Licenziamento del whistleblower: la rilevanza del contesto nella valutazione della giusta causa
04 Luglio 2024
Massime La segnalazione di cui all'art. 54-bis del d.gs. 30 marzo 2001, n. 165 (cd. "whistleblowing") sottrae alla reazione disciplinare del soggetto datore di lavoro tutte quelle condotte che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale, siano funzionalmente correlate alla denunzia dell'illecito, risultando riconducibili alla causa di esonero da responsabilità disciplinare. Al fine di valutare la legittimità del licenziamento del whistleblower, bisogna considerare l'intero contesto in cui s'inserisce il provvedimento espulsivo, anche se l'addebito disciplinare non è direttamente collegato con le denunce che il dipendente ha proposto contro i superiori. Il caso Licenziamento per giusta causa del dirigente “whistleblower” La sentenza in commento tratta del ricorso, introdotto con Rito Fornero, da parte di un dirigente licenziato in tronco, per non aver curato l'impugnativa di un avviso di accertamento per l'importo di euro 4.000.000 notificato all'azienda, come invece avrebbe dovuto (o almeno così asseriva l'azienda) stante il suo compito di supportare l'organo amministrativo e la direzione generale. Il dirigente, dinanzi al Tribunale, sosteneva, in via principale, la natura ritorsiva del licenziamento irrogatogli, arma sguainata dall'azienda per punire un comportamento legittimo tenuto poco tempo addietro dal lavoratore: aver inviato rapporti all'ANAC ed alla Procura della Corte dei Conti della Campania, tramite i quali denunciava presunte irregolarità riferibili al vertice aziendale. Il Tribunale rigettava il ricorso, sulla falsa riga per cui la natura ritorsiva del licenziamento fosse da escludere, per la mera sussistenza della giusta causa. Il dirigente proponeva reclamo avverso la sentenza di prime cure. Nuovamente, però, vedeva rigettate le sue pretese per mano della Corte d'Appello di Napoli. Quest'ultima evidenziava la posizione di vertice, rivestita dal reclamante, nell'area amministrazione e finanza, che gli imponeva di attivarsi e di esercitare tutti i poteri necessari per fronteggiare la delicata situazione in cui si trovava coinvolta l'azienda e dunque, nel caso specifico, coordinarsi con l'Amministrazione per agire contro l'avviso di accertamento notificato all'azienda, dinanzi al quale, invece, era rimasto inerte. Pertanto, ritenuta la sussistenza di una causa giustificativa del licenziamento, la Corte territoriale riteneva superfluo l'esame del carattere ritorsivo del recesso. Si giungeva in Cassazione, ove i Giudici di legittimità ribaltavano la doppia conforme, alla luce della disciplina sul “whistleblowing” di cui all'art. 54-bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Le questioni Omessa valutazione del complessivo contesto all'interno del quale interveniva il recesso datoriale Leggendo la sentenza in commento l'attenzione si focalizza sulla precipua questione del licenziamento per giusta causa, dietro il quale si cela l'intento ritorsivo del datore di lavoro nei confronti di un dipendente, che si attiva per denunciare presunte condotte illecite, captate in occasione dell'attività lavorativa. I giudici di prime e seconde cure, offuscati dall'asserita presenza della giusta causa, avevano totalmente sorvolato sull'analisi del contesto all'interno del quale il licenziamento era stato irrogato: il dirigente whistleblower, nel corso degli anni, aveva presentato varie denunce ex art. 54-bis D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, alla Procura regionale della Corte dei Conti per la Campania ed alla Prefettura (l'ultima delle quali in data 2/10/2018 ed il recesso era intervenuto l'1.1.2019) aventi ad oggetto condotte illecite poste in essere dai vertici aziendali (e tra questi proprio dal Direttore sul quale, nella prospettazione del ricorrente, sarebbe ricaduta la competenza ad impugnare l'avviso di accertamento oggetto di causa). Inoltre, il lavoratore aveva collaborato nell'indagine avviata dalla Procura Regionale della Corte dei Conti Regione Campania nei confronti della azienda datrice. Quest'ultima era venuta a conoscenza delle denunce dopo aver ricevuto formali inviti a dedurre, inviati dalla Procura generale della Corte dei Conti a dirigenti e consiglieri di amministrazione dell'azienda. Proprio e casualmente subito dopo essere venuta a conoscenza delle segnalazioni del dirigente, la società datrice lo sottoponeva ad un progressivo ridimensionamento delle sue attribuzioni; veniva infatti "sollevato dalla responsabilità della Regolazione tariffaria e rapporti con le autorità competenti", tanto da essere indotto a presentare, già prima del provvedimento espulsivo, ulteriori esposti all'ANAC, sul presupposto di aver subito ritorsioni a causa delle sue segnalazioni e denunce. Tuttavia, del suddetto complessivo contesto, e dell'evidente mirino centrato sul lavoratore, il Tribunale prima, e la Corte d'Appello dopo, non si curavano, soffermandosi esclusivamente sulla sussistenza della giusta causa di licenziamento, che, a prescindere, era indice idoneo ad escluderne la natura ritorsiva. Le soluzioni giuridiche Sull'onere della prova della ritorsività del licenziamento del “whistleblower” La Corte di Cassazione cominciava con il ribadire i due principi cardine sui quali si fonda l'accertamento dell'intento ritorsivo del licenziamento: “In tema di licenziamento ritorsivo, il motivo illecito, determinante ed esclusivo, richiede il previo accertamento dell'insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento (cfr. Cass. n. 9468 del 2019; Cass. n. 6838 del 2023)”; proseguiva poi specificando la distribuzione dell'onere probatorio: “l'allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'illiceità del motivo unico e determinante (l' intento ritorsivo) che si cela dietro il negozio di recesso (Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 23149 del 2016; Cass. n. 26035 del 2018; Cass. n. 28399 del 2022; Cass. n. 3548 del 2023). Seguendo tale iter logico, la Corte di Cassazione procedeva, in primis, con lo smantellare la sussistenza della giusta causa, erroneamente affermata tanto in primo quanto in secondo grado. Veniva evidenziato come dai precedenti gradi di giudizio non fossero emersi con certezza i compiti attribuiti al dirigente, limitandosi la datrice di lavoro ad allegare l'omissione di “doverosi atti di ufficio”, non meglio precisati, che avrebbe giustificato il recesso. La lesione del vincolo fiduciario, così grave "da non consentire neppure la prosecuzione temporanea del rapporto", nel caso non poteva dirsi sussistente, in quanto veniva genericamente collegata dalla Corte territoriale alla negativa incidenza sugli interessi aziendali della condotta omissiva del lavoratore, per la qualifica ed il ruolo dallo stesso rivestito, ponendo la suddetta lesione non in relazione alla violazione di precisi obblighi contrattuali (neppure chiaramente esplicitati), ma in rapporto ad una imprecisata condotta non armonizzata con gli obiettivi aziendali, e senza che fosse chiarito quale effetto causale, nella sequenza procedimentale, essa abbia determinato. Pertanto, il datore di lavoro non aveva assolto all'onere sullo stesso gravante di dimostrare la giusta causa di recesso. Al riguardo, la Corte ribadiva che, in tema di licenziamento ritorsivo, l'accoglimento della domanda di accertamento della nullità è subordinata alla verifica che l'intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, essendo da escludere ogni giudizio comparativo fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 21465 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 6838 del 2023). Sul punto si evidenzia che la Corte d'Appello di Bologna, sez. Lavoro, con sentenza n. 406/19, depositata il 30 aprile, ha chiaramente precisato come “si è in presenza di un licenziamento ritorsivo e/o discriminatorio quando l'atto di recesso costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, che è tenuto a provare - anche mediante indizi e presunzioni - che il motivo oggettivo di licenziamento addotto dal datore di lavoro non solo è insussistente, ma all'evidenza artificiosamente creato e dedotto al solo fine di creare una parvenza di legittimità al recesso contrattuale e ciò costituisce un primo – e non irrilevante – elemento presuntivo della ritorsività del licenziamento. Trattasi, infatti, di prova non agevole, sostanzialmente fondata sull'utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione dell'inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”. Ciò che più rileva, però, è lo step successivo: la Corte, solo dopo aver escluso la sussistenza della giusta causa, dichiarava la fondatezza dei rilievi del ricorrente, attinenti all'omessa valutazione, da parte dei Giudici precedenti, dell'attività di whistleblower. Il Collegio poneva in risalto la contiguità temporale dell'irrogato provvedimento espulsivo rispetto all'avvenuta conoscenza delle denunce provenienti dal dirigente, al prospettato progressivo ridimensionamento delle sue attribuzioni, tanto che ancor prima del provvedimento espulsivo, il lavoratore inviava ulteriori esposti all'ANAC, sul presupposto di aver subito ritorsioni a causa delle sue segnalazioni e denunce. Una volta ricondotto il licenziamento all'interno del più ampio contesto sopra descritto, che avrebbe dovuto essere vagliato, la Suprema Corte così affermava: “la segnalazione ex art. 54-bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (cd. "whistleblowing") sottrae alla reazione disciplinare del soggetto datore tutte quelle condotte che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale, siano funzionalmente correlate alla denunzia dell'illecito, risultando riconducibili alla causa di esonero da responsabilità disciplinare di cui alla norma invocata”. In conclusione, nonostante il fatto omissivo che veniva contestato al ricorrente non appariva in sé direttamente collegabile alle denunce dallo stesso presentate, la Corte ribadiva il principio per cui: “è il contesto in cui l'addebito disciplinare si inserisce e il dedotto esautoramento di attribuzioni, anche in un'ottica di individuazione delle competenze del predetto, che assumono rilevanza al fine di meglio delineare la relativa responsabilità”. La Corte territoriale aveva errato, nel prescindere dalla contestualizzazione della vicenda all'interno della quale si era inserito il provvedimento espulsivo. La tutela da ritorsioni del “whistleblower” e precedenti orientamenti Nonostante il favorevole epilogo della vicenda, permangono alcune perplessità inerenti all'iter logico ed all'utilizzo fatto dalla Suprema Corte della normativa di riferimento. Occorre premettere che la legislazione speciale prevista dall'art. 54 bis commi 1 e 7 d.lgs. del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per il pubblico impiego, è stata abrogata e confluita nel nuovo d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24cd. “Decreto Whistleblowing”. Nella sentenza in commento la Suprema Corte applicava la summenzionata disciplina in quanto vigente all'epoca dei fatti. L'art. 54-bis del Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, rubricato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti)”, prevede che: “1. Il pubblico dipendente che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all'articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all'autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. L'adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all'ANAC dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L'ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza”. Ciò che più è significativo è il comma 7 del menzionato dispositivo, il quale espressamente stabiliva che: “7. È a carico dell'amministrazione pubblica o dell'ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente sono nulli”. Ebbene, è palese come l'art. 54-bis suddetto, al comma 7, prevedesse un divieto di ritorsione, una presunzione relativa di nullità, nonché l'inversione dell'onere della prova a carico del datore di lavoro inerentemente alle rappresaglie attuate nei confronti del denunciante. Quest'ultimo, secondo il dettame normativo, non dovrebbe limitarsi a fornire la prova della giustificazione del recesso, ma gli sarebbe richiesto uno sforzo ulteriore, dare dimostrazione del fatto che le rappresaglie siano state motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa del dipendente. Tuttavia, di tale onere della prova “rafforzato”, nulla viene accennato dalla Suprema Corte, che si è limitata a rilevare l'omessa prova, nonché l'insussistenza della giusta causa, elementi forieri della ritorsione. Anzi, dalla giurisprudenza citata in sentenza, sull'onere di allegazione da parte del lavoratore riguardo al motivo illecito determinante, l'inversione dell'onere probatorio, in favore del denunciante, sembra esser stato dimenticato, seppure rientrando dalla finestra della “necessarietà della valutazione dell'intero contesto” nel quale l'atto ritorsivo va a collocarsi. Eppure, la tutela rafforzata del whistleblower già emergeva dalle disposizioni contenute nella Direttiva 2019/1937, che disciplina la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione. Nello specifico, il considerando n. 93, stabilisce che: “È possibile che per giustificare la ritorsione siano addotti motivi diversi dalla