L’istituto del collocamento fuori servizio nelle magistrature: nuove prospettive alla luce del d.lgs. 28 marzo 2024, n. 45

16 Luglio 2024

Il contributo si propone di fornire una riflessione sull’applicazione degli ordinari istituti volti ad introdurre una sospensione del rapporto di servizio di lavoro, quali l’aspettativa ed il fuori ruolo, nell’ordinamento particolare delle magistrature, anche alla luce dei recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali. Seguirà un approfondimento relativo al collocamento fuori ruolo della magistratura tributaria.

Premessa

Gli istituti dell'aspettativa per motivi di servizio e del collocamento fuori ruolo (come anche, più in generale nel pubblico impiego, del comando e del distacco) possono ritenersi connotati da forti tratti comuni, ivi compresa la finalità ultima di circolazione più efficiente e flessibile delle professionalità all'interno delle amministrazioni pubbliche.

Il progressivo generale potenziamento dell'ambito applicativo degli stessi (vedi, per tutti, l'articolo 3 comma 2, lettere n) e o) della legge delega n. 15/2009 e l'articolo 30 comma 1-bis, d.lgs. n. 165/2001) si correla direttamente al perseguimento dei principi di economicità e di efficienza dell'azione amministrativa, i quali hanno assunto, nella scala dei valori e degli interessi pubblici, un'importanza sempre crescente, anche in considerazione della critica situazione delle finanze pubbliche e dell'economia generale.

Il collocamento fuori ruolo costituisce un istituto modificativo del rapporto di impiego comportante una diversa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, con diretta e immediata incidenza sull'amministrazione di appartenenza (cfr. Corte dei Conti, sez. contr.,19 gennaio 1996, n. 12). Tuttavia la prestazione lavorativa – è bene precisare – resta sempre una prestazione resa ad una pubblica amministrazione e nel pubblico interesse, in conformità all'articolo 98 comma 1, Cost.

Il collocamento fuori ruolo, dunque, deve essere inteso come naturalmente ad tempus e può essere disposto laddove esso sia previsto da una esplicita disposizione normativa ed entro limiti numerici predefiniti in relazione all'organico di ciascuna pubblica amministrazione; inoltre, lo svolgimento dell'incarico comportante il fuori ruolo da parte del dipendente deve corrispondere ad un interesse dell'amministrazione di appartenenza ed essere estraneo ai compiti istituzionali di questa.

Quest'ultima previsione è agevolmente spiegabile con la impossibilità per il dipendente pubblico di svolgere altrimenti (anche in amministrazione diversa da quella propria) compiti che istituzionalmente rientrano nelle attribuzioni di quest'ultima, stanti i principi ricavabili dall'art. 98 della Costituzione, ed in conformità ad una logica applicazione del principio di buon andamento, ex art. 97, Cost.

La prima, invece, risulta pienamente comprensibile e del tutto ragionevole atteso che il dipendente non recide il rapporto che lo lega all'amministrazione di appartenenza, poiché non solo ha titolo a rientrare, anche in soprannumero, nel ruolo della stessa alla cessazione dell'incarico, ma risulta pienamente titolare dello status giuridico derivante dalla sua originaria collocazione, senza che lo svolgimento del servizio in posizione di fuori ruolo presso altra amministrazione possa comportare effetti negativi sul suo stato giuridico ed economico e, più in particolare, su tutto ciò che attiene alla carriera presso l'amministrazione di appartenenza.

Cenni generali

Il collocamento fuori ruolo del dipendente di pubbliche amministrazioni è in via generale previsto dall'articolo 58 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, il quale (primo comma) prevede che: «il collocamento fuori ruolo può essere disposto per il disimpegno di funzioni dello Stato o di altri enti pubblici attinenti agli interessi dell'amministrazione che lo dispone e che non rientrino nei compiti istituzionali dell'amministrazione stessa».

Alle disposizioni del citato articolo 58 si è data esecuzione con il d.p.r. 30 aprile 1958, n. 571, dal cui art. 1 si evince che detto collocamento può essere disposto nei casi in cui esso sia previsto espressamente da norma (ancorché non necessariamente primaria) ed entro limiti numerici previamente definiti in relazione all'organico di ciascuna amministrazione.

Successivamente, l'art. 13 del d.l. 12 giugno 2001, n. 217, conv. in l. 3 agosto 2001, n. 317, con specifico riguardo ad incarichi svolti in ausilio dell'opera del Governo, ha disposto al comma 1: «Gli incarichi di diretta collaborazione con il Presidente del Consiglio dei Ministri e con il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segretario del Consiglio dei Ministri o con i singoli Ministri, anche senza portafoglio, possono essere attribuiti anche a dipendenti di ogni ordine, grado e qualifica delle amministrazioni di cui all'articolo 1 comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel rispetto dell'autonomia statutaria degli enti territoriali e di quelli dotati di autonomia funzionale. In tal caso essi, su richiesta degli organi interessati, sono collocati, con il loro consenso, in posizione di fuori ruolo o di aspettativa retribuita, per l'intera durata dell'incarico, anche in deroga ai limiti di carattere temporale previsti dai rispettivi ordinamenti di appartenenza e in ogni caso non oltre il limite di cinque anni consecutivi, senza oneri a carico degli enti di appartenenza qualora non si tratti di amministrazioni dello Stato».

(comma 3) : «Per i magistrati ordinari, amministrativi e contabili e per gli avvocati e procuratori dello Stato, nonché per il personale di livello dirigenziale o comunque apicale delle regioni, delle province, delle città metropolitane e dei comuni, gli organi competenti deliberano il collocamento fuori ruolo o in aspettativa retribuita, ai sensi di quanto disposto dai commi precedenti, fatta salva per i medesimi la facoltà di valutare motivate e specifiche ragioni ostative al suo accoglimento».

A tale disciplina si aggiunge – senza costituire deroga alla disciplina del fuori ruolo, che è espressamente fatta salva – l'art. 23-bis, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante «disposizioni in materia di mobilità tra pubblico e privato», che disciplina il collocamento in aspettativa di una pluralità di categorie di dipendenti di pubbliche amministrazioni; in particolare, per ciò che riguarda i magistrati ordinari, amministrativi e contabili e per gli avvocati e procuratori dello Stato, la disposizione limita il collocamento in aspettativa agli incarichi pubblici, cioè agli incarichi presso «organismi pubblici (…) anche operanti in sede internazionale» (comma 1), ed inoltre essa subordina lo svolgimento di detto incarico ad una delibera degli organi competenti «fatta salva per i medesimi la facoltà di valutare ragioni ostative all'accoglimento della domanda» (comma 3).

