Appalto e onere della prova

15 Luglio 2024

Il focus, mediante l’esame del panorama giurisprudenziale formatosi in materia di ripartizione dell’onere della prova nel contratto di appalto, cerca di offrire un quadro delle principali questioni dibattute che, nella pratica forense, possono formare oggetto di attenzione e di studio; in particolare, il tema viene affrontato analizzando i rapporti tra la generale disciplina dettata in materia di inadempimento e l’ambito di operatività della garanzia per i vizi o difetti dell’opera (specificamente prevista per il tipo contrattuale considerato), nonché esaminando le varie forme di responsabilità del committente e dell’appaltatore, anche verso i terzi.

1. Premessa

L’obbligazione di risultato che sorge in capo alla parte che assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro (art. 1655 c.c.), consente di affrontare taluni profili relativi alla ripartizione dell’onere della prova nel contratto di appalto (V. Di Gregorio, L’appalto pubblico e privato, Padova, 2013, pp. 7 ss.; M. Costanza, L’Appalto Privato, Padova, 2000).

In particolare, l’angolo di osservazione e di analisi prescelto, mostrando – sulle orme della consolidata giurisprudenza in materia – una complementarietà tra la disciplina generale del contratto e quella specificamente dettata per il tipo contrattuale in commento, se per un verso impone di distinguere il caso in cui i lavori pattuiti non siano stati completati rispetto a quello in cui, viceversa, l’opera pur realizzata presenti ciononostante difformità, vizi o difetti, sotto altro aspetto permette di soffermarsi sulla denuncia dei vizi stessi, sul contenuto della garanzia dell’appaltatore nonché sulle varie forme di responsabilità, anche verso i terzi.

2. Sul contenuto della garanzia dell'appaltatore

Momento essenziale nel contratto di appalto è la consegna dell'opera. Secondo un comune insegnamento «la consegna è un'obbligazione accessoria che nasce in seguito all'accettazione dell'opera» da parte del committente: «consegnata l'opera … l'appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e per i vizi … salvo quelli conosciuti o conoscibili (se non taciuti in mala fede dall'appaltatore) dal committente» (F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2015, p. 1169).

La “consegna”, quale atto puramente materiale che si compie mediante la messa a disposizione del bene a favore del committente, deve essere però distinta dall'“accettazione”, la quale esige piuttosto che la parte esprima (anche per facta concludentia) il gradimento dell'opera, con una manifestazione negoziale che comporta effetti ben determinati, quali l'esonero dell'appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità (occulti o non conoscibili con l'ordinaria diligenza dell'opera), e il conseguente diritto al pagamento del prezzo (così Cass. 21 giugno 2023 n. 17711).

Ciò significa non solo che prima dell'accettazione e consegna dell'opera non vengono in rilievo problemi di denuncia e di prescrizione per i vizi conosciuti o riconoscibili (Cass. 30 luglio 2004 n. 14584) ma che tale accettazione (la cui prova, peraltro, spetta al committente: Cass. 19 febbraio 2007 n. 3752) non libera l'appaltatore dalla responsabilità per le difformità ed i vizi occulti (cioè quelli che non siano conosciuti da parte del committente, né siano riconoscibili al momento della verifica) o per quelli che, pur riconoscibili, siano stati dallo stesso taciuti in mala fede (art. 1667 c. 1 c.c.).

Al riguardo, la disciplina in materia prevede che la denuncia dei vizi o delle difformità del bene realizzato (o del servizio reso) debba essere comunicata, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla scoperta (salvo che l'appaltatore li abbia riconosciuti o occultati), e che l'azione di garanzia si prescriva entro 2 anni dalla consegna (art. 1667 c. 2 e 3 c.c.). E, tuttavia, è ormai consolidato il principio di diritto per cui nel caso di vizi occulti, o non conosciuti dal committente, il termine di prescrizione dell'azione di garanzia (e quello di decadenza) decorre dalla data della scoperta dei vizi, cioè dal momento in cui il committente consegue un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall'imperfetta esecuzione dell'opera, non essendo rilevanti, a tal fine, le manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti (Trib. Roma 17 febbraio 2023 n. 2781, Trib. Milano 3 febbraio 2020 n. 931, Cass. 22 novembre 2013 n. 26233).

