Discriminazione indiretta: parametri comunitari e bilanciamento di interessi nel recesso per superamento del periodo di comporto

05 Luglio 2024

Il presente contributo offre uno spunto di riflessione sul consolidato orientamento, di matrice europea ma fatto proprio anche dalla Cassazione, sulla nullità del licenziamento discriminatorio intimato al dipendente disabile (inteso come portatore di handicap ovvero malato per come finito dalla Convenzione dell'Onu) per superamento del periodo di comporto, qualora venga applicato quello ordinario. La giurisprudenza, al fine di tutelare la posizione dei dipendenti in particolare situazione di svantaggio, vieta al datore di lavoro di applicare il medesimo trattamento previsto per gli altri dipendenti, e di attuare ogni possibile accomodamento ragionevole per mantenere il dipendente in organico, operando la massima diligenza al fine di valutare la posizione di quest'ultimo, prima di attuare il recesso.  

Massime

Nozione di discriminazione indiretta e mancata inversione dell'onere probatorio ex art. 40 d.lgs. n. 198/2006

Costituisce discriminazione indiretta il licenziamento intimato al lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, calcolato sull'ordinario comporto previsto dal CCNL applicato, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, converte il criterio, in apparenza neutro, del computo del comporto breve, in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto, siccome in posizione di particolare svantaggio.

Non costituisce, ai sensi dell'art. 40 d.lgs. n. 198/2006, inversione dell'onere probatorio tra datore di lavoro e dipendente disabile, in seno al licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Il caso

Discriminazione indiretta subita dipendente disabile licenziato per superamento del periodo di comporto

La Corte di Appello di Firenze rigettava il reclamo del datore di lavoro avverso la sentenza di primo grado, di nullità del licenziamento, siccome discriminatorio, per superamento del periodo di comporto, intimato al lavoratore disabile in quanto assente per malattia per 458 giorni. La Corte Territoriale, come il Tribunale di prime cure, hanno ritenuto indirettamente discriminatorio il licenziamento poiché il dipendente era affetto da una documentata patologia oncologica cronica dal 2010, in ragione dell'insufficienza del periodo di comporto previsto dal Ccnl, volto a garantire un arco temporale differenziamento per i periodi imputabili alla disabilità, non potendo altresì tale situazione essere bilanciata da un ulteriore periodo di aspettativa.

Inoltre, la Corte d'Appello ha accertato

i) la carenza dell'elemento soggettivo del datore di lavoro, attesa la piena consapevolezza del fattore di handicap del lavoratore

ii) la riconducibilità delle assenze alle cure per malattia, posto che il datore di lavoro non si era attivato per effettivamente fugare ogni dubbio circa la completa riconducibilità di queste alle assenze.

Il datore di lavoro, dunque, ricorreva per Cassazione.

Le questioni 

Nullità del licenziamento intimato al disabile nel caso di applicazione del comporto ordinario e onere probatorio

Possibile nullità del licenziamento discriminatorio per superamento del periodo di comporto intimato al lavoratore affetto da disabilità, in assenza di una previsione che possa indicare un comporto ad hoc per tali i dipendenti, considerando quello normalmente previsto dalla norma comparativa insufficiente a garantire maggiori tutele per le categorie di lavoratori svantaggiati.

Inversione o attenuazione dell'onere probatorio di cui all'art. 40 d.lgs. n. 198/2006.

Le soluzioni giuridiche

Accomodamento ragionale, comporto non ordinario e attenuazione dell'onere probatorio

La Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso del datore di lavoro, ha chiarito, applicando l'orientamento ormai consolidato sul tema, come costituisce discriminazione indiretta l'applicazione del comporto ordinario al dipendente disabile, rispetto agli altri dipendenti, qualora i giorni di assenza siano riconducibili alla malattia e dalle cure necessarie per questa.

La soluzione qui operata parte dall'assunto che il comporto è riconducibile al punto di equilibrio tra l'interesse del lavoratore a potersi ristabilire dall'infortunio o dalla malattia in un tempo congruo per tornare al lavoro nel pieno delle proprie forze, e l'interesse del datore di lavoro a non dover sopperire per un tempo indefinito dell'assenza del lavoratore, dovendo sopportare costi e modifiche alla propria organizzazione aziendale.

I Giudici di Piazza Cavour hanno quindi ribadito come, in un'ottica di bilanciamento tra interesse delle parti in questione, la discriminazione indiretta opera in modo oggettivo ed è irrilevante l'intento soggettivo del datore. Non è dunque decisivo l'assunto per cui il licenziamento possa essere legittimo in caso di mancata messa a conoscenza della disabilità da parte del lavoratore, poiché opera obiettivamente in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoro disabile.

Il datore di lavoro non è sollevato da porter venire a conoscenza della disabilità del dipendente anche con la normale diligenza, attuando ogni atto idoneo nel poter valutare con obiettività se le assenze del lavoratore siano i meno dovute alla malattia, in relazione del conteggio del comporto. La richiesta di informazioni, secondo il ragionamento della Corte, è un elemento imprescindibile del da parte del datore per adottare ogni accomodamento ragionevole, senza comportare oneri finanziari spropositati, che consenta di evitare il licenziamento del disabile.

In ultimo la Corte, con riferimento all'inversione dell'onere probatorio di cui all'art. 40 d.lgs. n. 198/2006, ha chiarito come in questi casi non viene stabilito un inversione dell'onere probatorio, ma una attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del lavoratore, prevedendo a carico del datore di lavoro, anche in funzione della normativa comunitaria in materia, l'onere di fornire la prova dell'inesistenza del discriminazione, a condizione che il lavoratore abbia fornito elementi di fatto, idonei a fondatore, in termini previsi e concordanti, la presunzione/rendere plausibile l'esistenza della discriminazione.  

Osservazioni

Orientamento giuridico di matrice europea sulla tutela della disabilità in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto e adeguamento dell'ordinamento italiano

La soluzione giuridica operata dalla Corte di Cassazione nasce da un apparato normativo e giurisprudenziale comunitario ed internazionale ben consolidato nel tempo sul concetto di disabilità e tutela del lavoro, che fornisce importanti spunti di riflessione.

La nozione di disabilità si fonda su 3 pilastri

1) Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con L. n. 18/2009 ("Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità"), e

2) la Direttiva UE 2000/78/CE;

3) Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 “relativa alla conclusione, da parte della Comunità Europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità" (2010/48/CE)”. 

In concerto, la Corte di Giustizia UE (CGUE) ha ritenuto che le stesse direttive antidiscriminatorie debbano essere interpretate alla luce della Convenzione ONU.

Già con la sentenza 11 aprile 2013 in cause riunite C-335/11 e C337/11, HK Danmark, la CGUE ha chiarito che la nozione di "handicap" di cui alla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione. In tale pronuncia, la CGUE ha sottolineato che la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un'interpretazione conforme alla Convenzione; infatti, la nozione di "handicap" non è definita dalla direttiva 2000/78 stessa (cfr. sentenza 11 luglio 2006 in causa C-13/05, Chacón Navas). Peraltro, la Convenzione dell'ONU, ratificata dall'Unione Europea con decisione del 26 novembre 2009, alla sua lettera e) riconosce che "la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri".

In tal modo, l'art. 1, comma 2, di tale Convenzione dispone che sono persone con disabilità "coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri". Inoltre, dall'art. 1, comma 2, della Convenzione dell'ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere "durature" (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1° dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42). Tra gli indizi che consentono di considerare "duratura" una limitazione figura in particolare la circostanza che, all'epoca del fatto asseritamente discriminatorio, “la menomazione dell'interessato non presentava una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o, (...), il fatto che tale menomazione poteva protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona", mediante una valutazione essenzialmente di fatto compiuta dal giudice, basata "sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone, in particolare sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona, redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali" (CGUE, sentenza, 1.12.2016, DAOUIDI, cause riunite C-395/2015, punti 54-57, di recente richiamata da Cass. n. 10568 del 2024 e 14316/2024).

Ne consegue che la direttiva 2000/78/CE mira a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia; sarebbe, infatti, in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della causa dell'handicap. In proposito, la CGUE ha osservato che un lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare il periodo di preavviso ridotto (rilevante secondo la legislazione danese in materia) rispetto ad un lavoratore non disabile, perché, rispetto ad un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap. Pertanto, egli corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per malattia, con la conseguenza che la normativa in discussione in tale causa è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, dunque, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sull'handicap ai sensi dell'art. 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78. Occorre perciò esaminare se tale disparità di trattamento sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, se i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e se essi non vadano al di là di quanto necessario per conseguire l'obiettivo perseguito dal legislatore.

Inoltre, con la sentenza 18 gennaio 2018, in causa C-270/16, la CGUE ha, appunto, affermato che la definizione di discriminazione indiretta contenuta nella direttiva UE osta a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro giustificate e dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, salva verifica di quanto necessario per raggiungere l'obiettivo legittimo di lotta contro l'assenteismo. Ha difatti osservato che un trattamento sfavorevole basato sulla disabilità contrasta con la tutela prevista dalla direttiva 2000/78 unicamente nei limiti in cui costituisca una discriminazione ai sensi dell'art. 2, paragrafo 1, della stessa. Infatti, il lavoratore disabile che rientri nell'ambito di applicazione di tale direttiva deve essere tutelato contro qualsiasi discriminazione rispetto a un lavoratore che non vi rientri. Ha confermato, a tal proposito, la constatazione che un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente.

La CGUE ha specificato, quanto alle problematiche di morbilità intermittente eccessiva ed ai costi connessi per le imprese, che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo; e che la lotta all'assenteismo sul lavoro può essere riconosciuta come finalità legittima, ai sensi dell'art. 2, paragrafo 2), lettera b), i), della direttiva 2000/78, dal momento che costituisce una misura di politica occupazionale, senza tuttavia ignorare, nella valutazione della proporzionalità dei mezzi, il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione.

In particolare, nei precedenti citati, è stato precisato, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia ivi richiamata, che il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell'assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, perciò, vietata.

In una ottica di bilanciamento tra l'interesse protetto del lavoratore disabile con la legittima finalità di politica occupazionale, la contrattazione collettiva, per sfuggire al rischio di trattamenti discriminatori, dovrebbe prendere in specifica considerazione la posizione di svantaggio del disabile e non è sufficiente una disciplina negoziale che valorizzi unicamente il profilo oggettivo della astratta gravità della patologia: deve, infatti, essere considerato anche e soprattutto l'aspetto soggettivo della disabilità in relazione alla quale adottare gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla Dir. 2000/78/CE e dall'art. 3 comma 3-bisd.lgs. n. 216/2003. È assolutamente attuale come la contrattazione collettiva, fatti salvi sporadici casi, non presenti nessuna previsione che possa effettivamente tutela il personale disabile affinché possa avere consapevolezza a monte del trattamento a lui riservato. Una previsione del genere sarebbe di supporto anche lato datoriale potendo fugare ogni ragionevole dubbio su come potersi muovere nel caso in cui si dovesse procedere al recesso.

Ciò perché anche la patologia non grave, ma in nesso causale diretto e immediato con la disabilità, implica per il lavoratore disabile la particolare protezione riconosciuta dalla normativa internazionale, euro-unitaria e statale più volte richiamata nelle pronunce di questa Corte qui condivise. È stato più volte osservato come le disposizioni contrattuali collettive non risultano idonee ad escludere il rischio di una ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap, non prevedendo una differenziata soglia di tollerabilità per i lavoratori disabili rispetto a quella prevista per coloro che tali non sono.

La conoscenza o conoscibilità da parte del datore di lavoro della condizione di disabilità

Ulteriore riflessione deve essere affrontata con riferimento alla tematica della conoscenza o conoscibilità da parte del datore di lavoro della condizione di disabilità e della riferibilità delle assenze per malattia a detta condizione; tale questione si pone, rispetto a quello della adozione degli accorgimenti ragionevoli, su di un piano logico, in modo immediatamente antecedente. Ciò che viene in rilievo è, pertanto, l'effetto discriminatorio e non la condotta, come invece avviene per la discriminazione diretta e, quindi, esula ogni problematica sul requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio.

Sotto questo profilo, l'orientamento maggioritario in giurisprudenza ha chiarito come senza dubbio non è decisivo l'intento discriminatorio, operando la discriminazione obiettivamente in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria dei disabili; tuttavia, non può negarsi che possa assumere rilevanza la conoscenza o la conoscibilità di un fattore discriminatorio, ai fini dell'accertamento della sussistenza di una esimente per il datore di lavoro al fine di rendere praticabili gli accomodamenti ragionevoli.

Va sottolineato, infatti, che, proprio per le discriminazioni indirette, la Direttiva in materia stabilisce una causa di giustificazione specifica nel caso di handicap (art. 2, paragrafo 2, b), ii), e cioè quando il datore di lavoro "sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, misure per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi"; in attuazione, con l'art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003, il legislatore nazionale, nel 2013, ha imposto ad ogni datore di lavoro privato e pubblico, di "adottare accomodamenti ragionevoli", salvo che richiedano oneri finanziari sproporzionati.

Il presupposto della conoscenza dello stato di disabilità o la possibilità di conoscerlo secondo l'ordinaria diligenza incide, evidentemente, sulla possibilità che il datore di lavoro possa fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti da adottare e, quindi, rappresenta un momento indispensabile nella valutazione della fattispecie.

Con riguardo a tale aspetto, possono enuclearsi due ipotesi in caso di licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto: la prima, in cui il datore di lavoro abbia colpevolmente ignorato la disabilità del dipendente; la seconda, in cui il fattore di protezione, pur non risultando espressamente portato a conoscenza del datore di lavoro, avrebbe potuto essere ritenuto reale secondo un comportamento di questi improntato a diligenza.

Nella prima ipotesi rientrano certamente i casi in cui la disabilità sia conosciuta dal datore di lavoro per essere, per esempio, il lavoratore stato assunto ai sensi della legge n. 68/1999 ovvero perché il lavoratore stesso ha rappresentato, nella comunicazione delle assenze o in qualsiasi altro modo, la propria situazione di disabilità alla parte datoriale. Nella seconda, invece, vanno compresi i casi in cui, pur in presenza di una formale omessa conoscenza, la stessa non può ritenersi incolpevole perché il datore di lavoro era in grado di averne comunque consapevolezza per non avere, ad esempio, effettuato correttamente la sorveglianza sanitaria ex art. 41 del d.lgs. n. 81/2008 ovvero perché le certificazioni mediche e/o la documentazione inviate erano sintomatiche di un particolare stato di salute costituente una situazione di handicap come sopra delineata dalla normativa in materia. In entrambi i contesti, per il datore di lavoro sorge, prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, un onere di acquisire informazioni - cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore - circa la eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità e per valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto (cfr.Cass. n. 11731 del 2024, par. 7.2).

Solo a titolo esemplificativo può ipotizzarsi un allungamento del periodo di comporto ex art. 2110, comma 2, c.c. o l'espunzione dal comporto di periodi di malattia connessi allo stato di disabilità ovvero altre misure da scegliere in relazione alla particolarità della fattispecie.  L'onere di acquisire informazioni per il datore di lavoro e la cooperazione del lavoratore, invece, trovano conforto nell'art. 2 della Convenzione ONU secondo cui è una forma di discriminazione "il rifiuto di accomodamento ragionevole", e può rifiutarsi solo ciò che risulta oggetto di una richiesta, di una istanza.

Anche nel Commento generale n. 6, adottato nel 2018, dal Comitato per i diritti delle persone con disabilità (ONU), si afferma che: "è connaturato alla nozione di accomodamento ragionevole che l'obbligato entri in dialogo con l'individuo con disabilità". Il Comitato definisce "l'obbligo di fornire soluzioni ragionevoli un dovere reattivo individualizzato che viene attivato nel momento in cui viene fatta la richiesta di accomodamento".

Appare pure significativo che, nelle conclusioni rese dall'Avvocato Generale nella causa innanzi alla Corte di Giustizia C 270/16 Ruiz Conejero contro Ferroser Servicios Auxiliares SA e Ministerio Fiscal (CGUE sentenza 18 Gennaio 2018), si affermi che il datore di lavoro "è tenuto a prendere provvedimenti appropriati per prevedere soluzioni ragionevoli ai sensi dell'articolo 5 della menzionata direttiva (...) qualora un lavoratore sia affetto da una disabilità e il suo datore di lavoro sia o dovrebbe ragionevolmente essere a conoscenza di tale disabilità". Del pari significativo è che l'art. 17 del decreto legislativo n. 62 del 3 maggio 2024, di attuazione della legge delega n. 227/21 - non applicabile alla fattispecie ma che riforma l'intera materia della disabilità - nell'introdurre l'art. 5-bis alla legge n. 104 del 1992, stabilisce che, "La persona con disabilità (...) ha facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, (tra gli altri) ai soggetti privati l'adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta" e partecipando "al procedimento dell'individuazione dell'accomodamento ragionevole".

L'interlocuzione ed il confronto tra le parti: una fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto

L'interlocuzione ed il confronto tra le parti, che si pongono su di un piano logico quale presupposto per adottare gli accomodamenti ragionevoli, rappresentano, pertanto, una fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, proprio "al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva" e, "per verificare l'adempimento o meno dell'obbligo legislativamente imposto dal comma 3-bis", "occorre avere presente il contenuto del comportamento dovuto"; ciò perché "esso si caratterizza non (solo) in negativo, per il divieto di comportamenti" discriminatori, "quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volto alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa" al disabile. Quindi il datore è chiamato a provare di aver compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiuri il licenziamento avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto (Cass. n. 6497 del 2021).

Resta inteso che il comportamento non collaborativo del dipendente, sebbene sia a carico del datore di lavoro informarsi sullo stato di malattia secondo buona fede, potrà essere comunque valutato per un obiettivo discernimento sui canoni di correttezza e buona fede del lavoratore, in concerto con ogni eventuale elemento di fatto idoneo nelle valutazioni sull'inesistenza della discriminazione (indiretta) del recesso dal rapporto di lavoro. L'attività di informazione del datore di lavoro dovrà comunque avvenire nei limiti del diritto alla riservatezza ed alla privacy del lavoratore, non violando la sua sfera giuridica personale. In tal senso, non mancano pronunce delle Corti di merito che postulano l'onere dal dipendente di comunicare al datore di lavoro la malattia, e quali assenze siano ricollegabili alla disabilità sofferta, giustificando la legittimità del licenziamento in caso di mancata comunicazione (cfr. Corte d'Appello di Torino Sent. n. 604/2021, Tribunale di Vicenza Sent. 181/2022 – sentenza tuttavia superate dagli approdi più recenti della Corte di Cassazione, come Sentenze nn. 14402 15882 del 2024).

L'onere della prova

Meritano, infine, di dover essere poste delle osservazioni quanto al profilo dell'onere della prova. La Corte di Cassazione, di fatto, si è conformata all'orientamento prevalente e consolidato, secondo cui, in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (Cass. n. 23338/2018, in tema di recesso). Infatti, nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui al d.lgs. n. 216 del 2003, art. 4, che non stabiliscono tanto un'inversione dell'onere probatorio, quanto, piuttosto, un'agevolazione del regime probatorio in favore del lavoratore, prevedendo una "presunzione" di discriminazione indiretta per l'ipotesi in cui abbia difficoltà a dimostrare l'esistenza degli atti discriminatori; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta (Cass. n. 1/2020; cfr. anche, in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità, Cass. n. 9870/2022).

In conclusione, la sentenza in commento fa propri tutti gli elementi previsti dagli approdi giurisprudenziali in materia – di matrice europea – sul tema della discriminazione indiretta operata nei confronti del lavoratore disabile (sia portatore di handicap, ma anche malato secondo i canoni della Convenzione dell'ONU), nel caso in cui questi venga licenziamento per superamento del periodo di comporto. Tuttavia, è stata palesata una inadeguatezza della normativa italiana, sia nazionale ma soprattutto comparativa, nel poter porre indicare dei punti la materia volti a tutelare effettivamente le ragioni di entrambe le parti in causa.  

Questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare, come ricordato nelle sentenze della CGUE citate, una finalità legittima di politica occupazionale, ed in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.

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