Violazione del diritto di visita e culto dei propri cari defunti: come si quantifica il danno risarcibile?
08 Luglio 2024
Una figlia cita dinanzi al Tribunale di Milano la propria madre, colpevole di averle nascosto di aver disperso le ceneri del marito, morto e cremato nel 2003 – nonostante quest'ultimo non ne avesse mai espresso la volontà – e di averla ingannata per vent'anni, facendole credere che l'urna presso cui la figlia si recava in visita contenesse ancora le ceneri del padre, per poi addirittura impedirle – a partire dal 2014 – di visitare l'urna a seguito di uno screzio familiare. La figlia, dunque, chiede il risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla condotta della madre. Nel caso di specie, il Tribunale non tarda a ravvisare la lesione di un diritto tutelato costituzionalmente: il diritto secondario al sepolcro, ossia il diritto dei parenti e dei cari di visitare ed onorare il luogo di sepolcro del de cuius, accedendovi e impedendo qualsiasi alterazione che arrechi pregiudizio al rispetto dovuto a quella spoglia. Tale diritto ha natura personalissima ed è intrasmissibile, poiché concerne l'aspetto spirituale dell'individuo, nonché la parte più alta e fondamentale del patrimonio affettivo della comunità. Per questi motivi, trova fondamento negli artt. 2,13 e 19 della Costituzione, che tutelano il diritto al culto dei defunti – quale inalienabile ed intangibile estrinsecazione della umana personalità – l'inviolabilità della libertà personale, la libertà di religione e delle partiche che ne sono espressione. Il Foro ambrosiano, dunque, riconosce da parte della madre la lesione – irreparabile – del diritto secondario al sepolcro in capo all'attrice, con conseguente risarcimento del danno non patrimoniale, il quale si estrinseca nel c.d. “danno morale”, ossia la sofferenza interiore, il dolore provato dall'individuo e nel c.d. “danno esistenziale” (o danno dinamico-relazionale), che consiste nell'impatto modificativo e peggiorativo della vita del soggetto leso (cfr. Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901 e Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513 – la c.d. “ordinanza decalogo”). Il Tribunale, dunque, ritenuti comprovati sia il danno da sofferenza interiore che quello dinamico-relazionale, a causa delle peculiarità della fattispecie concreta e dell'assenza di precedenti giurisprudenziali, si è visto costretto a liquidare il danno mediante il criterio equitativo ex art. 1226 c.c., stimandolo a 50.000 euro. |