In questo quadro di lettura, sul piano della concretizzazione dell'onere della prova, se ad impedire la decadenza del committente dalla garanzia non potrebbe valere una comunicazione dal contenuto del tutto generico, si ritiene comunque sufficiente una pur sintetica indicazione delle difformità riscontrate, mentre non appare necessaria una denuncia specifica ed analitica dei difetti e dei vizi dell'opera, tale da consentire l'individuazione di ogni anomalia di quest'ultima (Cass. 25 maggio 2011 n. 11520, Trib. Napoli 20 gennaio 2023 n. 673; in dottrina cfr. L. Bertino, L'onere di avviso sintetico del danno e di denuncia analitica dei vizi e delle difformità nel contratto d'appalto, in Contr. Impr., n. 2/2015, pp. 501 ss.).

Come detto, poi, la denuncia non è dovuta ove l'appaltatore abbia occultato o riconosciuto i vizi.

La disposizione (art. 1667 c. 2 c.c.) è stata interpretata nel senso che il riconoscimento ben può essere successivo al termine di decadenza stabilito per la denuncia (App. Milano 12 ottobre 2021 n. 2926), non essendo normativamente prescritto che l'uno (il riconoscimento) debba avvenire entro il termine stabilito per l'altra (la denuncia); e che la denuncia del committente «è superflua anche quando l'appaltatore, riconoscendo l'esistenza di vizi o difformità, contesti o neghi di doverne rispondere», posto che detto riconoscimento non deve accompagnarsi alla confessione stragiudiziale della responsabilità del soggetto che ha realizzato l'opera (Cass. 6 novembre 2023 n. 30786).

Inoltre, si è rafforzata l'idea che la condotta dell'appaltatore che si sia attivato per rimuovere i vizi denunciati dal committente «costituisce tacito riconoscimento di quei vizi, e che … ha l'effetto di svincolare il diritto alla garanzia del committente dai termini di decadenza e prescrizione di cui all'art. 1667 c.c.» (Cass. 6 novembre 2023 n. 30786), senza novare l'originaria obbligazione gravante sull'appaltatore. Ed infatti, l'assunzione dell'obbligo di emendare l'opera può derivare unicamente da un preciso impegno (fonte di nuova e distinta obbligazione soggetta al termine di prescrizione decennale: App. Napoli 26 settembre 2023 n. 4048) di provvedere in tal senso; viceversa, in assenza della prova di tale obbligazione, il riconoscimento dei vizi o difetti – secondo l'opinione prevalente – «non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto» (Cass. 16 giugno 2022 n. 19343).

Ciò premesso, prima di soffermarsi sulla ripartizione dell'onere della prova nell'ambito delle tutele esperibili dai paciscenti, pare utile rammentare come il contenuto della garanzia consiste nel diritto di chiedere «che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell'appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell'appaltatore» (art. 1668 c. 1 c.c.), ovvero ancora, ma per il solo caso in cui tali difformità o vizi dell'opera siano «tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione», la risoluzione del contratto (art. 1668 c. 2 c.c.).

I rimedi, pertanto, consistono (oltre al risarcimento del danno) innanzitutto in una azione volta ad ottenere l'esatto adempimento (eliminazione dei vizi) ovvero, a fronte dell'accettazione del bene così come realizzato, una riduzione del prezzo volta a ripristinare l'equilibrio sinallagmatico delle prestazioni dei contraenti.

Ecco che, in tale contesto, ci si è domandati se l'onere probatorio circa la sussistenza dei vizi o dei difetti dedotti a fondamento della domanda proposta (sia essa di esatto adempimento, di riduzione del prezzo, risarcitoria o di risoluzione) debba incombere sul committente, con la conseguenza che la prova della completezza e della tempestività della denuncia rientrerebbe tra i fatti costitutivi della domanda (così Cass. 15 marzo 2004 n. 5250Cass. 15 giugno 2007 n. 14039, Cass. 25 giugno 2012 n. 10579); ovvero se l'attore, in forza dei più generali principi in tema di responsabilità contrattuale (espressi da Cass. SU 30 ottobre 2001 n. 13533), possa limitarsi ad allegare l'inadempimento dell'appaltatore, sul quale, viceversa, graverebbe l'onere di dimostrare l'esatto adempimento o un fatto estintivo della garanzia (vale a dire la tardività o non completezza della denunzia delle difformità o dei vizi del bene o dell'opera).

