

Si tratta di un equilibrato assetto fra i valori di legalità e capacità contributiva, da un canto, e di certezza dei rapporti definiti, dall'altro.

Peraltro, se il contribuente entro un anno dalla definitività dell'atto presenta l'istanza di autotutela e l'ente impositore la rigetta o tace, resta inalterata l'obbligatorietà dell'annullamento e il privato può pretenderne il rispetto in sede giurisdizionale.

Parimenti ineccepibile è che l'autotutela – tanto obbligatoria quanto facoltativa (sebbene l'art. 10-quinquies taccia in proposito) – sia inibita dal giudicato favorevole all'ente impositore, poiché è corretto che prevalga – con efficacia preclusiva – il definitivo approdo della funzione giurisdizionale, rappresentato appunto dalla sentenza non più soggetta ai mezzi di impugnazione ordinari, rispetto al contrastante esercizio di una funzione amministrativa.

V'è da chiedersi, piuttosto, se ogni giudicato (anche su un profilo diverso da quello invocato a supporto dell'esercizio dell'autotutela) precluda il ritiro dell'atto illegittimo.

A mio avviso, è preclusivo solo il giudicato sul medesimo profilo oggetto di autotutela.

In tal senso depone, oltre che la logica, l'art. 2 comma 2, del d.m. n. 37/1997, ancorché adesso abrogato, secondo cui «Non si procede all'annullamento d'ufficio, o alla rinuncia all'imposizione in caso di autoaccertamento, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all'Amministrazione finanziaria».

Se l'ente impositore non ricorre all'autotutela obbligatoria e il contribuente lo invita a farlo entro un anno dalla definitività dell'atto, il diniego espresso o tacito – grazie alla coeva riforma del giudizio tributario [v. le nuove lett. g-bis) e g-ter) dell'art. 19 comma 1, del d.lgs. n. 546/1992] – è impugnabile e il giudice potrà ravvisare la sussistenza del dovere di procedere all'annullamento e disporre in tal senso. Ossia il giudice potrà sancire l'annullamento dell'atto impositivo. Sarebbe inutilmente complesso prevedere che il Giudice rimetta all'ente impositore siffatto annullamento, immaginando di dover poi ricorrere al giudizio di ottemperanza in caso di inadempimento da parte di detto ente.

In sintesi, a fronte dell'autotutela obbligatoria esiste il diritto del privato di pretenderne l'esercizio.

Seguendo quest'ordine di idee, è inevitabile riconoscere che il contribuente, laddove impugni l'atto impositivo senza dedurre un motivo di «manifesta illegittimità», potrà in seguito promuovere un'istanza di autotutela obbligatoria per farlo valere – oltretutto, senza soggiacere al limite temporale di un anno, stante la mancata definitività del provvedimento – e potrà successivamente ricorrere contro il diniego espresso o tacito.

Di fatto, così viene meno la regola generale, ritraibile dal complesso delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 546/1992, del divieto di integrare i motivi di ricorso al di fuori del caso, del tutto eccezionale, del deposito di documenti non conosciuti e non conoscibili usando l'ordinaria diligenza, contemplato dall'art. 24 del medesimo d.lgs. n. 546/1992.

Poi, l'art. 10-quinquies regola l'autotutela facoltativa.

Essa interessa ogni ipotesi di illegittimità o infondatezza dell'atto o dell'imposizione, ivi compresi i casi in cui l'autotutela obbligatoria non sia esercitabile stante il decorso di un anno dalla definitività dell'atto viziato.

Siamo in presenza, quindi, della norma «di chiusura», come si suol dire, dell'odierno regime dell'autotutela tributaria poiché tutte le fattispecie di autotutela obbligatoria, una volta trascorso il ricordato lasso temporale, si prestano ad essere ricondotte fra quelle di autotutela facoltativa.

Ѐ significativo come l'istanza di autotutela facoltativa non incontri l'evidenziato limite temporale di quella obbligatoria. Trattasi di una scelta condivisibile: finché il contribuente ha un concreto interesse a conseguire il provvedimento di autotutela (poiché ne conseguirebbe un rimborso o si sottrarrebbe all'azione esecutiva dell'ente impositore o dell'agente della riscossione) gli viene riconosciuta la facoltà di rivolgersi all'ente creditore del tributo affinché quest'ultimo operi la valutazione discrezionale fra il ripristino della legalità violata e la stabilità dei rapporti tributari, sottesa alla fattispecie regolata dall'art. 10-quinquies allorché l'atto impositivo sia divenuto irretrattabile, ovvero fra l'interesse alla rimozione dell'atto e quello di evitare il processo e la condanna alle spese, nel caso in cui tale atto non si sia ancora cristallizzato.

Come detto, il rifiuto espresso o tacito dell'autotutela obbligatoria è impugnabile.

In particolare, secondo il nuovo comma 2 dell'art. 21 del d.lgs. n. 546/1992, il silenzio è impugnabile dopo che siano decorsi novanta giorni dalla proposizione dell'istanza di autotutela e l'ente impositore non si sia pronunciato. E il ricorso potrà proporsi finché sia concretamente apprezzabile l'interesse del privato a conseguire l'annullamento invocato, ossia finché potrà conseguire il rimborso di quanto versato in eccesso o finché sarà esposto all'esecuzione della pretesa ritenuta illegittima o infondata.

Diversamente, solo il rifiuto espresso dell'autotutela facoltativa è opponibile. Scelta, con ogni probabilità, ispirata dall'analoga soluzione espressa dalla Corte costituzionale con la rammentata sentenza 13 luglio 2017, n. 181, ma non condivisibile.

Secondo quanto anticipato, vero è che l'autotutela non ha un fine «giustiziale» e che, se facoltativa, rappresenta il frutto della valutazione discrezionale fra i valori e gli interessi sopra descritti, ma non convince che l'ente impositore possa disinteressarsi dell'istanza del contribuente. Tale ente – per le ragioni in precedenza enunciate – ha comunque l'obbligo di esaminarla e di darne riscontro all'istante.

Viene allora da pensare che, in caso di rifiuto tacito di autotutela facoltativa, il Giudice potrebbe ritenere esperibile l'azione giurisdizionale, dando così una lettura rispettosa del diritto di difesa costituzionalmente garantito e dell'art. 97 Cost. all'art. 19 comma 1, lett. g-ter), del d.lgs. n. 546/1992. Costui, però, potrebbe solo imporre all'ente impositore di pronunciarsi, senza esprimersi sulla valutazione discrezionale che solo a esso compete.

Oltretutto, la mancata previsione dell'impugnabilità del diniego tacito indurrà, di frequente e con somma probabilità, i contribuenti a qualificare, ancorché indebitamente, come fattispecie di autotutela obbligatoria quella in concreto invocata. E spetterà al Giudice discernere – forse, non sempre in termini agevoli – le ipotesi di autotutela obbligatoria da quelle di autotutela facoltativa.

Ove invece si impugni il rifiuto espresso facente leva sulla sola definitività dell'atto viziato, si potrà censurare, criticandone la motivazione, il cattivo esercizio dell'apprezzamento discrezionale svolto dall'ente impositore. E il Giudice potrà solo imporre a quest'ultimo di spiegare perché la stabilità prevalga sulla corretta esazione del tributo.

Se, infine, il diniego dovesse affrontare il merito del rapporto ancora pendente o sotteso all'atto definitivo, si assisterebbe a un rinnovato esercizio della funzione di controllo degli adempimenti fiscali. Circostanza, questa, che induce a ritenere che al giudice sia permesso di statuire in proposito.

Conclusioni

Nel complesso, la riforma dell’autotutela tributaria merita una valutazione positiva.

Il legislatore, grazie anche allo spunto offertogli dalla Corte costituzionale con la sentenza 13 luglio 2017, n. 181, ha introdotto un istituto – l’autotutela obbligatoria – innovativo e correttamente espressivo della «specialità», per così dire, dell’autotutela tributaria rispetto all’omonimo istituto del diritto amministrativo.

A fronte di un’attività amministrativa vincolata e avente come esclusivo fine l’attuazione della giusta imposizione – qual è quella in materia tributaria –, si comprende e si apprezza la decisione di rendere, quanto meno in determinati «casi eclatanti», obbligatorio l’esercizio dell’autotutela.

Ciò consente di valorizzare la peculiarità dell’autotutela in ambito tributario ove il ripristino della legalità violata – nelle fattispecie enucleate dall’art. 10-quater – si traduce nell’assicurare il rispetto del principio costituzionale di capacità contributiva a discapito di ogni altro concorrente interesse e, in specie, di quello alla stabilità dei rapporti giuridici.

Insomma, il legislatore ha preso atto che la corretta attuazione delle obbligazioni tributarie impone che l’autotutela si atteggi autonomamente nella nostra materia.

Trattasi di una scelta, inoltre, che muta significativamente l’assetto dei rapporti fra contribuenti ed enti impositori, assegnando ai primi un diritto che finora la giurisprudenza non aveva loro riconosciuto e stimolando opportunamente i secondi ad attenersi sempre ai principi di legalità e capacità contributiva.

Sarà poi interessante verificare la prassi operativa degli enti impositori, da un lato, e l’indirizzo della giurisprudenza, dall’altro.

In specie, v’è da auspicare che gli enti suddetti rispondano sempre alle istanze di autotutela facoltativa, consentendo così ai privati di poter far valere il loro diritto di tutela giurisdizionale.

Peraltro, come detto, non è azzardato immaginare che, in caso di mancato riscontro a tali istanze, la giurisprudenza possa offrire una lettura costituzionalmente orientata – avendo riguardo ai principi del diritto di difesa e del buon andamento della pubblica amministrazione – dell’art. 19 comma 1, lett. g-ter), del d.lgs. n. 546/1992, consentendo l’azione giurisdizionale pur in presenza del silenzio degli enti interpellati.

Non solo, v’è da domandarsi se, a seguito della riforma, la giurisprudenza, in caso di autotutela facoltativa, manterrà l’odierno indirizzo interpretativo o invece perverrà a una diversa – e maggiormente condivisibile – declinazione della nozione di interesse generale, in precedenza esaminata.

In altre parole, l’introduzione dell’autotutela obbligatoria e, per l’effetto, l’innegabile «specialità» che la riforma assegna all’autotutela in campo tributario potrebbero, auspicabilmente, indurre la giurisprudenza a ravvisare l’interesse generale all’annullamento dell’atto divenuto definitivo anche laddove si tratti di assicurare solamente la giusta imposizione.

Se quest’auspicio si avverasse, potrebbe prendersi in considerazione un ulteriore sviluppo del regime normativo dell’autotutela tributaria.

Si potrebbe, cioè, immaginare di prescrivere come obbligatorio in ogni caso di illegittimità o infondatezza dell’atto o dell’imposizione – ossia, indipendentemente dal ricorrere delle tassative fattispecie oggi delineate dall’art. 10-quater – l’esercizio dell’autotutela entro un anno dall’avvenuta definitività del provvedimento impositivo.

Così il rispetto dei principi di legalità e capacità contributiva verrebbe ulteriormente rafforzato e troverebbe comunque un apprezzabile equilibrio con la tutela del valore della stabilità dei rapporti giuridici.

In tale prospettiva, l’autotutela manterrebbe il carattere della facoltatività solamente dopo il decorso del menzionato termine annuale.

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