segnalazione, nel qual caso può essere molto difficile per le persone segnalanti dimostrare il nesso tra la segnalazione e la ritorsione, mentre gli autori delle ritorsioni possono disporre di maggiori poteri e risorse per documentare le loro azioni e le loro ragioni. Pertanto, una volta che la persona segnalante abbia dimostrato, prima facie, di avere effettuato una segnalazione o divulgazione pubblica a norma della presente direttiva e di aver subito un danno, l'onere della prova dovrebbe spostarsi sulla persona che ha compiuto l'azione pregiudizievole, che dovrebbe quindi essere tenuta a dimostrare che l'azione intrapresa non era in alcun modo connessa alla segnalazione o alla divulgazione pubblica”. A sua volta, l'articolo 21, quinto comma della medesima Direttiva 2019/1937, così statuisce: “Nei procedimenti dinanzi a un giudice o un'altra autorità relativi a un danno subito dalla persona segnalante, e a condizione che tale persona dimostri di aver effettuato una segnalazione oppure di aver effettuato una divulgazione pubblica e di aver subito un danno, si presume che il danno sia stato compiuto per ritorsione a seguito di tale segnalazione o divulgazione. In questi casi, spetta alla persona che ha adottato la misura lesiva dimostrare che tale misura è imputabile a motivi debitamente giustificati”. Dunque, per l'oggettiva difficoltà di provare la ritorsività degli atti, veniva introdotta una presunzione relativa di nullità dei medesimi, posti in essere contro il whistleblower. In tale ottica, ed attenendoci al dettato normativo, il nostro dirigente avrebbe dovuto solo allegare di aver effettuato una segnalazione secondo le modalità e i canali indicati dalla legge, e di aver subito una misura pregiudizievole cronologicamente successiva. A carico del datore sarebbe spettato il ben più gravoso onere di dimostrare che le misure adottate fossero state determinate da motivi legittimi, non legati alla segnalazione. La Suprema Corte in commento non è tuttavia la prima ad aver fatto un uso distorto del meccanismo presuntivo della ritorsione. Anche in precedenza, il Tribunale di Milano, sez. lav., 13 dicembre 2023, n. 3854, aveva declinato il meccanismo dell'inversione dell'onus probandi non tanto nella presunzione relativa di nullità dell'atto, ovvero nella presunzione di illegittimità posta a favore del lavoratore, quanto più nella presunzione di causalità tra segnalazione e provvedimento datoriale (si veda al riguardo nella medesima Rivista, D. Tambasco, Whistleblowing: presunzione di ritorsività od onere probatorio interamente a carico del segnalante? Le opposte pronunce di merito in materia di misure ritorsive). Sulla base di ciò, il Giudice milanese aveva riconosciuto in favore del ricorrente la tutela ex art. 700 c.p.c., ma al contempo aveva respinto la richiesta dell'accertamento della nullità, ex art. 54-bis commi 1 e 7 d.lgs. n. del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, dei provvedimenti di destituzione e di sospensione dal servizio irrogati successivamente alla presentazione di plurime segnalazioni di illeciti aziendali. In particolare, il lavoratore sosteneva che, in ragione di tale consequenzialità cronologica, dovesse essere presunta la ritorsività delle misure adottate, salvo prova del contrario da parte della società datrice. Quest'ultima, si aggiunga, non era nemmeno riuscita a dimostrare la legittimità dei provvedimenti, che venivano dunque annullati per infondatezza nel merito. Tuttavia, il Tribunale di Milano non riconosceva la natura ritorsiva degli atti, per la debolezza del collegamento temporale tra le denunce presentate dal lavoratore ed i successivi provvedimenti adottati dalla società datrice, in quanto le prime segnalazioni risalivano a circa quattro anni prima. Dall'altro lato, essendosi il dipendente limitato ad allegare la consequenzialità cronologica dell'atto rispetto alle segnalazioni, non aveva fornito la prova del motivo ritorsivo illecito quale unica ragione del recesso, dimostrazione definita, appunto, non esaustiva. La sentenza del Tribunale di Milano, in verità, è stata negativamente opinata in quanto negazionista sulla sussistenza di una vera e propria inversione dell'onus probandi. Precisamente, così il Giudice milanese: “la norma, infatti, non modifica le regole di riparto dell'onere della prova, né introduce una presunzione relativa di correlazione causale tra segnalazione e adozione di misure aventi effetti negativi per il dipendente” (…) “l'onere della prova in ordine al nesso di derivazione tra segnalazione e misura pregiudizievole grava interamente sulla parte che lo allega, alla stregua della regola generale di riparto dell'onere probatorio ex art. 2697 c.c., non derogata dalla disposizione speciale in esame”. Un barlume di speranza per il “suonatore di fischietto” si è intravisto con la sentenza del Tribunale di Salerno, Sez. Lav., 10 gennaio 2023, n. 13, definita quale unica sentenza ad aver fatto corretta applicazione dell'inversione dell'onere probatorio previsto dalla disciplina normativa sulla tutela del denunciante contro le ritorsioni. Nella fattispecie affrontata, un lavoratore richiedeva al Tribunale salernitano di accertare e dichiarare la nullità del provvedimento di mutamento del luogo di lavoro e delle mansioni, in quanto avente natura ritorsiva, a fronte del fatto che lo stesso, soli due mesi prima, aveva inoltrato all'Organismo di Vigilanza una segnalazione interna, tramite la quale denunciava la mancata attuazione, a livello aziendale, dei principi di cui all'art.19 del d.lgs. n. 175/2016 “Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica”. Il Tribunale, semplicemente, sottolineava il mancato assolvimento da parte della datrice di lavoro di “fornire la specifica dimostrazione che il mutamento delle mansioni e del luogo di lavoro del dipendente fosse dovuto a ragioni estranee alla effettuazione della segnalazione all'Organismo di Vigilanza ai sensi dell'art. 6, comma 2-bis, del d.lgs n. 8 giugno 2001, n. 231”. Veniva, infatti, ritenuto generico e dunque insufficiente il mero richiamo della controparte a non meglio specificate “diverse esigenze organizzative”, inidonee ad adempiere al rigoroso onere probatorio prescritto dall'art. 6, comma 2-quater d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che richiede al datore di lavoro di dimostrare non solo la fondatezza del provvedimento, bensì “un quid pluris, rappresentato dalla dimostrazione dell'estraneità rispetto alla segnalazione, ovverosia “l'esistenza di effettive ragioni alternative, estranee alla formulazione della segnalazione”. Tanto rilevato, il provvedimento veniva dichiarato nullo, in quanto ritorsivo, ed il Tribunale di Salerno, per la prima volta, faceva corretta applicazione del meccanismo della tutela rafforzata prevista per il whistleblower e della relativa inversione dell'onere probatorio (si veda al riguardo nella medesima Rivista, D. Tambasco, Whistleblowing: presunzione di ritorsività od onere probatorio interamente a carico del segnalante? Le opposte pronunce di merito in materia di misure ritorsive). Dopo aver scorto due pronunce di merito, di certo rilevanti in materia, torniamo ora alla giurisprudenza di legittimità. Ai fini di un esaustivo quadro giurisprudenziale, occorrerà menzionare Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 9148 del 31 marzo 2023. La fattispecie affrontata riguardava un'infermiera professionale, occupata in un complesso ospedaliero pubblico. Ella segnalava al datore irregolarità concernenti altri colleghi. Subiva un procedimento disciplinare per aver essa stessa svolto attività irregolare (attività privata non autorizzata per ben otto anni), per la quale veniva sospesa per quattro mesi dal lavoro. L'infermiera si opponeva alla sanzione ritenendola «ritorsiva» ed invocava la tutela prevista per i segnalanti ai sensi dell'art. 54-bis d.lgs. del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, prevista dal Testo Unico del pubblico impiego, oggi recepita nel d.lgs. 24/2023. Tuttavia, la Corte di Cassazione precisava che: «l'applicazione al dipendente di una sanzione per comportamenti illeciti propri debba restare al di fuori delle tutele offerte dalla norma, che non esime da responsabilità chi commetta un illecito disciplinare per il solo fatto di denunciare la commissione del medesimo fatto o di fatti analoghi ad opera di altri dipendenti. La Corte ha così concluso che, sebbene nulla vieti all'ordinamento di riconoscere eventuali attenuanti oppure di valorizzare il “pentimento” sotto il profilo della valutazione di proporzionalità, la segnalazione non costituisce un'esimente rispetto a tali autonomi illeciti». Osservazioni Dopo un rapido sguardo al panorama giurisprudenziale sul tema, è lampante come nella sentenza in commento non vi sia alcun cenno a quel famoso quid pluris richiesto al datore di lavoro, rappresentato dalla dimostrazione dell'estraneità, in tal caso del recesso per giusta causa, rispetto alle segnalazioni di anno in anno avanzate dal dirigente, ovvero “l'esistenza di effettive ragioni alternative, estranee alla formulazione della segnalazione”. Il Collegio, infatti, dichiarava la nullità del licenziamento solo sulla scorta dell'insussistenza della giusta causa, e sulla contiguità temporale della massima sanzione espulsiva rispetto alle segnalazioni, alle quali era susseguito oltretutto un demansionamento del whistleblower. Sicuramente è stato valorizzato il contesto nel quale si collocava il recesso, che deve essere necessariamente vagliato ai fini della declaratoria di ritorsività, ma cosa ne è stato dell'onere della prova attenuato del lavoratore? Forse i Giudici di legittimità hanno omesso volutamente una puntualizzazione in tal senso, per scongiurare la china scivolosa dello scudo del denunciante quale via libera per la commissione, a sua volta, di illeciti? (si veda Cass. 9148/2023 succitata). Resta il fatto che l'unico ad aver affrontato espressamente il tema, e ad aver fatto corretta applicazione del meccanismo normativo dell'inversione dell'onere probatorio altresì rafforzato, risulta essere ancora solo il Tribunale di Salerno, Sez. Lav., 10 gennaio 2023, n. 13 sopra citato. C'è da dire che probabilmente spirerà nuovo vento, posto che il d.lgs. n. 24/2023, attuativo della direttiva sul whistleblowing, ha provveduto a modificare direttamente l'art. 4 Legge 15 luglio 1966, n. 604 sul licenziamento discriminatorio, che è oggi il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza a un sindacato, dalla partecipazione ad attività sindacali o conseguente all'esercizio di un diritto ovvero alla segnalazione, alla denuncia nel rispetto delle condizioni all'autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del decreto legislativo attuativo della Dir. UE n. 2019/1937 del 23 ottobre 2019 (art. 24, c. 3, D.Lgs. n. 24/2023). All'uopo, è stata disposta la nullità del licenziamento ritorsivo, del demansionamento, dei provvedimenti disciplinari e di ogni altra condotta o azione volta a perseguire il segnalante. Si tratta di una nullità sui generis, in quanto prevista espressamente dalla legge, e quindi non subordinata alla unicità e determinatezza del motivo ritorsivo posto quale ragione a sostegno del recesso. Pertanto, nelle ipotesi di licenziamento ritorsivo del whistleblower, l'atto di recesso datoriale risulterebbe sanzionabile dalla declaratoria di nullità anche in assenza dei requisiti richiesti dal combinato disposto degli artt. 1418, c. 2, e 1345 c.c. Di conseguenza, prendendo l'esempio del nostro dirigente, non avrebbe dovuto dimostrare la ritorsione quale motivo illecito determinante del licenziamento, in quanto la nullità derivante dal divieto di discriminazione discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed Europeo, senza passare attraverso la mediazione dell'art. 1345 c.c.. Forse è il caso di rimarcare che però, già prima della modifica dell'art. 4 Legge 15 luglio 1966, n. 604, ad opera del d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24, l'onere probatorio gravante sul lavoratore a fronte di atti ritorsivi a seguito di whistleblowing, era stato elaborato appositamente per risultare affievolito, tanto dalla Direttiva Ue 2019/1937, quanto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dal d.lgs. del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, dalla L. 30/11/2017n. 179. La giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire come la ratio della protezione assicurata al segnalante fosse «esclusivamente quella di tutelare il soggetto, legato da rapporto pubblicistico con l'amministrazione, che rappresenti fatti antigiuridici appresi nell'esercizio del pubblico ufficio o servizio» (Cass. 21.5.2018, n. 35792, S. pen., in GDir., 2018, n. 133, 7 ss.), e fosse finalizzata a evitare che il dipendente, venuto a conoscenza di condotte illecite in ragione del rapporto di lavoro, omettesse di segnalarle per il timore di subire conseguenze pregiudizievoli (C. Edu 27 febbraio 2018, n. 1085/2010, in GDir., 2018, n. 20, ISU cui si rinvia a Vitarelli 2023) (Cfr. A. Violante, Tutela cautelare al whistleblower: il tribunale di Milano interviene con una decisione innovativa” in Riv. giur. lav. 1/2024). Ciononostante, le tutele riservate al whistleblower, ed in special modo l'inversione dell'onere probatorio, sono rimaste sostanzialmente strumenti quasi del tutto inutilizzati. |