La riforma: profili sostanziali e processuali
La disciplina dell'autotutela è una delle più significative novità della riforma della l. n. 212/2000 operata dal d.lgs. n. 219/2023.
In prima battuta, appare pienamente condivisibile la scelta di collocare detta disciplina nello Statuto dei diritti del contribuente, posto che l'autotutela rappresenta uno dei profili più delicati e qualificanti dei rapporti fra il privato e l'ente impositore. Detto altrimenti, lo Statuto rappresenta la corretta e natura collocazione di un istituto – qual è l'autotutela – che rileva significativamente nella configurazione delle relazioni fra il debitore e il creditore del tributo, anche al cospetto del principio di collaborazione e buona fede che le deve caratterizzare in forza dell'art. 10 comma 1.
Poi, la grande innovazione è rappresentata dal debutto dell'autotutela obbligatoria, che si affianca a quella facoltativa, sempre esistita.
Il legislatore, cogliendo uno spunto contenuto nella ricordata sentenza 13 luglio 2017, n. 181 della Corte costituzionale, impone all'ente impositore di annullare gli atti impositivi ove ricorrano i tassativi casi di «manifesta illegittimità dell'atto o dell'imposizione» indicati dall'art. 10-quater.
Come osservato dalla Corte costituzionale con tale sentenza, nulla osta all'autotutela obbligatoria in materia tributaria. E ne è chiara la ragione: il rispetto dei principi costituzionali di legalità e di capacità contributiva giustifica l'annullamento d'ufficio ancorché ciò possa talora compromettere la stabilità dei rapporti giuridici, come accade quando gli atti impositivi siano divenuti definitivi.
In sostanza, di fronte ai casi di «manifesta illegittimità dell'atto o dell'imposizione» individuati dall'art. 10-quater (consistenti nell'errore di persona; nell'errore di calcolo; nell'errore sull'individuazione del tributo; nell'errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall'amministrazione finanziaria; nell'errore sul presupposto d'imposta; nella mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti; nella mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini ove previsti a pena di decadenza), è ragionevole che l'insindacabilità del provvedimento divenuto inoppugnabile non possa essere invocata dall'ente impositore per sottrarsi dal – doveroso, d'ora in avanti – ripristino della legalità violata.
Rispetto alla bozza iniziale dell'art. 10-quater, approvata dal Governo e trasmessa al Parlamento, sono state meritoriamente ampliate le fattispecie di autotutela obbligatoria. Con la previsione dell'errore sul presupposto d'imposta, dell'omessa considerazione dei pagamenti eseguiti e della mancanza di documentazione successivamente sanata, purché non oltre i termini decadenziali, aumentano considerevolmente le occasioni nelle quali l'ente impositore dovrà ricorrere all'autotutela.
Èragionevole pure che venga meno l'obbligatorietà dell'annullamento decorso un anno (anziché tre mesi, come originariamente previsto nella menzionata bozza) dalla definitività degli atti viziati.
Si tratta di un equilibrato assetto fra i valori di legalità e capacità contributiva, da un canto, e di certezza dei rapporti definiti, dall'altro.
Peraltro, se il contribuente entro un anno dalla definitività dell'atto presenta l'istanza di autotutela e l'ente impositore la rigetta o tace, resta inalterata l'obbligatorietà dell'annullamento e il privato può pretenderne il rispetto in sede giurisdizionale.
Parimenti ineccepibile è che l'autotutela – tanto obbligatoria quanto facoltativa (sebbene l'art. 10-quinquies taccia in proposito) – sia inibita dal giudicato favorevole all'ente impositore, poiché è corretto che prevalga – con efficacia preclusiva – il definitivo approdo della funzione giurisdizionale, rappresentato appunto dalla sentenza non più soggetta ai mezzi di impugnazione ordinari, rispetto al contrastante esercizio di una funzione amministrativa.
V'è da chiedersi, piuttosto, se ogni giudicato (anche su un profilo diverso da quello invocato a supporto dell'esercizio dell'autotutela) precluda il ritiro dell'atto illegittimo.
A mio avviso, è preclusivo solo il giudicato sul medesimo profilo oggetto di autotutela.
In tal senso depone, oltre che la logica, l'art. 2 comma 2, del d.m. n. 37/1997, ancorché adesso abrogato, secondo cui «Non si procede all'annullamento d'ufficio, o alla rinuncia all'imposizione in caso di autoaccertamento, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all'Amministrazione finanziaria».
Se l'ente impositore non ricorre all'autotutela obbligatoria e il contribuente lo invita a farlo entro un anno dalla definitività dell'atto, il diniego espresso o tacito – grazie alla coeva riforma del giudizio tributario [v. le nuove lett. g-bis) e g-ter) dell'art. 19 comma 1, del d.lgs. n. 546/1992] – è impugnabile e il giudice potrà ravvisare la sussistenza del dovere di procedere all'annullamento e disporre in tal senso. Ossia il giudice potrà sancire l'annullamento dell'atto impositivo. Sarebbe inutilmente complesso prevedere che il Giudice rimetta all'ente impositore siffatto annullamento, immaginando di dover poi ricorrere al giudizio di ottemperanza in caso di inadempimento da parte di detto ente.
In sintesi, a fronte dell'autotutela obbligatoria esiste il diritto del privato di pretenderne l'esercizio.
Seguendo quest'ordine di idee, è inevitabile riconoscere che il contribuente, laddove impugni l'atto impositivo senza dedurre un motivo di «manifesta illegittimità», potrà in seguito promuovere un'istanza di autotutela obbligatoria per farlo valere – oltretutto, senza soggiacere al limite temporale di un anno, stante la mancata definitività del provvedimento – e potrà successivamente ricorrere contro il diniego espresso o tacito.
Di fatto, così viene meno la regola generale, ritraibile dal complesso delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 546/1992, del divieto di integrare i motivi di ricorso al di fuori del caso, del tutto eccezionale, del deposito di documenti non conosciuti e non conoscibili usando l'ordinaria diligenza, contemplato dall'art. 24 del medesimo d.lgs. n. 546/1992.
Poi, l'art. 10-quinquies regola l'autotutela facoltativa.
Essa interessa ogni ipotesi di illegittimità o infondatezza dell'atto o dell'imposizione, ivi compresi i casi in cui l'autotutela obbligatoria non sia esercitabile stante il decorso di un anno dalla definitività dell'atto viziato.
Siamo in presenza, quindi, della norma «di chiusura», come si suol dire, dell'odierno regime dell'autotutela tributaria poiché tutte le fattispecie di autotutela obbligatoria, una volta trascorso il ricordato lasso temporale, si prestano ad essere ricondotte fra quelle di autotutela facoltativa.
Ѐ significativo come l'istanza di autotutela facoltativa non incontri l'evidenziato limite temporale di quella obbligatoria. Trattasi di una scelta condivisibile: finché il contribuente ha un concreto interesse a conseguire il provvedimento di autotutela (poiché ne conseguirebbe un rimborso o si sottrarrebbe all'azione esecutiva dell'ente impositore o dell'agente della riscossione) gli viene riconosciuta la facoltà di rivolgersi all'ente creditore del tributo affinché quest'ultimo operi la valutazione discrezionale fra il ripristino della legalità violata e la stabilità dei rapporti tributari, sottesa alla fattispecie regolata dall'art. 10-quinquies allorché l'atto impositivo sia divenuto irretrattabile, ovvero fra l'interesse alla rimozione dell'atto e quello di evitare il processo e la condanna alle spese, nel caso in cui tale atto non si sia ancora cristallizzato.
Come detto, il rifiuto espresso o tacito dell'autotutela obbligatoria è impugnabile.
In particolare, secondo il nuovo comma 2 dell'art. 21 del d.lgs. n. 546/1992, il silenzio è impugnabile dopo che siano decorsi novanta giorni dalla proposizione dell'istanza di autotutela e l'ente impositore non si sia pronunciato. E il ricorso potrà proporsi finché sia concretamente apprezzabile l'interesse del privato a conseguire l'annullamento invocato, ossia finché potrà conseguire il rimborso di quanto versato in eccesso o finché sarà esposto all'esecuzione della pretesa ritenuta illegittima o infondata.
Diversamente, solo il rifiuto espresso dell'autotutela facoltativa è opponibile. Scelta, con ogni probabilità, ispirata dall'analoga soluzione espressa dalla Corte costituzionale con la rammentata sentenza 13 luglio 2017, n. 181, ma non condivisibile.
Secondo quanto anticipato, vero è che l'autotutela non ha un fine «giustiziale» e che, se facoltativa, rappresenta il frutto della valutazione discrezionale fra i valori e gli interessi sopra descritti, ma non convince che l'ente impositore possa disinteressarsi dell'istanza del contribuente. Tale ente – per le ragioni in precedenza enunciate – ha comunque l'obbligo di esaminarla e di darne riscontro all'istante.
Viene allora da pensare che, in caso di rifiuto tacito di autotutela facoltativa, il Giudice potrebbe ritenere esperibile l'azione giurisdizionale, dando così una lettura rispettosa del diritto di difesa costituzionalmente garantito e dell'art. 97 Cost. all'art. 19 comma 1, lett. g-ter), del d.lgs. n. 546/1992. Costui, però, potrebbe solo imporre all'ente impositore di pronunciarsi, senza esprimersi sulla valutazione discrezionale che solo a esso compete.
Oltretutto, la mancata previsione dell'impugnabilità del diniego tacito indurrà, di frequente e con somma probabilità, i contribuenti a qualificare, ancorché indebitamente, come fattispecie di autotutela obbligatoria quella in concreto invocata. E spetterà al Giudice discernere – forse, non sempre in termini agevoli – le ipotesi di autotutela obbligatoria da quelle di autotutela facoltativa.
Ove invece si impugni il rifiuto espresso facente leva sulla sola definitività dell'atto viziato, si potrà censurare, criticandone la motivazione, il cattivo esercizio dell'apprezzamento discrezionale svolto dall'ente impositore. E il Giudice potrà solo imporre a quest'ultimo di spiegare perché la stabilità prevalga sulla corretta esazione del tributo.
Se, infine, il diniego dovesse affrontare il merito del rapporto ancora pendente o sotteso all'atto definitivo, si assisterebbe a un rinnovato esercizio della funzione di controllo degli adempimenti fiscali. Circostanza, questa, che induce a ritenere che al giudice sia permesso di statuire in proposito.