Allo stato, nel confronto di idee variamente espresse nel tempo, si ritiene ormai pressoché pacificamente che ai fini della distribuzione dell'onere della prova, l'elemento decisivo sia costituito dalla accettazione dell'opera; ed invero, «fino a quando l'opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell'esistenza dei vizi, gravando sull'appaltatore l'onere di provare di aver eseguito l'opera conformemente al contratto e alle regole dell'arte»; specularmente, si afferma che «una volta che l'opera sia stata positivamente verificata, anche per facta concludentia, spetta al committente, che l'ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l'esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate» (Cass SU 3 maggio 2019 n. 11748, Cass. 9 agosto 2013 n. 19146).

3. I rimedi di tipo conservativo

Il committente, come si è visto, può chiedere, alternativamente e discrezionalmente, che i vizi o difformità dell'opera siano eliminati a spese dell'appaltatore, o che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo, in ogni caso, il risarcimento dei danni in caso di colpa di chi ha eseguito i lavori.

Presupposto della domanda è, evidentemente, che l'opera eseguita abbia un valore inferiore a quello che avrebbe avuto se realizzata a regola d'arte (Cass. 15 marzo 2022 n. 8432).

La parte che, deducendo difformità dell'opera eseguita dall'appaltatore, agisce per la riduzione del prezzo, peraltro, ha l'onere di provare, in base al raffronto del valore e del rendimento dell'opera pattuita con quelli dell'opera difettosamente eseguita, il deprezzamento del bene; riduzione che, secondo una impostazione, «può anche farsi coincidere con il costo delle opere necessarie per l'eliminazione delle difformità» (Cass. 27 dicembre 2012 n. 23923) e, qualora la prova della diminuzione di valore sia impossibile o difficoltosa, essere determinata in via equitativa (Cass. 23 marzo 2006 n. 6565).

Quanto al risarcimento del danno, poi, si tratta di rimedio alternativo ed autonomo rispetto alle altre tutele codicisticamente previste (azione di esatto adempimento, riduzione del prezzo e risoluzione) in favore del committente e consistente nel ristoro delle spese sostenute per provvedere definitivamente, a cura di terzi, ai lavori ripristinatori.

L'appaltatore, secondo una ripetuta affermazione, è infatti tenuto a sopportare l'intero peso economico che sia idoneo a garantire il risultato preventivamente concordato con l'esatta esecuzione del contratto di appalto; onde il quantum debeatur dovrà essere parametrato non solo alle spese necessarie per ovviare temporaneamente agli inconvenienti accertati ma anche a quelle che consentano il risarcimento dell'intero pregiudizio subito mediante l'eliminazione definitiva dei difetti riscontrati, in modo da garantire il pieno e stabile godimento del bene oggetto del contratto di appalto, vale a dire la sua effettiva corrispondenza alla struttura e alla destinazione concordate (Cass. 17 novembre 2023 n. 31975).

I vizi fattualmente riscontrati nell'opera realizzata in esecuzione del contratto, del resto, si presumono imputabili a chi ha eseguito i lavori: pertanto, quanto all'elemento soggettivo, il committente, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, non è tenuto a provare anche la colpa dell'appaltatore, essendo la stessa presunta fino a prova contraria (Cass. 1 marzo 2024 n. 5525); e, così, in base alle regole generali sulla responsabilità del debitore (art. 1218 c.c.), è l'appaltatore che deve dimostrare la prova liberatoria, consistente non solo nella circostanza di avere adoperato la diligenza e la perizia tecnica dovute ma soprattutto che l'inadempimento (cioè il fatto specifico che abbia causato il difetto) si è verificato per causa a lui non imputabile (Cass. 13 marzo 2023 n. 7267).

4. Il rimedio di tipo caducatorio: sulla distinzione tra opera affetta da vizi, difformità o difetti e opera non totalmente realizzata

A tali rimedi conservativi (o manutentivi) si affianca, come anticipato, la tutela risolutoria, laddove i difetti dell'opera, incidendo in modo notevole sulla struttura e sulla funzionalità della stessa, siano tali da renderla del tutto inadeguata alla destinazione che riceverebbe dalla generalità delle persone ovvero all'uso cui sia preordinata o destinata in base al contratto.

Il legislatore, però, con riferimento al contratto di appalto ha innalzato la soglia della scarsa importanza dell'inadempimento che, ai sensi dell'art. 1455 c.c., giustifica la risoluzione; ed invero, «la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto è ammessa nella sola ipotesi in cui l'opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria, in quanto affetta da vizi che incidano in misura notevole sulla struttura e funzionalità della medesima sì da impedire che essa fornisca la sua normale utilità», pur avendosi cura di specificare come «la valutazione delle difformità o dei vizi … deve essere compiuta con criteri subiettivi quando la possibilità di un particolare impiego o di un determinato rendimento siano dedotti in contratto» (Cass. 5 luglio 2022 n. 21188).

