Il licenziamento per giustificato motivo (soggettivo e) oggettivo privo di motivazione: natura della violazione e tutele

03 Luglio 2024

È possibile fa rientrare il licenziamento viziato nelle motivazioni – e solo per questa causa - tra i licenziamenti nulli? Allo stato e a legislazione vigente sembrerebbe preferibile l'opzione negativa in quanto né la recente sentenza della Corte costituzione, che ha dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, limitatamente alla parola "espressamente", inciderebbe sull'opzione della nullità del licenziamento immotivato, né le ulteriori opzioni ermeneutiche illustrate nell'articolo, ma solo un nuovo ricorso ai giudici delle leggi invocando la violazione dell'art. 24 della Carta costituzionale.

Premessa

Con riferimento alla forma scritta del licenziamento ed all'obbligo di motivazione fa d'uopo evidenziare che l'art. 2, comma 1 e 2, L. n. 604/1966 stabilisce che il datore debba comunicare per iscritto il recesso al dipendente e che lo stesso deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato a pena di inefficacia per l'inosservanza di tali presupposti sostanziali.

La più recente riforma conferma l'idea ampiamente acquisita secondo cui il licenziamento è atto a forma scritta ad substantiam (L'estinzione del rapporto di lavoro, Artt. 2118-2119 e 2121 c.c., a cura di Oronzo Mazzotta, Giulio Ponzanelli, in Il Codice Civile – Commentario, Diretto Da Francesco D. Busnelli, Milano, 2023). Dal punto di vista funzionale la comunicazione per iscritto soddisfa l'esigenza di dare certezza all'esistenza ed alla scansione temporale della scelta datoriale. Inoltre, essa fissa, attraverso la comunicazione dei motivi, l'ambito entro il quale il recesso si colloca dal punto di vista dei suoi presupposti di legittimità.

Con l'obbligo di contestuale specificazione dei motivi si ottiene la c.d. cristallizzazione delle ragioni poste a sostegno del licenziamento. Ciò non consente al datore di lavoro di addurre nell'eventuale giudizio di impugnazione del licenziamento ragioni diverse o ulteriori rispetto a quelle indicate nella lettera di licenziamento: in tal modo si ottiene un controllo rigoroso sulla coerenza del contegno datoriale.

Oggetto di questo intervento è l'analisi della fattispecie e delle relative conseguenze sanzionatorie del vizio di motivazione laddove manchino radicalmente, nell'atto di recesso datoriale, i motivi prima ancora della loro specificazione e della loro giustificazione.

In più pronunce (di merito o di legittimità), si legge – non senza qualche perplessità e ricorsività interpretativa – che il recesso datoriale senza motivazione e/o giustificazione (o quando esse siano solamente apparenti) abilita, in regime Jobs Act, il prestatore ad accedere alla tutela indennitaria cd. “forte” di cui all'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015.

Il tema è particolarmente sentito nei rapporti agenziali simulati (dove il recesso ex art. 1750 c.c. non necessiterebbe di motivazione scritta). La questione trova la sua sede, altresì e con altrettanto vigore, nei casi di licenziamenti senza specificazione scritta dei motivi o con motivazioni oggettivamente avulse dalla realtà aziendale o scritte “ad arte”.

Inefficacia e nullità nel Jobs Act

Il negozio viene qualificato nullo in tre ipotesi:

a) per un difetto strutturale, ossia quando manchi o vi sia una grave anomalia anche di uno soltanto degli elementi costitutivi,

b) quando sia contrario a norme imperative;

c) quando la nullità è specificamente comminata dal legislatore.

L'art. 1418, comma 1, detta una sorta di norma di chiusura facendo generico riferimento alla contrarietà a norme imperative, salvo sia disposto diversamente dalla legge.

Si suol dire che questa ipotesi di nullità è virtuale, per contrapporla a quella testuale ossia a quella in cui vi è una precisa disposizione di legge che commini la nullità delle ipotesi (Art. 1418 c.c. - Cause di nullità del contratto, Codice Civile commentato, a cura di G. Bonilini, M. Confortini, C. Granelli, Milano).

Di volta in volta occorre accertare i casi in cui la norma possa qualificarsi imperativa.

Secondo una certa dottrina, assumerebbe carattere imperativo la norma posta a tutela di un interesse pubblico; al riguardo occorre valutare gli interessi che essa vuole proteggere: se si accerta la loro generalità, il loro trascendere le parti negoziali, o comunque il tendere della norma alla protezione di fini fondamentali dell'ordinamento giuridico, allora vi è imperatività e conseguentemente il divieto, per le parti, di derogare, nell'esercizio della loro autonomia, alla regola legislativa. In una prospettiva più ampia si è ritenuto che la nullità consegua anzitutto alla violazione di norme costituzionali e di norme ordinarie che costituiscono attuazione dei principi costituzionali.

Nel sancire la nullità del contratto per contrasto con norme imperative, l'art. 1418 fa salvo il caso in cui la legge disponga diversamente.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno rilevato che la nullità per contrarietà a norme imperative deve discendere da norme aventi contenuti sufficientemente specifici, precisi e individuati, non potendosi, in mancanza di tali caratteri, applicare una sanzione, seppur di natura civilistica, tanto grave quale la nullità del rapporto negoziale (Cass., sez. un., n. 8472/2022).

È integrata la nullità strutturale quando manchi uno degli elementi essenziali del negozio giuridico: per quanto d'interesse, mancanza della forma, quando il vincolo formale sia prescritto ad substantiam.

Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge (c.d. nullità testuale). Si intende fare riferimento alle norme che specificamente dettano la sanzione della nullità del contratto con riguardo a fattispecie determinate (Cass., S.U., n. 8472/2022).

Jobs Act, licenziamento nullo e profili di illegittimità

L'assetto normativo del d.lgs. n. 23/2015, sulla scia della riforma “Fornero”, ha definito un sistema di tutele multilivello, privilegiando la sanzione risarcitoria ed indennitaria rispetto a quella ripristinatoria o reintegratoria in forma specifica, modulata secondo la gravità del vizio sottostante al licenziamento illegittimo. 

Un sistema rimediale in materia di licenziamenti si compone essenzialmente di due momenti diversi ma collegati tra loro: un primo attiene all'individuazione dei limiti posti al datore in relazione al recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato; il secondo attiene al meccanismo sanzionatorio per il caso in cui il datore di lavoro contravvenga ai limiti che l'ordinamento gli ha posto (Il principio di Archimede, le riforme dei licenziamenti (2012-2015) e la Corte costituzionale (2018-2022), Commento alla normativa di Dario Bernardi, Giudice del lavoro, Tribunale di Ravenna, in Lav. giur., 1° ottobre 2022, n. 10, p. 905).

Il nuovo regime introdotto con il d.lgs. n. 23/2015 in relazione al licenziamento nullo è stato sin da subito al centro del dibattito dottrinale, nell'ambito del quale si è tentato di indagare il precipuo significato dell'avverbio «espressamente», comparso nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, per comprendere se quei licenziamenti intimati in violazione di una norma imperativa siano assoggettabili al regime della tutela reintegratoria allorché la norma violata non espliciti la sanzione della nullità.

Non vi è chi, focalizzandosi sulla lettera della disposizione ed in particolare sulla locuzione “espressamente”, ritenga che l'intenzione del legislatore del 2015 “sia stata proprio quella di escludere dall'ambito di applicazione dell'art. 2 i casi in cui la nullità del licenziamento è meramente virtuale (E. Pasqualetto, Il licenziamento discriminatorio e nullo nel "passaggio" dall'art. 18 St. lav. all'art. 2, d.lgs. n. 23/2015, in F. Carinci, C. Cester (a cura di), Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015, in ADAPT Labour Studies, n. 46/2015, p. 48 e ss.).

Secondo l'orientamento dottrinale più diffuso la nuova formulazione non vieterebbe certo l'impiego delle categorie civilistiche generali, con conseguente piena applicabilità del regime della c.d. tutela reale di diritto comune, per quanto ciò comporti il venir meno di quell'unitarietà ontologica del rimedio reintegratorio nel diritto del lavoro che la Riforma Fornero aveva di fatto realizzato (Invero, l'art. 18, co. 1 dello Statuto dei Lavoratori, come novellato dalla l. n. 92/2012, aveva previsto un sistema unitario del rimedio della reintegrazione, poiché tutte le ipotesi precedentemente assoggettate al regime della c.d. tutela reale di diritto comune, venivano assorbite dalla clausola di applicazione della disposizione citata agli «altri casi di nullità previsti dalla legge», formula propria di una norma di chiusura onnicomprensiva. Sul punto cfr. C. Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. Dir. Lav., III, 2012, p. 547).

Nel dibattito dottrinale si è inserita di recente la Cassazione dubitando della legittimità costituzione dell'art. art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 in quanto “la delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità "espressamente previsti della legge" sia in contrasto con la norma della legge-delega (L. 10 dicembre 2014, n. 183 - "Deleghe al governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro"), art. 1, comma 7, lett. c), norma che dispone che il legislatore delegato preveda per le nuove assunzioni, la (diversa) limitazione del "diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato" (Cass. sez. lav., 7 aprile 2023, n. 9530).

L'ordinanza trae origine dal caso di un autoferrotranviere destituito per opinamento (i.e., licenziato)  direttamente dall'amministratore delegato (AD), nonostante la tempestiva richiesta del lavoratore di intervento del Consiglio di Disciplina (CDD), ai sensi della normativa speciale per gli autoferrotranvieri di cui al R.d.  n. 148/1931, artt. 53 e 54, detto organo non era stato costituito; per effetto della mancata costituzione del CDD, che rappresenta una forma di garanzia procedurale ulteriore e speciale anche rispetto a quella di cui al L. n. 300/1970, art. 7, tutt'ora vigente, il procedimento disciplinare, conclusosi con sanzione irrogata direttamente da parte datoriale, nonostante rituale richiesta del lavoratore di ricorso al giudizio del CDD, era nullo, per essere stato l'esercizio della potestà punitiva esercitato dal datore di lavoro, cui tale facoltà non spettava in conseguenza dell'obbligatoria devoluzione della decisione in merito al CDD, organo terzo, su opzione del lavoratore; tenuto conto della data di assunzione del lavoratore successiva all'entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, poiché l'art. 2, comma 1, di tale normativa prevede la reintegrazione del lavoratore limitatamente ai casi di licenziamento discriminatorio ovvero perché "riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge", e poiché in questo caso andava esclusa la discriminatorietà e la nullità non era espressa, ma riconducibile a categorie di ordine generale, andava applicata la sola tutela economica crescente nella misura indicata (pag. n. 2 della sentenza).