Dunque il collocamento in aspettativa senza assegni, il quale può essere utilizzato nei casi in cui il collocamento fuori ruolo non sia (in astratto) previsto per il tipo di incarico per cui si chiede l'autorizzazione ha uno spettro applicativo assai più ampio, non richiedendosi necessariamente un interesse dell'amministrazione che lo concede. Di contro la valutazione di autorizzabilità (dell'incarico prima e) del collocamento in aspettativa è sottoposto a criteri e giudizi rigorosi, soprattutto in relazione alla scopertura di organico che consegue alla fuoriuscita del magistrato richiedente.

Il collocamento fuori ruolo dei magistrati

Nello specifico ambito delle magistrature, non può essere sottovalutata la particolare posizione di specificità, autonomia ed indipendenza del rapporto di servizio che lega il giudice allo svolgimento di una funzione pubblica infungibile. Non a caso gli ordinamenti giudiziari disciplinano con previsioni dettagliate le modalità ed i limiti di utilizzazione del prestito dei magistrati ad altre amministrazioni (degno di nota è l'espresso divieto di assunzione degli incarichi che implichino la diretta partecipazione all'amministrazione attiva – art. 3 del d.p.r. n. 388/1995).

Vale fin d'ora evidenziare che i connotati di indipendenza ed autonomia, che permeano in modo genetico e funzionale lo svolgimento della funzione giurisdizionale, impongono una attenta disamina volta a verificare la compatibilità di moduli organizzatori valevoli per la generalità delle amministrazioni pubbliche con il peculiare ordinamento giudiziario, il quale prevede una significativa potestà di auto-organizzazione in capo agli organi di autogoverno (fra cui, in primis, il Consiglio Superiore della Magistratura, organo di rilievo costituzionale). Lo juris dicere, pur non essendo fondato sul consenso a differenza degli altri due poteri fondamentali dello Stato (legislativo ed esecutivo), presuppone, comunque, l'esistenza di una relazione fiduciaria a presidio della quale è istituzionalmente deputato l'organo di autogoverno, cui spetta l'adozione di provvedimenti direttamente incidenti sulla carriera del magistrato nella prospettiva di assicurare un pieno controllo su tutti gli aspetti idonei a garantire il corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali e la piena fiducia dei cittadini nella giustizia che è amministrata in nome del popolo italiano ex art. 101 comma 1, Cost.

La peculiare difficoltà nella delicata materia in esame deriva dalla necessità di bilanciare due aspetti contrapposti. Da un lato la presenza del magistrato apporta un contributo di particolare qualificazione giuridica all'interno dei più delicati processi decisionali della struttura amministrativa dello Stato, unitamente ad un più elevato standard di garanzia di legalità sostanziale. Simmetricamente la valutazione di rispondenza dell'incarico ad un interesse dell'amministrazione della giustizia si sostanzia nell'arricchimento del magistrato collocato in fuori ruolo derivante dallo svolgimento dei compiti extragiudiziari di elevata professionalità e, più in generale, nel prestigio presso le altre istituzioni che si riflette sull'ordine giudiziario di appartenenza.  In questa prospettiva il riconoscimento ed il rilievo attribuiti dall'ordinamento giudiziario alla possibilità per una amministrazione di avvalersi dell'opera di un magistrato per lo svolgimento di compiti attinenti ai propri fini istituzionali, risiede nella specifica professionalità dei soggetti chiamati a svolgere incarichi di fuori ruolo e nel contributo che, per preparazione professionale, capacità e formazione culturale, tali soggetti sono in grado di offrire all'amministrazione richiedente ed alla cura degli interessi pubblici dalla stesse perseguiti.

Dall'altro occorre minimizzare il rischio che la commistione, o quanto meno la contiguità, fra magistratura e politica (ovvero alta amministrazione) possa comportare fenomeni di cedimento (apparente o reale) del profilo di autonomia e terzietà, che rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale. Infine non va sottaciuto che il collocamento in fuori ruolo comporta una corrispondente scopertura in organico, suscettibile di determinare disfunzioni all'interno dell'ufficio di appartenenza.

In questa prospettiva le giurisdizioni speciali hanno sempre ricevuto un trattamento normativo meno rigoroso, sul rilievo che l'assunzione di incarichi istituzionali da parte dei giudici speciali si ponga tendenzialmente in relazione di sostanziale continuità con quella imparziale funzione di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela, anche preventiva, della giustizia nell'amministrazione che la Costituzione affida loro.

Fatte queste premesse, è anche utile precisare che la normativa ha sempre distinto in modo netto due tipologie di incarico soggette al collocamento in fuori ruolo.

Da un lato vi sono gli incarichi di collaborazione e consulenza presso le strutture di vertice delle amministrazioni (Segreterie della Presidenza della Repubblica e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetti, Uffici legislativi e Dipartimenti del Ministeri, delle Regioni e degli enti locali, organismi indipendenti di valutazione), rispetto ai quali si pone il tema, a monte, dei limiti alla autorizzabilità ed alla compatibilità dell'eventuale contemporaneo esercizio delle funzioni giudiziarie. 

Dall'altro vi sono gli incarichi di natura politica ed elettorale (le cariche elettive dello Stato delle Regioni e degli enti locali, i membri di Governo, delle Giunte regionali e locali, i rappresentanti della magistratura presso gli organi di autogoverno, nonché i componenti delle Corti internazionali comunque denominate), rispetto ai quali emerge il nodo critico della compatibilità fra il ruolo di magistrato e lo svolgimento di attività precipuamente politica. In queste ipotesi la concessione del fuori ruolo si presenta a rime obbligate, in quanto immediatamente funzionale per consentire ai magistrati di esercitare il diritto fondamentale di elettorato passivo o di accesso agli uffici pubblici di natura politica (art. 51 Cost.): qui il potere valutativo dell'organo di autogoverno è estremamente ridotto, se non proprio azzerato. Il tema più delicato involge, a valle, la scelta della obbligatorietà del collocamento in fuori ruolo, con conseguente congelamento dell'esercizio delle funzioni giudiziarie in corso di mandato elettorale, nonché la regolamentazione della fase del rientro del magistrato nell'organico di appartenenza.