Nella disciplina dell'appalto, quindi, la risoluzione del contratto appare applicabile in ipotesi del tutto residuali, posto che l'opera deve essere «del tutto inadatta alla sua destinazione» (art. 1668 c. 2 c.c.), mentre se i vizi sono facilmente eliminabili, il committente può solo ottenere, alternativamente, uno dei rimedi conservativi (Trib. Bergamo 5 ottobre 2023 n. 2023).

Così impostato, in via generale, il tema di indagine, subito si impone, però, una ulteriore distinzione poiché la garanzia per vizi e difformità – pur costituendo uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti della disciplina dell'appalto – «non è tuttavia esauriente, in quanto presuppone che l'opera sia stata portata a termine e offerta al committente, consentendogli di rilevare l'esistenza di vizi contestualmente alla verifica o successivamente ad essa» (V. Roppo, Trattato dei singoli contratti, opere e servizi, Vol. III, Milano, pp. 321 ss.): detto altrimenti, la garanzia per vizi e difformità implica la completa esecuzione dell'opera, mentre se essa non è stata portata a termine trova applicazione la disciplina ordinaria dei contratti a prestazioni corrispettive (A. Genovese, Adempimento inesatto del contratto di appalto: norme generali e speciali, in I Contr., n. 3/2012, pp. 141 ss.).

Del resto, è noto l'orientamento per cui «in tema di inadempimento del contratto di appalto le disposizioni speciali di cui agli artt. 1667,1668,1669 e s. c.c. integrano – senza escluderne l'applicazione – i principi generali in materia di inadempimento delle obbligazioni e di responsabilità comune dell'appaltatore, che si applicano in assenza dei presupposti per la garanzia per vizi e difformità prevista nel caso in cui l'opera completata sia realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche» (Cass. 11 gennaio 2024 n. 1128); cosicché, si ripete costantemente che in assenza della consegna dell'opera, il committente è legittimato ad esperire gli ordinari rimedi contrattuali (di cui agli artt. 1453 e 1455 c.c.), trovando applicazione la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c. nella diversa ipotesi in cui i lavori siano stati portati a termine (Cass. 19 gennaio 2024 n. 2051).

Nella giurisprudenza di legittimità e di merito (Trib. Monza 10 gennaio 2024 n. 41, Trib. Firenze 31 maggio 2023 n. 1636), in particolare, si evidenzia in maniera compiuta ed accurata come la speciale disciplina richieda «necessariamente il totale compimento dell'opera» (Cass. 19 marzo 2021 n. 7861) in quanto l'omesso completamento dei lavori, anche se questi, per la parte eseguita, risultino difettosi o difformi, consentirebbe piuttosto al committente, in forza della disciplina generale, di «rifiutare l'adempimento parziale oppure accettarlo secondo la sua convenienza», chiedendo che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, oltre al risarcimento del danno (Cass. 19 marzo 2021 n. 7861, Cass. 11 febbraio 2022 n. 4527).

La differenza tra un'opera compiuta (ma difettosa) e un'opera non completamente realizzata appare netta e sicura; e, tuttavia, specie negli appalti caratterizzati da un elevato e significativo grado di complessità non è sempre agevole perimetrare, in concreto, le due fattispecie.

Quanto all'esecuzione parziale della prestazione, qualcuno ha pertanto ritenuto che se l'obbligazione dell'appaltatore «non è divisibile, non si differenzia dall'inadempimento totale, sicché ne deriva l'applicazione delle regole generali, purché l'opera sia del tutto inutilizzabile», mentre se «l'opera può essere comunque utilizzata, benché solo parzialmente eseguita, è preferibile evitare la risoluzione e, di contro, possono essere invocati i rimedi di cui all'art. 1668 c.c.» (V. Di Gregorio, I rimedi per i vizi e le difformità nell'appalto, in Danno e Resp., n. 12/2011, pp. 1145 ss.). Altri, con diverso approccio, ha sostenuto che «è configurabile un vizio o una difformità quando per ovviare al difetto è necessario intervenire sull'opera realizzata» e che «ricorre un adempimento parziale se è sufficiente integrare il lavoro svolto dall'appaltatore» (V. Roppo, Trattato dei singoli contratti, opere e servizi, cit., pp. 322 ss.).