Il percorso argomentativo dei giudici di legittimità, che potrebbe anche investire altri profili di inefficacia dell'atto espulsivo, la nullità di una sanzione disciplinare rientra nella categoria delle nullità di protezione, in quanto fondata sullo scopo di tutela del contraente debole del rapporto; pertanto, tale violazione non è assimilabile a quelle procedurali, sanzionabili con il pagamento di un'indennità (Cfr. art. art. 4, d.lgs. n. 23/2015; L. n. 300/1970, art. 18, comma 6); tale regime di nullità (di protezione) emerge dalla ricostruzione sistematica ed è riconducibile al regime generale delle nullità disciplinato dagli artt. 1418 ss. c.c., sicché tale qualificazione (di nullità di protezione) comporta l'integrazione dell'ipotesi di nullità per contrarietà a norma imperativa, cui di norma si applica la tutela reintegratoria (cfr. Cass. n. 32681/2021).

La delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità "espressamente previsti della legge" (Art. 2, co. 1, d.lgs. n. 23/2015), allorché l'avverbio “espressamente”, non suscettibile di un interpretazione costituzionalmente orientata, rivelasse l'intenzione del legislatore delegato di escludere dall'ambito di applicazione dell'art. 2 i casi in cui la nullità del licenziamento è meramente virtuale (E. Pasqualetto, Il licenziamento discriminatorio e nullo nel "passaggio" dall'art. 18 St. lav. all'art. 2, d.lgs. n. 23/2015, in F. Carinci, C. Cester, a cura di, Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015, in ADAPT Labour Studies, n. 46, 2015, p. 48 e ss.), fa sorgere, agli Ermellini, il sospetto di illegittimità costituzionale della norma “in primo luogo, sotto l'aspetto dell'interpretazione letterale delle norme, si osserva che il legislatore delegante ha incaricato il legislatore delegato, per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, di limitare "il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato": la lettera della legge (delegante) sembra comprendere nell'area della reintegrazione tutti i licenziamenti nulli e discriminatori, e delegare l'individuazione di specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (ma non per questo nullo, cui ulteriormente ricollegare il diritto alla reintegrazione; in altri termini, la limitazione del diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare non implica l'ulteriore limitazione alle nullità espresse dalla legge, perché, in senso letterale, la delega esclude dalla limitazione l'area dei licenziamenti nulli (tutti) e discriminatori, oltre a specifiche ipotesi di licenziamenti disciplinari non nulli da individuarsi in sede delegata; in secondo luogo, da un punto di vista sistematico, come osservato in dottrina, la restrizione ai soli casi di nullità espressa - nel senso di esplicitata come sanzione della violazione del precetto primario - finisce con il forzare il valore della coerenza del sistema, e a non considerare operante, anche ai fini di cui al d.lgs. n. 23/2015, art. 2, comma 1, il principio generale che ricollega la conseguenza della nullità alla violazione di norme imperative dell'ordinamento civilistico; in realtà, la differenza tra nullità espressamente previste e nullità da ricollegare a categorie civilistiche generali può risultare il precipitato non di una diversità ontologica o valoriale, ma di peculiare ragioni storiche, sistematiche o di stratificazione normativa, con esiti casuali e non razionali, così realizzando un'eterogenesi dei fini ordinatori della disciplina delegante; senza considerare che anche l'art. 1418 c.c.è norma espressa” (Cass., sez. lav., 7 aprile 2023, n. 9530, cit. ).

In conclusione, «la necessaria coerenza tra legge delegante e legge delegata appare nel caso in esame dubbia per la previsione di una limitazione di tutela non prevista nella norma delegante e di individuazione incerta» (V. L. Di Paola, Licenziamenti nulli e tutela reintegratoria: la Cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del Jobs Act (d.lgs. n. 23/2015), in IUS Lavoro, 12 aprile 2023).

La Corte costituzionale, con sent. n. 22/2024, dà soddisfazione ai dubbi di costituzionalità sollevati dagli Ermellini, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 1, del Decreto Legislativo n. 23 del 2015, limitatamente alla parola "espressamente". La Corte, conclusivamente, ha stabilito che la limitazione della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità "espressamente" previsti dalla legge è eccessiva e non conforme alla Costituzione. La decisione amplia l'ambito di applicazione della reintegrazione, includendo tutti i casi di nullità del licenziamento previsti dalla legge, anche se non espressamente elencati. La Corte ha rilevato che questa restrizione non era in linea con la legge delegante, che non prevedeva una limitazione così rigida.

La sentenza ha quindi corretto l'articolo del Jobs Act, rimuovendo la parola "espressamente" per garantire una protezione più ampia ai lavoratori contro i licenziamenti nulli, assicurando che la tutela reintegratoria si applichi in tutti i casi di nullità previsti dalla legge, senza necessità di una specifica espressione normativa.​

Il Jobs act è continuamente sotto attacco della Magistratura del lavoro, anche dopo le sentenze della Corte costituzione del 2018 e del 2020; infatti, il d.lgs. 23/2015 è stato ed è ancora oggetto di attenzione – con riguardo ai profili di illegittimità costituzionale, sia della Cassazione, con l'ordinanza di rinvio sopra commentata, che della giurisprudenza di merito.

Il Giudice del lavoro del Tribunale di Ravenna (sez. lav., ord. 27 settembre 2023.), “dubita della legittimità costituzionale dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 laddove ne risulta che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico (ossia determinato da "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa": art. 3, L. n. 604/1966), in ipotesi in cui il giudice accerti l'insussistenza del fatto (nell'accezione di Corte cost. n. 125/2022) posto a fondamento del licenziamento stesso, il legislatore abbia escluso - anche in ipotesi di impresa sopra soglia ex art. 9 (che sul punto rinvia alle soglie numeriche dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori), la tutela reintegratoria.” Il tribunale ritiene che la norma ordinaria contrasti con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, co. 1 della Cost. e con il principio di ragionevolezza essendo “conculcati, per quest'ultimo, ingiustificatamente i valori del lavoro (art. 1,4,1 comma, 35, 1 comma Cost.) e della persona (art. 2 Cost.), piegati questi alle necessità dell' impresa (invertendo la dinamica prevista dall'art. 41,2 comma Cost.) e non viceversa, come dovrebbe aversi anche in applicazione dell'art. 3,2 comma Cost., escludendosi la reintegra, strumento in grado di assicurare l'adeguatezza del risarcimento subito dal lavoratore, rispetto ad una tutela complessiva altrimenti duplicemente limitata (no reintegra; tetto all'indennizzo); ma anche la deterrenza della sanzione, qui fortemente sminuita”. Analoga questione si pone ai sensi dell'art. 117,1 comma, Cost., in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea.

Allo stato, ciò che va adeguatamente rimarcato è che ad un licenziamento intimato per un giustificato motivo oggettivo ad un c.d. “nuovo assunto” - al quale trovi pertanto applicazione il contratto a tutele crescenti - anche per un motivo addotto nella lettera di recesso del quale venga dimostrata l'insussistenza materiale, non potrà trovare mai applicazione la tutela reintegratoria, ma solo quella indennitaria.

Fa eccezione a quanto detto il solo caso nel quale il lavoratore licenziato riesca a dimostrare - con onere della prova rigorosamente a suo carico, ma assolvibile anche attraverso “presunzioni” - il motivo discriminatorio o ritorsivo del licenziamento formalmente intimato per giustificato motivo oggettivo (Canali De Rossi, Licenziamento per GMO: evoluzione delle tutele, in Dir. prat. lav., n. 18, 6 maggio 2023, p. 1117).

Il licenziamento per gmo privo di motivazione è nullo?

L'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 disciplina il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale, riproducendo sostanzialmente i contenuti della disciplina vigente, recata dall'art. 18, commi 1-3, della legge n. 300/1970, che prevede la tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) del lavoratore illegittimamente licenziato.

Il comma 1 dell'art. 2, in particolare, dispone che il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'art. 15 della legge n. 300/1970 o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ovvero inefficace perché intimato in forma orale, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.

Il riferimento sembra andare ancora, a quanto già sancito dall'art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nonché alle ipotesi di licenziamento nullo perché discriminatorio (intimato in violazione dei divieti di licenziamento per causa di matrimonio o per fruizione dei congedi di maternità, paternità e parentali), ai licenziamenti affetti da nullità (per espresse previsioni di legge come nel caso della fruizione di congedi per eventi e cause particolari oppure per la formazione) o che derivano da un motivo illecito determinante (art. 1345 cod. civ., come nell' ipotesi del c.d. “licenziamento per ritorsione” intimato dal datore di lavoro per reagire in modo arbitrario ad una condotta non illecita né antidoverosa del lavoratore). Per espressa previsione di legge lo stesso regime sanzionatorio trova applicazione anche nei confronti del licenziamento che sia dichiarato inefficace perché intimato in forma orale (Rausei, Sanzioni per i licenziamenti individuali, in Dir. prat. lav., n. 34-35, 11 settembre 2021, p. II ).

Mentre per quanto riguarda i vizi formali e procedurali del licenziamento (Artt. 2, L. 604/1966 e 7 L. 300/1970), l'art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 prevede l'estinzione del rapporto su dichiarazione del giudice, il quale condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità.

Quindi, nel nostro caso, il licenziamento viziato da omessa indicazione della motivazione – qualora la locuzione “con violazione del requisito di motivazione” si intenda estesa anche a tale condotta illecita - non sarebbe nullo, né inefficace, ma solo invalido in quanto l'illiceità (solo formale) non impedirebbe l'effetto estintivo del rapporto di lavoro.

Un sistema rimediale in materia di licenziamenti si compone essenzialmente di due momenti diversi ma collegati tra loro: un primo attiene all' individuazione dei limiti posti al datore in relazione al recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato; il secondo attiene al meccanismo sanzionatorio per il caso in cui il datore di lavoro contravvenga ai limiti che l'ordinamento gli ha posto (Il principio di Archimede, le riforme dei licenziamenti (2012-2015) e la Corte costituzionale (2018-2022), Commento alla normativa di Dario Bernardi, Giudice del lavoro, Tribunale di Ravenna, in Lav. giur., n. 10, 1° ottobre 2022, p. 905).

I principi di uguaglianza e ragionevolezza, immanenti nella lettura dell'art. 3 Cost., fatti propri nel tempo dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, assunti come parametri di giudizio della legittimità del diritto positivo del lavoro, con riguardo ai differenziati livelli di tutela rispetto alle diverse fattispecie di illegittimità, la ragionevolezza del sistema nel suo complesso attiene essenzialmente a due aspetti: l'idoneità della piattaforma a consentire un adeguato ristoro al lavoratore e l'idoneità della stessa a dissuadere il datore di lavoro dal licenziare illegittimamente (Il principio di Archimede, le riforme dei licenziamenti (2012-2015) e la Corte costituzionale (2018-2022), op. ult. cit.).

Orbene, ritornando alla questione che ci occupa, il dubbio risiede nella individuazione delle conseguenze sanzionatorie, non già o non solo nel caso in cui il negozio del licenziamento per gmo contenga una motivazione generica e carente di specificità, sibbene nel caso più grave dell'assenza di tale motivazione.

È senz'altro vero che la sanzione, solo indennitaria (definita anche debole), prevista dalla legge Fornero (art. 18. Comma 6, S.L. come modificato dalla L. n. 92/2012) e dal Jobs Act (art. 4, d.lgs. n. 23/2015), ha comportato una sensibile svalutazione di tutti i vizi procedimentali del licenziamento diversi da quello della forma scritta. Tant'è vero che si è parlato non a torto di un'inefficacia “solo a parole” (F. Carinci, Ripensando il “nuovo” art. 18, in Arg. Dir. Lav., 2013, 479). Infatti, sia l'art. 18, comma 6, S.L., ove nonostante l'espressione “Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604”, contraddittoriamente il legislatore, nel rinviare, per la sanzione, all'applicazione del superiore comma 5, stabilisce che “Il giudice, [...], dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento”, che l'art. 4 del D. Lgs 23/2015, ove, avvedendosi dell'antinomia, scompare dall'incipit della norma, in cui viene descritta la causa di illegittimità, la locuzione “sia dichiarato inefficace”, il legislatore prescrive che  “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità”.

Sul punto, autorevole dottrina ha commentato le norme citate in senso favorevole nella misura in cui ha posto fine all'ingiusta uniformità sanzionatoria del vecchio art. 18 Stat. lav., ha inteso ridurre gli effetti negativi di queste trappole formali, e questa è senz'altro una finalità razionale. In ogni caso, la svalutazione in termini di sanzione dei suddetti vizi procedimentali del licenziamento trova in altri due argomenti la sua spiegazione logica: da un lato il lavoratore può sempre proporre la domanda di nullità o di ingiustificatezza del licenziamento, sicché l'indennità per vizio procedurale si ridurrà ad una domanda subordinata; dall'altro lato, questa tipologia di vizi offre la possibilità al datore di rimediare poiché egli può sempre ripetere il licenziamento per il medesimo motivo con il rispetto del procedimento violato (Pisani, Il licenziamento inefficace per vizio di forma, in Giur. it., n. 2, 1° febbraio 2014, p. 441).

Il comma 6 dell'art. 18 L. n. 300/1970, del tutto simile al precetto ed alla misura della sanzione ex art. 4 del Jobs Act, ha sollevato alcuni dubbi di costituzionalità derivanti dalla modestia della sanzione prevista per le violazioni per le illegittimità formali e procedimentali.

A tal proposito occorre distinguere, nel licenziamento disciplinare, il diritto di difesa stragiudiziale del lavoratore dal diritto di difesa giudiziale, che può riguardare anche il licenziamento per giustificato motivo oggettivo; il primo potrebbe essere leso dall'assenza o dalla palese genericità della contestazione dell'addebito, il secondo, dall'assenza della motivazione del licenziamento (Pisani, Il licenziamento inefficace per vizio di forma, op. cit.).

L'assenza della motivazione potrebbe generare un vulnus al diritto di difesa del lavoratore in sede giudiziaria (art. 24 Cost.).

Si è osservato che si potrebbe verificare la situazione in cui l'assenza della contestazione dell'addebito o della motivazione del licenziamento — a cui è equiparabile una contestazione o una motivazione del tutto generica —, costringa il lavoratore a proporre “al buio” (V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, I, 544) il ricorso giudiziale, senza poter replicare nel suo primo atto giudiziario a tali sconosciuti motivi (Pisani, Il licenziamento inefficace per vizio di forma, op. cit.). E nel rito del processo del lavoro le preclusioni (circa le allegazioni e il corredo probatorio) sarebbero tali da comprimere di molto le possibilità di difesa per il lavoratore ricorrente. Tuttavia, i difensori della legittimità della norma ricorrevano all'argomentazione per la quale occorre considerare che il giudizio sul licenziamento nell'area dell'art. 18 Stat. lav. deve essere necessariamente introdotto da una fase sommaria in cui non sembra trovino applicazione le rigide preclusioni e le decadenze dell'ordinario rito del lavoro. Tuttavia, si noti che, per quanto riguarda il procedimento giudiziario in tema di licenziamento, viene definitivamente superato il “rito Fornero” (commi da 47 a 69 dell'art. 1 della Legge n. 92/2012) che, a far data dall'entrata in vigore della nuova riforma, non sarà più azionabile. Viene quindi unificato il procedimento in materia di lavoro prevedendosi tuttavia, all'interno dello stesso codice, una disciplina separata per i casi di impugnazione del licenziamento (il Capo I-bis, Libro II, titolo IV, c.p.c., recante "Delle controversie relative ai licenziamenti"). Il dibattito, all'alba dell'entrata in vigore del Jobs Act, è stato molto nutrito. E sull'argomento si rilevano tesi che confermerebbero la legittimità della norma che punisce con una lieve sanzione economia anche il licenziamento privo di motivazione. Alla constatazione che il diritto di difesa è tutelato in ogni stato e grado del procedimento pare potersi contrapporre l'argomento che la difesa giudiziale del lavoratore non è, di per sé, impedita, stante la possibilità di replica (ove il datore di lavoro deduca, per la prima volta, le ragioni in giudizio). E ciò, anche con riferimento ai lavoratori «con contratto a tutele crescenti», ai quali trova applicazione il rito ordinario. Una questione di legittimità costituzionale potrebbe, però, venire in rilievo – con riferimento ai lavoratori con contratto a tutele crescenti – nel caso, particolare, in cui il datore di lavoro, che non abbia preventivamente contestato l'addebito, né motivato il licenziamento, taccia poi anche in giudizio le ragioni del licenziamento (De Mozzi, I vizi formali e procedurali del licenziamento, in F. Carinci, C. Cester, a cura di, Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015, in ADAPT Labour Studies, n. 46/2015, p. 142 e ss.).

Secondo autorevole dottrina, la reintegrazione in caso di totale carenza di motivazione resta confermata anche dopo il d.lgs. n. 23/2015 “tutele crescenti”, che la prevede per gli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” (art. 2, comma 1), dato che la nullità è proprio di legge (artt. 2 e 5 legge n. 604/1966) (Miscione, Tutele crescenti: un'ipotesi di rinnovamento del diritto del lavoro, in Dir prat. lav., n. 12, 28 marzo 2015, p. 741).

Di orientamento opposto altri indirizzi dogmatici, per i quali depone, infatti, in senso contrario l'ampiezza del riferimento normativo alla «violazione del requisito di motivazione, di cui all'art. 2, comma 2 l. n. 604/1966», il quale trova la sua espressa sanzione proprio negli artt. 4 e 9 del decreto stesso (De Mozzi, I vizi formali e procedurali del licenziamento, op. cit.).

Va ribadita, per inciso e per rafforzare l'opinio juris prima riportata, la stonatura più evidente del comma 6 dell'art. 18, come modificato dalla “Fornero”, che risiede piuttosto in quella inutile qualificazione in termini d'inefficacia del licenziamento viziato procedimentalmente. Quando il legislatore si avventura in qualificazioni dommatiche, invece di limitarsi a porre precetti e sanzioni, non di rado crea problemi interpretativi in quanto costringe l'interprete a trarre da tali qualificazioni le dovute conseguenze sistematiche, che a loro volta possono comportare irrazionali o incongrue ricadute applicative, alle quali probabilmente chi ha scritto la norma neppure aveva pensato (Pisani, Il licenziamento inefficace per vizio di forma, op. cit.; ma v. anche Piccari, Le procedure di intimazione del licenziamento, in Diritto e processo del lavoro del lavoro e della previdenza sociale, tomo I, a cura di Giuseppe Santoro Passarelli, Torino, 2020, per il quale “L'art. 18, comma 6, espressamente dispone che «nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, L. n. 604 del 1966», il giudice, con applicazione del comma 5 dell'art. 18, L. n. 300/1970, «dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento» e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto - art. 18, comma 6 -. Perciò, in evidente controsenso logico-giuridico, «il licenziamento, quando sia dichiarato inefficace per omessa comunicazione della motivazione, produce l'effetto di risolvere il rapporto - dunque è efficace -, e al lavoratore spetta solo un'indennità onnicomprensiva”).

Il legislatore del 2015 se n'è avveduto, ed ha formulato la stessa norma, con disposizione non perfettamente sovrapponibile alla precedente (Art. 18, co. 6, S.L.): «Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 … il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento», sopprimendo la locuzione «sia dichiarato inefficace» (art. 4, comma 1, d.lgs. n. 23/2015).

A ben vedere la formula finale dell'art. 4, co. 1, del d.lgs. n. 23/2015 “a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 (nullità) e 3 (difetto di giustificazione) del presente decreto”, potrebbe dare adito a dubbi di incostituzionalità, perché incompatibile col dettato dell'art. 24 Cost. (diritto di difesa).

Pertanto, il legislatore sembra distinguere le varie fattispecie dell'illegittimità (nullità, assenza della giusta causa e del g.m. soggettivo o oggettivo), da quella della carenza di motivazione, ancorché il licenziamento sia giustificato. Si è osservato che per descrivere il vizio di motivazione la nuova norma ha mantenuto l'espressione «violazione del requisito di motivazione» già adottata dal sesto comma dell'art. 18, legge 300/1970. Tale espressione, però, data l'assenza di ulteriori specificazioni, rende labile il confine tra difetto di giustificazione e difetto di motivazione, così determinando la possibile insorgenza di problemi interpretativi e applicativi della fattispecie (a titolo esemplificativo, non è chiaro se l'assenza o insufficienza grave del requisito di motivazione debba essere considerata come mancanza dello stesso fatto contestato e

quindi tale da integrare il difetto di giustificazione e non quello di motivazione).

Tuttavia, è stato osservato che una cosa è la comunicazione dei motivi, altra cosa è che quei motivi siano dovuti anche quale giustificazione necessaria, e cioè come presupposto di legittimità dell'atto unilaterale espulsivo. Non a caso, anche nell'impianto della legge n. 604/1966, vi è netta distinzione fra la regola di giustificazione necessaria (art. 1) e l'obbligo di comunicare i motivi (art. 2).

Anche la ratio delle due norme è completamente diversa. Invero, la regola di giustificazione necessaria nasce come controlimite al potere libero di licenziamento, che consentiva indubbiamente al datore di lavoro un agevole governo dell'organico, ma rappresentava una minaccia permanente per i lavoratori, specie quelli che non possedevano una professionalità ambita sul mercato. L'obbligo di motivazione, invece, risponde alla diversa esigenza di informare il lavoratore delle ragioni per cui è stato estromesso dall'organizzazione con cui collaborava (Maurelli, Recesso nel Decreto Trasparenza: onere della prova e obbligo motivazionale, in Guida alle paghe, n. 2, 1° febbraio 2023, p. 111).

Il controllo sul motivo, nel diritto privato, richiama una verifica della volontà dei contraenti, una volontà che, per assurgere alla rilevanza in chiave di nullità, deve atteggiarsi in modo “unico e determinante”. Si tratta comunque sempre di una volontà inespressa che maschera, in qualche modo, l'apparenza della situazione giuridica, per come si presenta all'esterno. Il controllo sul motivo si traduce in buona sostanza in un controllo interno all'esercizio della volontà negoziale. Nell'ambito invece del diritto del lavoro, la giusta causa ed il giustificato motivo, richiamati dalla legge del '66, mai potrebbero evocare la “causa” ed il “motivo” del negozio, anche solo perché quelle nozioni non sono identificabili in quelle entità psicologiche, in cui consiste il motivo né possono richiamare la funzione del negozio di recesso, caratteristica fondamentale della causa. Assumere che la giusta causa di licenziamento sia la causa del negozio significherebbe frantumare quel paradigma, che è unico rispetto alla forma di esercizio del relativo potere, in tante diverse fattispecie caratterizzate da cause autonome e diversificate. Viceversa, è assolutamente pacifico e indiscutibile che la causa del negozio di recesso è unica ed unitaria e consiste nella manifestazione della volontà della parte di allontanarsi (recedere appunto) da un rapporto giuridico di durata. Pertanto, le ragioni della giusta causa o del giustificato motivo sono esterne all'atto. Le ragioni sono fatti giuridici, non volizioni. È bene, quindi, distinguere la motivazione dal fatto giustificativo. Dal che si deduce che la motivazione potrebbe essere carente o inesistente, ma il fatto sussistere e viceversa (Mazzotta, Il licenziamento individuale, in L'estinzione del rapporto di lavoro, Artt. 2118 - 2019 – 2121, in Il codice civile – Commentario, Milano, 2023, op. cit.).

Date le premesse, non è agevole individuare le ragioni di contrasto del diritto positivo (artt. 2, comma 2 e 3, L. n. 604/1966 e 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23/2015) con il panorama delle norme costituzionali, cui confrontarlo con riguardo al licenziamento carente di motivazione. Tema di avvio del presente articolo.

È possibile fa rientrare il licenziamento viziato nelle motivazioni – e solo per questa causa - tra i licenziamenti nulli?

Allo stato e a legislazione vigente sembrerebbe preferibile l'opzione negativa.

Quanto all'invocata incompatibilità con il principio di uguaglianza del presupposto secondo cui il regime di tutela dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, applicabile agli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, è meno favorevole di quello dell'art. 18 della L. n. 300/1970, applicabile ai lavoratori assunti prima di tale data, il Giudice delle leggi ha ricordato che “a proposito della delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo, nella giurisprudenza di questa Corte è costante l'affermazione - nota anche al giudice rimettente - che "non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)" (sentenza n. 254 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto). Questa Corte ha al riguardo argomentato che "spetta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme [...] (sentenze n. 273 del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, e n. 94 del 2009, punto 7.2. del Considerato in diritto)" (sentenza n. 104/2018, punto 7.1. del Considerato in diritto) (Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194 - data ud. 25 settembre 2018).

Al di là delle dispute dottrinali sul punto (Pisani, La sanzione per i vizi formali e procedimentali del licenziamento secondo la Consulta: L'ars distinguendi dimenticata, in Riv. it. giur. lav., 2020, I), e le critiche mosse alle sentenze della Corte Cost. n. 194/2015 e n. 250/2020, e alla svalutazione del criterio dell'inefficacia ex art. 2, co. 3 della L. 604/66, qualificata come “inefficacia solo a parole” (Così Carinci, Ripensando il nuovo art. 18, in Arg. dir. lav., 2013, p. 479), appare evidente come non si possa invocare la nullità del licenziamento a fronte di omessa o carente motivazione, atteso come tale fattispecie non possa da sé sola travolgere la sussistenza della causa materiale o fattuale giustificativa del licenziamento.

A chi scrive non rimane che valutare i vizi formali del licenziamento sotto il profilo del diritto di difesa giudiziale del lavoratore ex art. 24 Cost.

Con la sentenza n. 150/2020 la Corte Cost. ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole "di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio".

Non ha tratto però le estreme conseguenze nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di una norma che sanziona le irregolarità formali e procedurali con la sola indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale ora, dopo l'intervento del giudice delle leggi, determinata dal giudice e non già secondo l'automatismo legato all'anzianità di servizio.

Estreme conseguenze che sembravano contenute in nuce nella parte motiva della sentenza n. 250/2020, laddove i giudicanti esordiscono al par. n. 7 affermando che “Le prescrizioni formali, […] rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica. Nell'àmbito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora più pregnante, poiché segna le tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei princìpi costituzionali.” Ed ancora: “L'obbligo di motivazione, inizialmente subordinato a una specifica richiesta del lavoratore, ha assunto caratteri più stringenti, in séguito alle novità introdotte dall'art. 1, comma 37, della L. n. 92 del 2012.” L'articolato ragionamento prosegue: “L'obbligo di motivazione, che ha il suo corollario nella immutabilità delle ragioni del licenziamento, è tratto qualificante di una disciplina volta a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro, al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello stesso.

Le previsioni dell'art. 7 della L. n. 300/1970, richiamate dalla disposizione oggi censurata, assegnano un ruolo centrale al principio del contraddittorio, più che mai cruciale nell'esercizio di un potere privato che si spinge fino a irrogare la sanzione espulsiva.  Le garanzie sancite dall'art. 2 della L. n. 604/1966 e dall'art. 7 dello statuto dei lavoratori, consistono nell' imporre alle parti di esternare le contrapposte ragioni, al fine di chiarire i punti controversi e favorire, ove possibile, composizioni stragiudiziali. Tali garanzie preludono a un esercizio più efficace del diritto di difesa nel corso della fase giudiziale che il lavoratore può scegliere di instaurare successivamente.

La violazione delle prescrizioni formali e procedurali, all'origine di un possibile e più ampio contenzioso riferito al recesso del datore di lavoro, rischia di disperdere gli elementi di prova che si possono acquisire nell' immediatezza dei fatti e attraverso un sollecito contraddittorio e incide, pertanto, sull'effettività del diritto di difesa del lavoratore.

L'obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost. …”. Infine, si sottolinea: “Il contraddittorio "esprime un valore essenziale per la persona del lavoratore" (sentenza n. 364 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto) e anche l'obbligo di motivazione risponde ad analoghe esigenze di tutela. La violazione di tale obbligo, difatti, non solo preclude in radice il dispiegarsi del contraddittorio, ma reca offesa alla dignità del lavoratore, esposto all'irrogazione della sanzione espulsiva senza avere adeguata cognizione delle ragioni che la giustificano.” Di fronte a tali reboanti espressioni la Corte partorisce il topolino: la tutela sanzionatoria rimane indennitaria liberata, nella commisurazione, dalle pastoie dell'automatismo, per affidarla alla discrezionalità del giudicante in relazione alla gravità dell'infrazione nell'ambito dei vizi formali e procedimentali. Nonostante l'opinione di chi sostenga la criticabile impostazione dei Giudici della Consulta per i quali l'idea di fondo è quella di voler equiparare, sia pure ai fini dei criteri di determinazione della sanzione, il licenziamento ingiustificato con il licenziamento giustificato che presenti qualche vizio formale o procedurale, cionondimeno appare insuperabile il contrasto tra la norma positiva - e poco convincenti le tesi circa la legittimità costituzionale di questa -, che colpisce il vizio formale e procedurale con la sola sanzione indennitaria, e il diritto di difesa giudiziale del lavoratore ex art. 24 Cost.  

Se l'obbligo del contraddittorio – ma anche della motivazione - «sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost.» e quindi hanno rilievo costituzionale, l'omessa motivazione e la violazione delle regole procedurali, incidono fortemente nel diritto di difesa (sia nella fase stragiudiziale che in quella giudiziale), al di là e come antefatto logico, della previsione eccettiva racchiusa nella formula “a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto” (Cfr. Art. 4, co. 1, ult. cpv, d.lgs. n. 23/2015; con espressione pressoché analoga contenuta nell'art. 18, co. 6, L. n. 300/1970: “a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”). A difesa della costituzionalità della norma, in dottrina si è affermato che l'eccezione non avrebbe fondamento sul rilievo che la norma in questione attribuisce comunque al lavoratore il diritto di chiedere in giudizio la maggior tutela prevista per la ingiustificatezza, semplice o qualificata che sia, del licenziamento (Il licenziamento inefficace per vizio di forma, Commento alla normativa, Carlo Pisani, in Giur. comm., n., 1° febbraio 2014, p. 441).

Sul punto è condivisibile l'opinione per la quale la nuova disciplina svaluta in modo determinante il principio del contraddittorio e quelli di conoscibilità e di immutabilità del licenziamento (Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 542). Quando il datore di lavoro avrà dubbi o insufficienti elementi di prova o condizioni economiche incerte e vuole comunque licenziare, si limiterà a specificare per iscritto il recesso, non indicando le ragioni dell'interruzione del contratto. Il lavoratore a questo punto non saprà se e come fare ricorso e dovrà comunque agire al buio (ibidem).

Sul piano processuale, abrogata la normativa, allo stato, sulla fase sommaria, posto che viene definitivamente superato il “rito Fornero” (commi da 47 a 69 dell'art. 1 della Legge n. 92/2012) che, a far data dall'entrata in vigore della nuova riforma, non sarà più azionabile, il lavoratore presenterà ricorso privo di alcun elemento cognitivo circa i fatti giustificativi posti a base del licenziamento (Contra Pisani, La sanzione per i vizi formali e procedimentali del licenziamento secondo la Consulta: l'ars distinguendi dimenticata, in Riv. it. dir. lav., 2020, I, pp. 510-512). Appare evidente il vulnus al diritto di difesa del lavoratore e quindi siamo di fronte a una possibile questione di legittimità costituzionale per contrasto con l'art. 24 Cost. dell'art. 4d.lgs. n. 23/2015.

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