Fuori ruolo per incarichi tecnici

Con specifico riferimento all'ordinamento giudiziario, l'art. 196 del r.d. n. 12/1941 prevede la destinazione dei magistrati presso il Ministero della Giustizia per lo svolgimento di funzioni amministrative, mentre l'art. 210 del medesimo r.d. disciplina il collocamento fuori ruolo dei magistrati per lo svolgimento di incarichi speciali, non previsti da leggi o da regolamenti. Ulteriori norme sul collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari sono dettate dalla legge n. 195 del 1958, recante norme sul Consiglio Superiore della Magistratura, la quale, all'art. 15, prevede la destinazione dei magistrati presso il Ministero della Giustizia o per l'assolvimento di incarichi speciali estranei alle loro funzioni.  Tali esigenze, quanto a determinazione del numero massimo di magistrati che possono essere destinati ad incarichi in fuori ruolo, si sono tradotte in apposita previsione normativa, contenuta nell'art. 1-bis della l. n. 181/2008. Per i magistrati amministrativi l'articolo 29 della l. n. 186 del 27 aprile 1982 ha disciplinato le regole del collocamento in fuori ruolo, fra cui i limiti temporali nonché il numero massimo delle unità di personale.  

Le discipline generali, già di per sé piuttosto elastiche, sono state in parte significativa derogate da una serie frammentata di previsioni legislative ad hoc, le quali ne hanno in definitiva minato l'impianto generale.

In questa prospettiva basti segnalare la disciplina introdotta in relazione agli incarichi di vertice presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (il collocamento è obbligatorio e viene disposto, secondo le procedure degli ordinamenti di appartenenza, anche in deroga ai limiti temporali, numerici e di ogni altra natura eventualmente previsti dai medesimi ordinamenti – art. 9 comma 5-bis del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303), la quale, per la sua amplissima formulazione ha dato luogo al rischio di una sostanziale vanificazione delle ordinarie regole poste a presidio dell'istituto. Nella stessa linea direttrice, l'articolo 13 del d.l. 12 giugno 2001, n. 217 (conv. in legge 3 agosto 2001, n. 317), poi modificato dall'articolo 1 del d.l. 16 maggio 2008, n. 85 (conv. in legge 14 luglio 2008, n. 121) ha esteso questa disciplina di favore agli «incarichi di diretta collaborazione con il Presidente del Consiglio dei Ministri e con il Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, Segretario del Consiglio dei ministri o con i singoli Ministri, anche senza portafoglio», pur facendo salvo il potere (eccezionale) degli organi competenti di non autorizzare il collocamento in fuori ruolo per specifiche e motivate ragioni.

In questa trama normativa alquanto destrutturata, ed a tratti contraddittoria, si è inserita la normativa regolamentare di ciascun organo di auto-governo, la quale ha introdotto regole differenziate in ragione delle diverse tipologie di incarichi, distinguendo i casi di fuori ruolo (obbligatorio e necessario; obbligatorio; facoltativo); ha dettagliato i limiti temporali (anzianità minima di servizio; durata massima dell'incarico in fuori ruolo) e alcune condizioni di ammissibilità (assenza di procedimenti penali e/o disciplinari). A titolo esemplificativo può farsi riferimento, per la magistratura ordinaria, alla Circolare del C.S.M. n. 12046 dell'8 giugno 2009 (in tema di condizioni, procedimento e limiti di autorizzabilità del fuori ruolo); per la giustizia amministrativa, alla delibera adottata dal CPGA del 6 maggio 2010 (in tema di «criteri generali sul collocamento in fuori ruolo»).

Un significativo intervento trasversale per riordinare la materia, teso a proteggere il prestigio della magistratura da possibili sospetti di interferenze con gli ambienti politici, sia pure di caratura primaria, si rinviene nell'articolo 1, commi da 66 a 74, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (cd. Legge Severino). L'intervento legislativo, che si inseriva nelle misure di prevenzione avverso i fenomeni di opacità e vischiosità all'interno della pubblica amministrazione, muoveva da un'ottica di sfavor nei confronti dell'istituto ed era dunque orientato a perseguire una operazione di “pulizia” organizzativo-funzionale, riducendo in modo drastico la promiscuità dei magistrati chiamati a ricoprire incarichi apicali o semi-apicali presso istituzioni ed enti pubblici. La norma mirava inoltre a contenere, se non proprio ad evitare, il fenomeno delle cosiddette carriere parallele, mediante il cumulo di incarichi sull'uno e sull'altro versante.

In estrema sintesi era stabilito, al comma 66, l'obbligo per il magistrato di essere posto in fuori ruolo ai fini dello svolgimento di incarichi in una posizione apicale o semi-apicale presso istituzioni, organi ed enti pubblici, nazionali ed internazionali, compresi quelli negli uffici di diretta collaborazione, e di permanervi per tutta la durata dell'incarico, con divieto dell'utilizzo dell'aspettativa; al comma 68, la durata massima della posizione di fuori ruolo per un tempo che, nell'arco del servizio, non avrebbe potuto complessivamente superare i dieci anni, anche continuativi; al medesimo comma 68, che il collocamento fuori ruolo non poteva comunque determinare alcun pregiudizio con riferimento alla posizione rivestita nei ruoli di appartenenza.

Degna di maggior rilievo è stata la fissazione di un limite – inderogabile e valido per tutti gli incarichi – alla durata complessiva del collocamento in fuori ruolo del magistrato, a tutela dell'esigenza di salvaguardia della primazia dell'impegno professionale nell'esercizio della funzione giurisdizionale nell'arco della carriera, evitando un allontanamento eccessivo del magistrato dalla giurisdizione. Peraltro la misura in parola mirava a favorire anche, indirettamente, la rotazione degli incarichi.

Proprio in virtù del carattere di chiusura complessiva della norma, la giurisprudenza ha chiarito che il limite decennale è valevole per tutti gli incarichi ivi menzionati, anche se espletati mediante l'istituto dell'aspettativa ai sensi dell'art. 23-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (in questi termini Tar Roma, I sez., n. 1206 del 2004).