Indipendentemente dalla soluzione (tecnica) prescelta, lo scioglimento del vincolo contrattuale pone (sul piano giuridico) il problema degli effetti restitutori: ed invero, posto che l'appalto non si sottrae alla regola generale della piena retroattività di tutti gli effetti della risoluzione, anche in ordine alle prestazioni già eseguite (art. 1458 c.c.), l'interprete ha dovuto altresì affrontare la questione del corrispettivo comunque spettante all'appaltatore.

Sul punto si è soliti riconoscere come la risoluzione imputabile a colpa dell'appaltatore, «non osta a che questi, in detrazione alle ragioni di danno spettanti al committente, abbia diritto al riconoscimento di compenso per le opere già effettuate, e delle quali comunque il committente stesso si sia giovato» (Cass. 30 ottobre 2018 n. 27640). Pertanto, con specifico riferimento al criterio di liquidazione delle opere realizzate prima della risoluzione del rapporto negoziale, la soluzione maggiormente accreditata è quella per cui, se gli effetti restitutori non possono essere disposti in forma specifica, il controvalore delle prestazioni già eseguite da riconoscere all'appaltatore deve essere rappresentato dal “prezzo” delle opere realizzate, quale equivalente pecuniario della dovuta restitutio in integrum (Cass. 21 giugno 2023 n. 17710, Cass. 12 luglio 2022 n. 22065).

5. Il pagamento del corrispettivo e l'eccezione di inadempimento

L'appaltatore presta la sua opera imprenditoriale «dietro corrispettivo certo, quale che sia il criterio contrattuale di misurazione di esso (a corpo o a misura)» e quindi non può essere negato il diritto al pagamento di quanto dovuto, ove abbia adempiuto alla propria obbligazione (Cass. 6 maggio 2024 n. 12115).

Nei contratti a prestazioni corrispettive, infatti, la parte che chiede in giudizio l'esecuzione della prestazione dovuta, non deve essere, a sua volta, inadempiente: in linea generale (dal fondamentale arresto di cui a Cass. SU 30 ottobre 2001 n. 13533, sino a alla più recente Cass. 4 aprile 2024 n. 8979), il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento; eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione.

Ne deriva che a fronte della avversa eccezione di inadempimento, il creditore che agisca per l'esatto adempimento ha l'onere, quando le prestazioni debbono essere eseguite contestualmente, di offrire l'esecuzione della propria; nell'appalto, però, sono come noto previsti termini diversi per l'adempimento, in quanto l'obbligazione dell'appaltatore precede il pagamento del corrispettivo cui è tenuta la controparte.

Sembrerebbe pertanto che l'appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo debba in ogni caso provare di avere eseguito l'opera, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa (Cass. 22 marzo 2024 n. 7763).

In senso parzialmente diverso, però, si è ritenuto che l'onere di provare la corretta esecuzione dell'opera, conformemente al contratto e alle regole dell'arte, graverebbe sul creditore solo allorché il committente abbia sollevato la relativa eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. (Cass. 31 maggio 2024 n.15287, Cass. 4 gennaio 2019 n. 98, App. Roma 30 aprile 2024 n. 2993) ovvero abbia eccepito, a monte, l'inesistenza del contratto (Cass. 12 giugno 2024 n. 16312).

Ed è proprio sul terreno dell'onere della prova che occorre domandarsi, su di un limitrofo campo di indagine, se, ed eventualmente entro quali limiti, le fatture commerciali emesse dall'appaltatore possano costituire elemento sufficiente per ritenere dimostrato il quantum del corrispettivo preteso.

L'elaborazione giurisprudenziale mostra, al riguardo, che la fattura si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione, indirizzata all'altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito; e, pertanto, allorché risulti accettata dal contraente destinatario della prestazione che ne è oggetto, non vi sono dubbi che possa costituire piena prova nei confronti di entrambe le parti dell'esistenza di un corrispondente contratto: in questa direzione, l'annotazione della fattura nelle scritture contabili (quale atto ricognitivo in ordine ad un fatto produttivo di un rapporto giuridico sfavorevole al dichiarante, stante la sua natura confessoria ex art. 2720 c.c.) riveste un ruolo decisivo, proprio in quanto (tra imprenditori) può costituire idonea prova scritta dell'esistenza del credito (Cass. 8 febbraio 2024 n. 3581).