La crescente sensibilità verso l'esigenza di tenere ben distinte l'attività giudiziaria da quella di consulenza presso altri enti o istituzioni pubbliche ha portato all'emanazione del decreto legislativo del 28 marzo 2024, n. 45, (pubblicato in Gazzetta Ufficiale – Serie Gen., n. 81 del 6 aprile 2024), uno dei due decreti attuativi della riforma dell'ordinamento giudiziario (legge 17 giugno 2022, n. 71 – cd. Legge Cartabia), con il dichiarato obiettivo di sistemare e riordinare la materia del collocamento dei magistrati al di fuori del ruolo per lo svolgimento di attività extragiudiziarie (esclusi tutti gli incarichi elettivi e di Governo); materia che, essendo disciplinata in modo frastagliato e stratificato a livello di normativa primaria, era per molti significativi aspetti affidata alle prassi legittimate dalle circolari interne degli organi di autogoverno.

Il decreto legislativo 28 marzo 2024, n. 45, disciplina in modo organico l'istituto del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili. Le nuove norme, in particolare: individuano gli incarichi che determinato obbligatoriamente il collocamento fuori ruolo e quelli che, invece, possono essere svolti in aspettativa; definiscono i requisiti per il collocamento fuori ruolo; precisano che l'interesse dell'amministrazione di appartenenza deve essere oggetto di valutazione per autorizzare il collocamento fuori ruolo; prevedono alcuni casi in cui il collocamento fuori ruolo, salva diversa determinazione dell'organo di governo, non può essere autorizzato; indicano i criteri di priorità che devono essere seguiti per il collocamento fuori ruolo, la procedura di autorizzazione e il numero massimo di magistrati collocabili fuori ruolo.

Il rafforzamento della distinzione fra esercizio della funzione giudiziaria ed alta amministrazione risiede nella previsione della regola generale del collocamento in fuori ruolo (ovvero in aspettativa) per l'espletamento di ogni tipo di incarico presso le altre amministrazioni. Il principio così stabilito è così rigido che lo svolgimento di incarichi esterni (anche con eventuale esonero) è consentito solo in presenza di una espressa disposizione di legge. Deve ritenersi, pertanto, che la riserva di legge renda inefficaci, per abrogazione/invalidità successiva, tutti i regolamenti emanati in materia dagli organi di autogoverno in merito alla previsione degli incarichi soggetti al cd. “fuori ruolo facoltativo”, ipotesi nelle quali finora è stato l'organo di autogoverno, una volta autorizzato l'incarico, a stabilirne il regime.

Iconica è la specificazione – per ciascuna magistratura di appartenenza – di un limite massimo di unità di magistrati collocabili fuori ruolo, con contestuale previsione degli specifici e tassativi incarichi non soggetti a tale regola. Giova infatti ribadire che, nonostante il tessuto normativo precedente prevedesse un limite numerico massimo al collocamento in fuori ruolo, una congerie di specifiche disposizioni di legge ne aveva sostanzialmente svuotato, o comunque fortemente ridimensionato, il valore precettivo. In questa linea direttrice, tutte le regole settoriali che hanno via via introdotto specifici criteri per il collocamento in fuori ruolo si dovrebbero ritenere abrogate per incompatibilità successiva.

Il decreto in esame opera una chiara distinzione fra gli incarichi di “prima fascia”, in quanto svolti presso istituzioni di preminente rilievo costituzionale (Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, Corti internazionali, attività giudiziaria europea ed internazionale), ovvero in quanto apicali (componente di authority, segretario generale, capo dipartimento e vice-capo dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – per la quale c'è una ulteriore riserva – e presso i Ministeri), e quelli di “seconda fascia” (presso enti pubblici ed altre amministrazioni ovvero per gli incarichi di collaborazione).

Per i primi la valutazione dell'interesse dell'amministrazione di appartenenza al collocamento in fuori ruolo è effettuata in astratto ed a priori dallo stesso legislatore (articolo 5 comma 5); il superamento dell'indice di scopertura della sede di servizio ed il disservizio causato dall'assenza del magistrato sono condizioni non necessariamente ostative, ove l'autorizzazione sia supportata da una adeguata motivazione da parte dell'organo di autogoverno (articolo 6 comma 3); hanno priorità nella copertura del numero massimo dei posti disponibili (a cui si può derogare per gli incarichi giudiziari e riservati per legge, salvo riassorbimento) – articoli 7 e 13 comma 2; si applica la soglia temporale massima – già normata dalla Legge Severino – dei dieci anni complessivi nella carriera.

Per i secondi la disciplina è più rigorosa, poiché l'organo di autogoverno ha potestà di apprezzamento dell'interesse al conferimento dell'incarico (e, simmetricamente, conserva in materia una potestà regolamentare); il superamento della percentuale di scopertura della sede di provenienza (come stabilita dall'organo di autogoverno) è una condizione di per sé ostativa, così come la presenza di un significativo impatto negativo sui procedimenti penali in corso di trattazione; il limite temporale massimo complessivo è ridotto a sette anni.

Fuori ruolo politico elettorale

Caratteri significativamente differenziati riveste, come anticipato, l'istituto del fuori ruolo (talvolta equiparato quoad effectum all'aspettativa) per motivi elettorali o per l'espletamento di incarichi politici.

Ed invero per queste ipotesi, il diritto all'elettorato passivo del magistrato comprime lo spazio di valutazione dell'autorizzabilità dell'incarico, tenuto conto che la libertà di associazione politica in capo ad ogni cittadino costituisce un'espressione della libertà di associazione e rappresenta, insieme alle libertà consacrate negli artt. 2 e 18 della Costituzione, un cardine essenziale del sistema democratico. Di conseguenza, il collocamento in aspettativa/fuori ruolo del magistrato per motivi elettorali risolve l'esigenza di salvaguardare l'indipendenza esterna del magistrato ed il diritto del cittadino-magistrato di non essere escluso dalla vita politica del proprio Paese. Pertanto la disciplina normativa mira principalmente a preservare il significato dei principi di indipendenza e imparzialità, nonché della loro apparenza, quali requisiti essenziali che caratterizzano la figura del magistrato in ogni aspetto della sua vita pubblica, prevedendo il collocamento di diritto del magistrato eletto in posizione di sospensione dal servizio (cd. fuori ruolo necessario).

In relazione agli incarichi politici degli enti minori, ed in considerazione del possibile minore impegno nello svolgimento del mandato, gli articoli 79 e seguenti del Testo Unico delle Leggi sull'Ordinamento degli Enti Locali (TUEL) – d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (come modificati dalla legge 14 settembre 2011, n. 148) prevedono la facoltà per i pubblici dipendenti di essere collocati in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato (con la precisazione che il periodo di aspettativa è considerato come servizio effettivamente prestato). Pertanto è consentito il contemporaneo svolgimento del mandato politico e delle funzioni giudiziarie, con il naturale divieto di esercitarle nella medesima circoscrizione giudiziaria in cui l'ente locale si trova.

Tale possibilità, per i magistrati ordinari, amministrativi contabili e militari, è stata eliminata dall'articolo 17 della legge 17 giugno 2022, n. 71 (cd. Legge Cartabia), che, nell'economia del più ampio intervento legislativo mirato alla riforma dell'ordinamento giudiziario, con particolare riguardo alla materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati, ha disposto che l'aspettativa elettorale (con contestuale collocamento in fuori ruolo) è in ogni caso obbligatoria per l'intero periodo di svolgimento del mandato o dell'incarico di governo sia nazionale che regionale e locale.

Fuori ruolo post-elettorale

Di norma il periodo trascorso dal magistrato fuori dal ruolo organico della magistratura è equiparato all'esercizio delle ultime funzioni giudiziarie svolte e il ricollocamento in ruolo, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, avviene nella medesima sede (par la magistratura ordinaria si veda l'articolo 50 del d.lgs. n. 160/2006).

Di contro, in caso di collocamento in fuori ruolo dei magistrati che ricoprano cariche elettive (parlamentare nazionale o europeo, di consigliere regionale o provinciale o, di presidente delle giunte delle regioni, di sindaco o di consigliere comunale), la citata legge 17 giugno 2022, n. 71 (cd. Legge Cartabia) ha anche introdotto il principio, finora sconosciuto nell'ordinamento, della irreversibilità fra l'esercizio di un mandato elettorale e lo svolgimento della funzione giudiziaria, con la conseguenza che il magistrato, all'atto del rientro presso l'ordine di provenienza, deve essere adibito a funzioni non direttamente giudiziarie; in alternativa, è collocamento in fuori ruolo presso l'Avvocatura dello Stato o presso altre amministrazioni.

È evidente che la natura del collocamento in fuori ruolo, in queste ipotesi, è del tutto eterogenea rispetto alle ipotesi di conferimento di incarichi extra-giudiziari, sia sul piano genetico (perché è disposto obbligatoriamente ed a prescindere dall'assenso del magistrato interessato) che sul piano funzionale (poiché non è un temporaneo “prestito” ad altre amministrazioni, ma un'assegnazione definitiva al di fuori dei ruoli giudiziari).

In queste ipotesi nessun apprezzamento è rimesso all'organo di autogoverno, fatta eccezione per la scelta della tipologia di incarico cui il magistrato rientrante è destinato.

Ciononostante, dal punto di vista del rapporto di servizio, non dovrebbe essere messo in dubbio che, in materia di status del magistrato collocato in fuori ruolo permanente, siano applicabili le medesime regole valevoli per il fuori ruolo ordinario (sul punto l'articolo 19 della Legge Cartabia si limita a confermare la regola secondo cui il trattamento economico rimane a carico dell'amministrazione di appartenenza).

Il regime del fuori ruolo

Dal complesso delle considerazioni finora svolte emerge con chiarezza che al collocamento fuori ruolo (ovvero in aspettativa) non consegue in senso tecnico una vera e propria novazione o anche solo mutazione dell'originario e perdurante rapporto di servizio; al contempo, però, l'istituto importa in generale una attenuazione del rapporto di impiego con conseguente sospensione del disimpegno delle prestazioni nell'Amministrazione di appartenenza cui fa riscontro l'esercizio di funzioni diversificate da quelle di istituto.

Si verifica una situazione anomala in cui il dipendente è collocato al di fuori della struttura burocratica cui istituzionalmente appartiene lasciando scoperto l'ufficio di titolarità che può essere ad altri attribuito (Cons. Stato, VI Sez. 21 settembre 1984 n. 545), con una modifica del rapporto di lavoro per effetto della quale l'impiegato viene destinato a svolgere presso un'amministrazione diversa da quella di appartenenza compiti speciali che presentano un qualche interesse per l'amministrazione originaria (Cons. Stato, sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 914).

Dalla disamina del complesso normativo che si occupa dell'istituto del collocamento in fuori ruolo (si vedano, per tutti, gli articoli 13 e 50 del d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160) si può ricavare il principio di tendenziale non incidenza del suddetto collocamento sullo status del magistrato, e quindi sul regime dei diritti e dei doveri del pubblico dipendente, nonché del trattamento economico (si veda, anche in giurisprudenza, Cons. Stato, sez. VI, 31 ottobre 1997, n. 1549).

Più in dettaglio vale osservare che il magistrato fuori ruolo conserva sia il diritto al trattamento economico che quello al rientro in ruolo, perché questi rappresentano effetti che attengono al rapporto lavorativo bilaterale intercorrente tra il singolo magistrato e lo Stato, mentre non necessariamente gli si applica la normativa che disciplina gli aspetti sistematici e funzionali che concernono la dimensione organizzativa ed ordinamentale.

Trattamento economico

L'articolo 57 del t.u. del pubblico impiego (decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3), come sostituito dall'art. 34 d.p.r. 28 dicembre 1970, n. 1077 (riordinamento delle carriere degli impiegati civili dello stato), esteso dall'articolo 59 anche al collocamento in fuori ruolo, distingue a seconda che il lavoratore sia destinato ad una amministrazione statale ovvero ad un ente pubblico. Nel primo caso il trattamento economico rimane a carico dell'ente di appartenenza del lavoratore; nel secondo, dell'ente di destinazione, il quale è tenuto inoltre a «versare all'amministrazione statale cui il personale stesso appartiene l'importo dei contributi e delle ritenute sul trattamento economico previsti dalla legge» (art. 57 comma 3). Da ciò si deduce il principio generale, coerente con la sua natura di mobilità anche nell'interesse dell'amministrazione di appartenenza, che il magistrato collocato in fuori ruolo ha diritto a godere dell'intero trattamento economico a lui spettante, ivi compreso, l'importo dei contributi previdenziali ed assistenziale e delle ritenute, anche ai fini del trattamento di fine rapporto.

Su questa scia anche la Legge Cartabia, con specifico rifermento agli incarichi di natura elettorale, ha ribadito che «il periodo trascorso in aspettativa è computato a tutti gli effetti ai fini pensionistici e dell'anzianità di servizio» (articolo 17 della legge n. 71/2022). Restano al di fuori di tale compendio le voci direttamente collegate allo svolgimento del servizio (come l'indennità di prima missione; l'indennità di sede disagiata, e così via).

Laddove per l'incarico extra-istituzionale sia previsto un emolumento accessorio, l'applicazione del principio sopra esposto ha comportato in via ordinaria il cumulo dei trattamenti economici, dapprima senza alcuna limitazione e poi, in una direzione di sempre maggior rigore, con significative restrizioni, che ne hanno quasi del tutto ristretto il campo operativo.

Giova rammentare che una prima soglia, generale e valevole per tutti gli emolumenti a carico delle finanze pubbliche, è stata introdotta a partire dal 2011 dall'articolo 23-ter del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e poi stabilizzata dall'articolo 13 comma 1, del d.l. 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. Pertanto la retribuzione dell'incarico svolto in fuori ruolo può essere concessa nei limiti del raggiungimento del “tetto di spesa” complessivo da parte del pubblico dipendente e, dunque, va ridotto in misura corrispondente (o addirittura azzerato se il tetto è già stato raggiunto con la retribuzione ordinaria).

In relazione agli incarichi di natura elettorale, quanto meno di livello nazionale, la regola del cumulo retributivo è stata radicalmente sovvertita nella nuova impostazione dell'istituto, delineata dalla Legge Cartabia. In proposito, l'art. 17, al comma 1, 2° periodo, ha introdotto la regola secondo cui «Per i mandati o gli incarichi diversi da quelli indicati all'articolo 81 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, i magistrati in aspettativa conservano il trattamento economico in godimento, senza possibilità di cumulo con l'indennità corrisposta in ragione della carica. È comunque fatta salva la possibilità di optare per la corresponsione della sola indennità di carica». In altri termini il magistrato collocato in aspettativa elettorale, continua ad aver diritto al proprio trattamento economico di appartenenza (ovvero a quello previsto per l'incarico svolto, ove più favorevole), senza alcuna possibilità di sommare i due emolumenti.

Viceversa, per gli incarichi di governo nominativi (Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministri e Vice-Ministri, Sottosegretari ed Assessori nazionali regionali e locali), non si applica l'istituto del collocamento in fuori ruolo, ma quello dell'aspettativa senza assegni – art. 16 della Legge Cartabia. In precedenza l'articolo 47 della legge 24 aprile 1980 n.146 (e succ mod.) aveva invece previsto che i dipendenti delle amministrazioni chiamati all'ufficio di Ministro e di Sottosegretario fossero collocati in aspettativa conservando per intero il trattamento economico loro spettante, in misura comunque non superiore a quella dell'indennità percepita dai membri del Parlamento.

In relazione agli incarichi elettivi locali, per i quali non si applica l'articolo 17 citato, la normativa appare lacunosa, in quanto non vi è alcuna disposizione immediatamente applicabile. Seguendo il principio generale in tema di fuori ruolo, sembra preferibile ritenere che anche il magistrato eletto presso gli enti locali abbia titolo a fruire del trattamento economico in godimento, a differenza di quanto stabilito in generale per i pubblici dipendenti dall'articolo 81 del TUEL (che prevede l'istituto dell'aspettativa non retribuita, a richiesta dell'interessato e dunque facoltativa, per tutto il periodo di espletamento del mandato). Ed invero per il magistrato, proprio in ragione del disposto dell'art. 17 comma 1, 1° periodo della legge n. 71 del 2022, l'aspettativa non è più facoltativa, ma è obbligatoria «e comporta il collocamento in fuori ruolo». Converge verso questa direzione, argomentando a contrario, la previsione che l'aspettativa senza assegni sia riservata agli incarichi di governo nominativi. In definitiva, posto che, in tema di effetti economici dell'assunzione da parte dei magistrati di incarichi ex art. 81 del TUEL, l'articolo 17 in esame nulla espressamente dispone, in virtù del fondamentale principio di cui al comma 1 («l'aspettativa è obbligatoria per l'intero periodo di svolgimento del mandato o dell'incarico di governo sia nazionale che regionale o locale e comporta il collocamento fuori ruolo del magistrato»), deve ritenersi tacitamente derogata la disciplina dell'aspettativa facoltativa (gratuita) di cui al medesimo art. 81, con il corollario che ai magistrati che assumano incarichi o mandati ai sensi dell'art. 81 del TUEL possa continuarsi ad applicare il previgente regime del cumulo del trattamento economico in godimento con l'indennità corrisposta in ragione della carica.

Status giuridico

Il magistrato non recide il rapporto che lo lega all'amministrazione di appartenenza, poiché non solo ha titolo a rientrare, anche in soprannumero, nel ruolo della stessa alla cessazione dell'incarico, ma risulta pienamente titolare dello status giuridico derivante dalla sua originaria collocazione, senza che lo svolgimento del servizio in posizione di fuori ruolo presso altra amministrazione possa comportare effetti negativi sul suo stato giuridico ed economico e, più in particolare, su tutto ciò che attiene alla carriera all'interno dell'ordine giudiziario di appartenenza.

Pertanto, da un lato, l'attività del magistrato fuori ruolo, che continua a maturare l'anzianità nella funzione, va equiparata – tramite una fictio iuris – all'esercizio delle ultime funzioni giurisdizionali svolte, con conseguente «neutralità» del periodo così trascorso; dall'altro, la circostanza che lo stesso sia temporaneamente posto al di fuori dall'ordinamento giudiziario per tutta la durata dell'incarico, comporta che non può essere considerato destinatario delle previsioni normative rivolte a magistrati permanenti nel ruolo.

Ciò vale senza dubbio nel caso di procedura per trasferimento, poiché il posto del magistrato collocato fuori ruolo non rimane “congelato” per il periodo di svolgimento dell'incarico extra-giudiziario, ma è immediatamente reso disponibile e riassegnato: tale disciplina è perfettamente coerente con la necessità che l'assegnazione del magistrato a funzioni extra-giudiziarie non pesi esclusivamente sull'ufficio di provenienza, ma incida sull'organico complessivo del personale di magistratura (in questi sensi Cons. Stato n. 4153 del 2023).

Assai più delicato è il tema della legittimazione del magistrato alla partecipazione alle procedure di progressione in carriera. Di certo, non si può negare al magistrato in fuori ruolo il diritto a maturare le promozioni di carriera, mediante il conseguimento di una qualifica più elevata (secondo il principio generale stabilito nel comma 2 dell'art. 59 del t.u. impiegati civili: «L'impiegato collocato fuori ruolo che consegue la promozione o la nomina a qualifica superiore rientra in organico andando ad occupare, secondo l'ordine della graduatoria dei promossi o dei nominati, un posto di ruolo»). Ed invero quando la procedura selettiva concerne un passaggio di qualifica, e dunque inerisce precipuamente allo status del magistrato, non può essere negata all'interessato la legittimazione a concorrere (in questo senso, si veda l'articolo 1 comma 320-bis, l. n. 145/2018, il quale, imponendo al magistrato amministrativo in fuori ruolo che sia stato nominato Presidente di Tar ovvero di Sezione del Consiglio di Stato il rientro nei quindici giorni dalla conoscenza del provvedimento di promozione, implicitamente riconosce la possibilità di partecipazione al conseguimento della superiore qualifica).

La soluzione  è molto più opinabile allorché il miglioramento delle condizioni lavorative sia inestricabilmente legato alla copertura di una nuova (e più favorevole) posizione nell'organico (come nel caso del conferimento di un posto semi-direttivo o direttivo): sembra più coerente con il carattere dell'istituto del fuori ruolo ritenere che il magistrato non abbia in radice alcuna legittimazione a partecipare, fermo restando il possibile recupero della chance lavorativa persa al momento del rientro in ruolo (ad esempio, mediante il meccanismo, ben conosciuto nella magistratura ordinaria, del cd. concorso virtuale). In questa direzione si muove il paragrafo 5.2. del testo unico sulla dirigenza giudiziaria adottato dal C.S.M. nella seduta del 30 luglio 2010 di cui alla circolare n. P-19244 del 3 agosto 2010), laddove prevede che «il trasferimento o l'assegnazione per conferimento di nuove funzioni, disposti a domanda dell'interessato, nonché il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura o la conferma fuori ruolo in diversa posizione determinano la decadenza di tutte le domande in precedenza presentate». La disposizione sopra richiamata infatti risponde, in maniera evidente, ad una esigenza di effettività dell'azione procedimentalizzata e di salvaguardia del risultato utile del procedimento di conferimento di incarichi direttivi o semi-direttivi, impedendo, con la previsione della decadenza della relativa domanda, che l'incarico possa essere conferito a magistrato che, per essere stato collocato in posizione di fuori ruolo, nel caso di nomina non sia comunque nelle condizioni di potere espletare le relative funzioni. Converge verso tale soluzione anche l'articolo 20 della legge 17 giugno 2022, n. 71 (cd. Legge Cartabia), nella parte in cui prevede che i magistrati collocati in fuori ruolo, oltre al primo anno (in cui non possono neanche assumere funzioni giudiziarie), per un periodo di tre anni dalla cessazione dell'incarico non possono assumere incarichi direttivi e semi-direttivi. A fortiori tali incarichi non dovrebbero poter essere conferiti durante lo svolgimento dell'incarico extra-istituzionale in posizione di fuori ruolo.

Infine non può seriamente dubitarsi della perdurante sottoposizione al potere disciplinare dell'ordine giudiziario cui il magistrato appartiene, gravando sullo stesso un dovere di imparzialità, che coinvolge il suo operare in ogni momento della sua vita professionale, anche quando egli sia stato, temporaneamente, collocato fuori ruolo per lo svolgimento di un compito tecnico o per aver assunto un incarico elettivo (in questo senso Corte cost., 17 luglio 2009, n. 224).

Poteri dell'organo di autogoverno

Si è già affermato che l'istituto del collocamento al di fuori del ruolo organico del magistrato costituisce una modificazione del rapporto di impiego comportante una diversa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, con diretta ed immediata incidenza sull'amministrazione di appartenenza.

Ne consegue che, ad eccezione delle ipotesi di incarichi politici ed elettivi (cd. fuori ruolo necessario), la relativa autorizzazione al collocamento fuori ruolo è rimessa ad un'ampia valutazione discrezionale, nel rispetto delle norme che fissano i presupposti di fatto ed i limiti temporali del suddetto istituto. Ciò vale anche nei casi in cui il collocamento in fuori ruolo è obbligatorio, poiché resta ferma la funzione istituzionale degli organi di autogoverno di valutare la concedibilità dell'incarico extraistituzionale ad esso correlato, secondo un criterio anche di opportunità in relazione all'incidenza del provvedimento sull'efficienza dell'organizzazione giudiziaria (si veda Cass., sez. un., 9 novembre 2009, n. 23673).

La competenza in ordine alla autorizzazione degli incarichi in fuori ruolo è incardinata in capo all'organo di autogoverno della magistratura di appartenenza, il quale, entro il perimetro delle previsioni normative di riferimento, è tenuto a valutare la sussistenza di gravi esigenze di servizio eventualmente ostative all'autorizzazione.

Dal punto di vista del richiedente il collocamento fuori ruolo non costituisce un diritto soggettivo, dovendosi piuttosto riconoscere in capo allo stesso una posizione di interesse legittimo a fronte di un potere autorizzatorio discrezionale dell'amministrazione di appartenenza. La valutazione dell'"interesse dell'amministrazione" allo svolgimento dell'incarico è ancora di più ampio rilievo e di maggiore rigorosità, nel caso in cui l'autorizzazione allo svolgimento di incarichi riguardi magistrati, stante la rilevanza delle funzioni da essi svolte e la presenza di norme e principi costituzionali a tutela dell'esercizio della funzione giurisdizionale.

Nell'ambito del potere di apprezzamento loro riservato, gli organi di autogoverno possono predeterminare le condizioni di astratta autorizzabilità degli incarichi da svolgersi in fuori ruolo – in assenza delle quali non vi è spazio per il conferimento dell'incarico, concretando tale assenza specifiche e tipizzate condizioni ostative – residuando nel delineato ambito di autorizzabilità del collocamento in fuori ruolo il potere valutativo discrezionale dell'Organo con riferimento a tutti i profili connessi con la sottrazione di un magistrato al naturale esercizio delle funzioni giudiziarie, senza alcun automatismo tra la ricorrenza delle previste condizioni e l'accoglimento della richiesta di collocamento fuori ruolo.

Tale potere discrezionale – le cui concrete determinazioni afferiscono al merito delle valutazioni spettanti all'amministrazione ed appartenenti ad una sfera non sindacabile in sede giurisdizionale – deve essere esercitato in riferimento alle condizioni e limiti espressi dalla disciplina normativa (primaria e secondaria) e, nell'ambito della stessa, dalle determinazioni – corrispondenti al dictum normativo – previamente assunte dagli organi competenti per il futuro esercizio di detto potere, costituendo quindi ogni superamento o pretermissione di questi un profilo di illegittimità della relativa attività provvedimentale.

Resta fermo che l'amministrazione non può esercitare poteri non attribuiti dalla legge, quale la valutazione dell'idoneità specifica del magistrato in relazione all'incarico (che compete all'amministrazione richiedente, in quanto attiene allo svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'ordinamento), né indicare elementi ostativi allo svolgimento dell'incarico che esulino dalla riferibilità al parametro, offerto dal legislatore, dell'interesse dell'amministrazione allo svolgimento di un incarico da parte del dipendente in posizione di fuori ruolo, quali il «percorso professionale» del magistrato e la sua produttività, ovvero un precedente disciplinare, o il coinvolgimento in un procedimento penale (in questi termini, Cons. Stato 30 aprile 2012, n. 2486). Di contro si dovrà valutare l'interesse all'espletamento di compiti extraistituzionali da parte del proprio dipendente, e quindi l'arricchimento professionale che dallo svolgimento dell'incarico aliunde il magistrato riceve, che, di conseguenza, si risolve in un arricchimento dell'amministrazione di appartenenza presso la quale il detto dipendente rientrerà a svolgere le proprie originarie funzioni.

Naturalmente è del tutto auspicabile che gli organi di autogoverno autodefiniscano, in via generale e preventiva, le modalità di svolgimento del proprio potere discrezionale nei limiti definiti dalle norme, non potendo gli stessi indicare in concreto e caso per caso ulteriori elementi ostativi allo svolgimento dell'incarico. In altri termini nella valutazione del singolo incarico all'organo di autogoverno spetta il compito di verificare l'esistenza di circostanze fattuali che integrino il parametro, predeterminato in via generale, dell'interesse dell'amministrazione allo svolgimento di un incarico in posizione di fuori ruolo.

In definitiva, l'amministrazione pubblica, in sede di esercizio del potere discrezionale in ordine alla assentibilità allo svolgimento di un incarico extraistituzionale deve valutare il proprio interesse (cioè la coerenza con l'interesse pubblico di cui essa è resa titolare dall'ordinamento) allo svolgimento del medesimo:

— sia escludendo che sussistano elementi ostativi – quali potrebbero essere rappresentati, ad esempio, da una insufficienza di copertura dell'organico, di modo che l'eventuale concessione del fuori ruolo o supererebbe il limite numerico prefissato di assentibilità ovvero, pur rientrando in tale limite, comunque comprometterebbe in modo non ovviabile con semplici misure organizzative, lo svolgimento dei compiti istituzionali presso la sede di appartenenza del dipendente;

— sia evidenziando le future ricadute positive per essa amministrazione, derivanti dallo svolgimento dell'incarico.

Tale valutazione, per ciò che riguarda gli incarichi di diretta collaborazione presso il Governo – e specificamente per i dipendenti delle amministrazioni statali – è stata effettuata, ai sensi dell'articolo 13 del d.l. n. 217/2001, direttamente dal legislatore. Al contrario, il medesimo articolo, nelle ipotesi di appartenenti ad ordinamenti diversi dallo Stato e per i quali sono previste diverse discipline o guarentigie dalla Costituzione (dipendenti regionali, stante quanto previsto dall'art. 117 comma 4, Cost. in tema di potestà legislativa esclusiva delle Regioni; ovvero magistrati), prevede che gli organi competenti abbiano la «facoltà di valutare motivate e specifiche ragioni ostative al suo accoglimento».

Giova per completezza osservare che l'ampia discrezionalità comunque riservata all'organo di autogoverno è già di per sé elemento ostativo alla predicabilità, in subiecta materia, della formazione del silenzio-assenso. Corrobora tale implicazione la previsione contenuta nell'articolo 53 comma 6, d.lgs. n. 165/2001, secondo cui: «I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ad esclusione dei compensi derivanti: (...) e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o fuori ruolo (...)». Pertanto, salvi i casi specificamente e direttamente disciplinati dalla legge, il silenzio assenso non può applicarsi per tutte le ipotesi che concernono le richieste di autorizzazioni per incarichi extragiudiziari i quali, implicando una posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo, investono direttamente lo status stesso del magistrato.

Conclusioni

Il complesso delle regole che disciplinano l’istituto del collocamento del magistrato al di fuori del ruolo sono state da sempre calibrate all’interno di ogni ordinamento giudiziario (giudice ordinario, giudice amministrativo, giudice contabile e giudice militare), alla luce delle peculiarità che ne caratterizzano le diverse specialità.

La riforma della disciplina del fuori ruolo, mira ad introdurre una maggiore omogeneità nei principi di fondo e nelle regole basilari, sembra percorrere la giusta direzione di consolidare un ordinamento generale, trasversale alle magistrature.

Resta affidato agli organi di autogoverno un ancor più delicato compito di enucleare le regole di dettaglio che si addicono a ciascun corpo magistratuale, nel solco della composizione della primarietà dell’esercizio della funzione giurisdizionale con la valorizzazione delle competenze tecniche e della cultura deontologica negli ambiti più cruciali dell’amministrazione pubblica.

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