Viceversa, quando tale rapporto sia contestato (anche in ordine all'ammontare del corrispettivo), non può costituire valido elemento di prova delle prestazioni eseguite ma, al più, un mero indizio (Cass. 12 gennaio 2016 n. 299), con la conseguenza che l'appaltatore ha l'onere di dimostrare la congruità della somma, con riferimento alla natura, all'entità e alla consistenza delle opera realizzata (Cass. 23 maggio 2024 n. 14399).

Si comprende, così, anche la nota massima – sovente invocata, tralatiziamente, negli scritti defensionali – per cui la fattura, se è utilizzabile come prova scritta ai fini della concessione del decreto ingiuntivo, non costituisce idonea prova dell'ammontare del credito nell'ordinario giudizio di cognizione che si apre con l'opposizione, trattandosi di documento di natura fiscale proveniente dalla stessa parte (Cass. 21 marzo 2024 n. 7536).

Discorrendo di onere della prova in materia di corrispettivo, resta infine da considerare che il diritto dell'appaltatore – a differenza della somma liquidata (a titolo di risarcimento del danno o anche di riduzione del prezzo) a favore del committente per la eliminazione dei vizi e difformità dell'opera che, avendo ad oggetto un debito di valore dell'appaltatore, deve essere rivalutato in considerazione del diminuito potere d'acquisto della moneta intervenuto fino al momento della decisione – ha natura di debito di valuta, come tale non suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta; ne deriva che ai fini della rivalutazione monetaria del credito il creditore deve allegare e dimostrare (ai sensi dell'art. 1224 c. 2 c.c.) l'esistenza del maggior danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora e non compensato dalla corresponsione degli interessi legali (Cass. 31 maggio 2024 n. 15357).

6. La responsabilità dell'appaltatore e del committente verso terzi

Il panorama che si è provato a tratteggiare – sia pure in modo generico e non esaustivo – sulla ripartizione dell'onere probatorio nel contratto di appalto, non potrebbe prescindere da un breve esame della responsabilità dell'appaltatore e del committente verso terzi (V. Viti, La responsabilità per i danni cagionati ai terzi nell'esecuzione del contratto d'appalto, in Giur.it., 2015, pp. 569 ss.).  

Ebbene, l'autonomia dell'appaltatore nell'esecuzione del contratto comporta che, di regola, tale soggetto deve ritenersi (ai sensi dell'art. 2043 c.c.) unico responsabile dei danni derivati a terzi dalla realizzazione dell'opera (Cass. 12 luglio 2023 n. 19919).

Una responsabilità del committente per i danni causati a terzi durante l'esecuzione dei lavori, invece, può ritenersi configurabile quando l'opera sia stata affidata ad impresa manifestamente inidonea (c.d. culpa in eligendo), ovvero quando la condotta causativa del danno sia stata imposta all'appaltatore dallo stesso committente, attraverso rigide ed inderogabili direttive (Cass. 10 maggio 2024 n. 12839).

Sotto tale ultimo aspetto, allora, è l'appaltatore che – per esente da responsabilità – deve dimostrare di avere manifestato il proprio dissenso alle erronee istruzioni impartite e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, a causa delle insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo; ed infatti, l'appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente (Cass. 9 ottobre 2017 n. 23594).

7. Conclusione

La casistica e le interpretazioni affermatesi, nel tempo, intorno a quello che è stato definito «il più moderno tra i contratti più antichi» (A. Albanese, Il più moderno tra i contratti più antichi: le nuove sfide dell’appalto, in Giur. Comm., n. 4/2023, pp. 688 ss.), consegnano al forense un percorso estremamente interessante per riflettere sulla ripartizione dell’onere della prova nelle diverse fattispecie che, nella pratica quotidiana, non di rado possono formare oggetto di attenzione e di studio.

Le prospettive di inquadramento del problema esaminato, arricchendosi di sempre nuovi contributi giurisprudenziali, mostrano allora la complessità e importanza di un tema di sicura attualità, tanto per il giurista-teorico, chiamato a ricostruire il sistema ovvero a cercare di ricondurlo ad unità, quanto per il giurista-pratico; il quale, rapportando ai precedenti giurisprudenziali la fattispecie oggetto di studio, proverà ad articolare da sé un proprio schema di lavoro, cercando di individuare, nell’ambito della specifica causa, gli argomenti a sostegno della propria posizione.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario