Responsabilità degli organi gestori: i criteri di quantificazione del danno alla luce del Codice della crisi

Luca Jeantet
Paola Vallino
24 Luglio 2024

Dopo aver ripercorso i profili di responsabilità degli amministratori di società di capitali, alla luce delle novità introdotte dal Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (si veda il precedente contributo, in questo portale), gli Autori analizzano i criteri applicabili nell'ambito della determinazione della quantificazione del danno imputabile agli amministratori alla luce del nuovo comma 3 dell'art. 2486 c.c. Tali criteri – già applicati nel diritto vivente e oggi codificati – sono (i) il criterio del patrimonio netto fallimentare e (ii) il criterio della differenza tra patrimoni netti, che trova applicazione in via presuntiva. In relazione a quest'ultima innovazione legislativa, ha meritato un commento la sentenza della Corte di Cassazione, 28 febbraio 2024, n. 5252, la quale ha stabilito che il nuovo comma 3 dell'art. 2486 c.c. trova applicazione anche nei giudizi avviati prima della sua entrata in vigore, sulla base dell'assunto che la norma non introduce un nuovo riparto dell'onere della prova, bensì una mera metodica che il Giudice deve utilizzare al fine di liquidare il danno imputabile all'amministratore. In conclusione, si evidenzia come le modifiche introdotte al Codice Civile in tema di responsabilità degli amministratori, pur introducendo apparentemente criteri oggettivi di quantificazione del danno, mantengano la necessità di un accertamento che trova il suo fondamento nei principi di causalità e colpa.

La quantificazione del danno nel caso di responsabilità degli organi di gestione. Premessa

Con riguardo al tema specifico della quantificazione del danno – prima di procedere all'esame delle modifiche introdotte dal CCII sul punto e della recentissima pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. 28 febbraio 2024, n. 5252) – quale primo passo occorre fare riferimento alle norme di portata generale in materia di danno risarcibile, rammentandosi che l'art. 1223 c.c. fissa il contenuto dell'obbligazione risarcitoria nella perdita subita (c.d. danno emergente) e nel mancato guadagno (c.d. lucro cessante) che siano conseguenza immediata e diretta di un comportamento illecito.

Facendo propri questi rilievi e sino alla promulgazione del CCI, si era pervenuti alla conclusione condivisa per cui il danno risarcibile dovesse essere determinato sulla base delle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate ad amministratori o sindaci e che tale danno andasse calcolato in misura pari alla diminuzione patrimoniale effettivamente sofferta dalla società poi dichiarata fallita.

In altre parole, al fine di procedere alla verifica di quale fosse la concreta conseguenza di una condotta amministrativa o sindacale pregiudizievole, era necessario scindere l'accertamento del rapporto tra comportamento ed evento dannoso dall'accertamento del danno risarcibile, attraverso una comparazione tra la situazione che si era verificata in conseguenza dei fatti scrutinati e la situazione che si sarebbe verificata in assenza di questi ultimi.

Con il che, il danno risarcibile dagli amministratori era quello causalmente riconducibile alla loro condotta colposa o dolosa ed entro tale limite comprendeva, secondo i principi generali, il danno emergente ed il lucro cessante, dovendo essere in concreto commisurato al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, attivo od omissivo, non fosse stato posto in essere.

Nel tempo si sono affermati e sono stati smentiti numerosi orientamenti sul tema della quantificazione del danno nel corso di un'azione di responsabilità in sede fallimentare.

Ciò premesso, ad ogni modo s'impone una prima necessaria distinzione a seconda del tipo di contestazione che venga mossa da una curatela fallimentare.

Nel caso in cui agli amministratori siano imputate condotte distrattive non si pongono problemi particolari, giacché il danno normalmente coincide con l'importo o con il valore del bene distratto. E lo stesso discorso può valere per le ipotesi in cui siano individuate e censurate singole operazioni, come ad esempio nei giudizi in cui ai convenuti sia ascritto il compimento di operazioni estranee rispetto all'oggetto sociale o in conflitto d'interessi, ovvero comunque illecite. Se infatti si fornisce la prova dell'ammontare delle risorse dissipate nelle specifiche operazioni oggetto di causa, allora può ritenersi che il curatore abbia adempiuto al proprio onere, senza che vi siano ragioni per dubitare che la quantificazione del pregiudizio risarcibile in misura pari al danno che dall'operazione sia direttamente dipeso sia soluzione perfettamente in linea con i criteri sanciti dall'art. 1223 c.c.

Molto più complessa si profila, invece, la situazione quando oggetto delle censure mosse agli amministratori sia un'attività protratta nel tempo, eventualmente articolatasi in diversi anni ed in numerose attività, non tutte dannose, ma difficilmente separabili le une dalle altre.

È questa, peraltro, la situazione che ricorre con maggiore frequenza, vale a dire quella della responsabilità degli organi gestori per l'indebita prosecuzione dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento della società e per il conseguente aggravamento del dissesto, contemplata un tempo dall'art. 2449 c.c. e, dopo la riforma, dal combinato disposto degli artt. 2485 e 2486 c.c.

Rispetto a tale specifica ipotesi la giurisprudenza ha elaborato, nel corso del tempo, tre criteri di quantificazione del danno: (i) il criterio tradizionale del c.d. patrimonio netto fallimentare, (ii) il criterio della c.d. differenza tra patrimoni netti (i.e. il patrimonio netto alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e il patrimonio netto fallimentare), ed (iii) il criterio equitativo (per maggiori approfondimenti riguardo ai criteri di quantificazione del danno, si rinvia a Jeantet–Vallino; Auricchio–Covino–Jeantet; Romualdi ).

Di questi tre criteri, i primi due trovano oggi espressa previsione normativa all'art. 2486 c.c., come riformato dall'art. 378 CCII. Sul punto, è opportuno premettere che l'entrata in vigore della riforma che ha modificato il terzo comma dell'art. 2486 c.c. – avvenuta il 16 marzo 2019 – ha da subito posto un interrogativo agli operatori del diritto circa la possibile applicazione della disposizione in esame anche ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore, ma aventi ad oggetto fatti accaduti in precedenza.

In un primo momento, la giurisprudenza ha omesso di affrontare la problematica sopra esposta, prendendo atto dell'innovazione legislativa riguardante l'impiego in via presuntiva del criterio dei netti patrimoniali, senza però procedere ad una esplicita applicazione dello stesso, ritenendo che il predetto criterio non fosse applicabile ai giudizi aventi ad oggetto fatti accaduti anteriormente all'entrata in vigore della norma (così Trib. Milano, 12 luglio 2019; App. Firenze, 20 febbraio 2024, n. 328, secondo la quale “non può (…) essere applicato alla fattispecie in esame il disposto dell'art. 2486 ultimo comma c.c., nella versione derivante dalla riforma operata dal D.Lgs. 2019, n. 14, (…) dal momento che i fatti di cui è causa sono maturati prima dell'entrata in vigore della novella”; Trib. Genova, 14 dicembre 2023, n. 3126; Trib. Napoli, 26 luglio 2023, in Dirittodellacrisi.it; App. Milano, 4 agosto 2020; Trib. Palermo, 30 luglio 2020; Trib. Milano, 27 luglio 2020; App. Venezia, 1° luglio 2020; Trib. Palermo, 5 giugno 2020; Trib. Firenze, 10 aprile 2020; Trib. Milano, 3 aprile 2020; App. Venezia, 10 febbraio 2020; Trib. Bologna, 2 dicembre 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it) . In altre occasioni, invece, la norma è stata applicata anche ai giudizi pendenti, ritenendo che non vi fosse alcun impedimento al riguardo ( Trib. Roma, 24 maggio 2019, n. 10956; Trib. Firenze, 13 maggio 2020, in Ilcaso.it; Trib. Perugia, 12 giugno 2020; Trib. Torino, 15 giugno 2020, in Giur. Comm., 2022, II, 766; Trib. Firenze, 7 ottobre 2020; Trib. Firenze, 1 febbraio 2021; Trib. Torino, 3 marzo 2021; Trib. Napoli, 19 luglio 2021; Trib. Milano, 12 aprile 2022, n. 3226; Trib. Torino, 4 ottobre 2023; Trib. Napoli, 24 novembre 2023, n. 10814) .

Il contrasto interpretativo, riscontrabile anche in dottrina, origina da due tesi tra loro contrapposte: da un lato, la tesi secondo la quale il nuovo comma 3 dell'art. 2486 c.c. avrebbe natura processuale e, come tale – non incidendo sul riparto dell'onere della prova, ma essendo solo un metodo di giudizio che il Giudice deve utilizzare – sarebbe applicabile anche ai giudizi pendenti, seppur aventi ad oggetto fatti accaduti in epoca anteriore al 16 marzo 2019 (i.e. data dell'entrata in vigore della norma in esame); dall'altro lato, invece, vi è chi ritiene che la norma abbia carattere sostanziale, in quanto avrebbe introdotto un nuovo riparto dell'onere della prova (con riferimento alla ricostruzione delle due tesi si veda Dimundo, il quale, dopo aver esaminato le due tesi opposte, propende per la tesi della retroattività della norma in esame. Sostiene la tesi sostanzialista, invece, Balleari, il quale ritiene preferibile l'orientamento secondo il quale la disposizione non dovrebbe essere applicata ai giudizi in corso. Per la tesi processualista si veda, ad esempio, Fregonara) .

Sembrerebbe prevalente la tesi della natura “processuale” dell'art. 2486, comma 3, c.c., in quanto la norma introdurrebbe solamente un meccanismo di liquidazione del danno in via presuntiva, non andando ad incidere sul riparto dell'onere probatorio tra le parti. Infatti, l'applicazione del criterio dei netti patrimoniali in via presuntiva, non parrebbe essere uno strumento probatorio, ma solamente un meccanismo liquidativo del danno che il giudice sarebbe tenuto ad applicare e, come tale, estraneo all'istituto della prova dei fatti dedotti in giudizio. In sostanza, destinatario della norma è l'organo giudicante, il quale deve liquidare il danno secondo uno specifico criterio – quello dei netti patrimoniali (v. infra) – che peraltro veniva già utilizzato da tempo dalla giurisprudenza e che la norma qui analizzata positivizza (a sostegno di questa lettura si pongono diversi precedenti giurisprudenziali, richiamati Dimundo, e che qui è opportuno ripercorrere. Si veda, infatti, Trib. Brescia, 31 luglio 2019, n. 2355, in Banca Dati Pubblica. Nella medesima direzione Trib. Firenze, 1 marzo 2021, il quale ha ribadito che la norma “non incide sugli elementi costitutivi del diritto e dell'obbligo, non modificando la nozione di danno né diversamente configurando l'obbligo risarcitorio, ma è appunto, solo un criterio di quantificazione del pregiudizio che, come tale, attiene agli effetti non ancora esauriti della condotta (in tal senso, ancorché con riferimento a differenti fattispecie, Cass. 3231/1987 e Cass. 28990/2019). D'altra parte, il criterio in esame era già stato elaborato in precedenza dalla giurisprudenza e non rappresenta, pertanto, una novità in materia di responsabilità di amministratori e sindaci”; App. Roma, 13 aprile 2021, la quale, ha anche giudicato “assorbente al riguardo il rilievo che la nuova legge non ha innovato o regolato il fatto o l'atto generatore della responsabilità: resta infatti confermato dalla norma il contenuto dell'inadempimento degli amministratori che al verificarsi della causa di scioglimento non gestiscano esclusivamente a fini conservativi. La norma ha invero introdotto un comma diretto a disciplinare gli effetti non ancora esauriti del fatto come previsto ai commi precedenti (vale a dire l'ammontare del risarcimento del danno). Ne consegue che, come ritenuto dalla S.C. già con sentenza n. 3231/1987, ‘la legge sopravvenuta deve essere comunque applicata quando il rapporto giuridico disciplinato, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora esaurito i suoi effetti e purché la norma innovatrice non sia diretta a regolare il fatto o l'atto generatore del rapporto ma gli effetti di esso'”; Trib. Cagliari, 7 dicembre 2021, per il quale, anche volendo interpretare la norma nel senso della sua natura sostanziale anziché processuale, la stessa sarebbe comunque applicabile anche ai fatti precedenti e ai giudizi in corso, “poiché essa incide solamente sulla modalità di liquidazione di un danno, i cui presupposti giuridici non sono mutati. In altri termini, il danno è sempre lo stesso, ovvero quello subito dalla società in conseguenza della condotta illecita degli amministratori. Ciò che cambia è solo il metodo attraverso cui il giudice giunge a liquidarlo: metodo che prima scontava il problema delle differenti tesi e impostazioni giurisprudenziali ed oggi invece si deve confrontare con un criterio legale uniforme”; Trib. Brescia, 17 maggio 2022, per il quale si tratta di “disposizione che, attenendo ai criteri di quantificazione in sede processuale del danno risarcibile, trova applicazione anche a condotte poste in essere prima della sua entrata in vigore”; Trib. Firenze, 9 novembre 2022, Trib. Firenze, 28 febbraio 2023, Trib. Firenze, 29 maggio 2023 e Trib. Firenze, 21 gennaio 2024, n. 218/2024) .

Alla luce delle considerazioni sopra esposte e secondo l'opinione prevalente, quindi, il comma 3 dell'art. 2486 c.c. dovrebbe essere applicabile non solo ai processi instaurati dopo il 16 marzo 2019 (i.e. data dell'entrata in vigore della norma), ma anche a quelli già pendenti a tale data.

Avvalora quanto sopra menzionato la recente pronuncia Cass. n. 5252/2024, la quale si è espressa in merito a tale tematica e, confermando la pronuncia della Corte d'Appello di Roma impugnata ( App. Roma, 13 aprile 2021, n. 2649) , ha sancito l'applicabilità della norma in esame anche ai giudizi pendenti (v. V. Monti –Dughetti –Davide. Gli Autori in parte criticano le conclusioni cui perviene la S.C., sostenendo che l'impossibilità di applicare il nuovo comma 3 dell'art. 2486 c.c. si dovrebbe fondare sull'esigenza “di interpretare il principio del tempus regit actum in modo tale da attribuire adeguato rilievo all'affidamento legislativo sotteso all'art. 11 delle Preleggi, “tenendo conto della giusta aspettativa di chi, avendo scelto di promuovere un giudizio in riferimento alle prescrizioni di rito vigenti al tempo in cui ha proposto la domanda, si veda alterare in peius, in base alle nuove regole, la possibilità di essere vincitore; o, per converso, di resistere con successo all'altrui pretesa” (così, Cass. 7 ottobre 2010, n. 20811. In senso conforme, fra le altre, Cass. 15 dicembre 2015, n. 25216)”) . L'argomentazione della Suprema Corte non si sofferma, come ha fatto la dottrina, sulla natura “sostanziale” o “processuale” della norma, bensì sulla sua funzione (in ogni caso, in merito alla sua applicazione pratica, la Cassazione sostiene che “in questo senso la norma può essere definita come latamente (anche se non propriamente) processuale ”). E, a tal riguardo, i giudici di legittimità hanno affermato che “la norma non ha modificato la fattispecie concreta alla quale è dedicata, vale a dire la declinazione degli obblighi comportamentali al fondo della responsabilità civile. Né ha minimamente alterato il contenuto del diritto al risarcimento del danno che sia stato cagionato. La norma ha invece codificato un meccanismo di liquidazione equitativa del pregiudizio secondo quanto già la giurisprudenza di questa Corte giustappunto aveva ritenuto legittimo”.

In relazione all'argomentazione sopra esposta riguardante la estraneità della norma in esame alle disposizioni probatorie del Codice Civile, la Corte di Cassazione a tal riguardo ha affermato anche che “È tuttavia abbastanza evidente che non alla presunzione in senso proprio il legislatore si è riferito, perché il meccanismo presuntivo richiama i criteri distributivi dell'onere della prova (art. 2697 cod. civ.), che invece nella fattispecie non c'entrano. Quel che la norma ha specificato è semplicemente la metodica della valutazione giudiziale quanto all'apprezzamento delle conseguenze pregiudizievoli della condotta. In altre parole: destinatario della norma è proprio il giudice, il quale, ove sia dedotta (e provata) la fattispecie di responsabilità, deve utilizzare, secondo l'art. 2486, terzo comma, cod. civ., i netti patrimoniali onde liquidare il danno, a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l'uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto. In questo senso la norma può essere definita come latamente (anche se non propriamente) "processuale": essa si applica anche ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore perché rivolta a stabilire non un criterio (nuovo) di riparto di oneri probatori, ma semplicemente un criterio valutativo del danno, rispetto a fattispecie integrate dall'accertata responsabilità degli amministratori per atti gestori non conservativi dell'integrità e del valore del capitale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società”. Tale sentenza è stata richiamata anche da una pronuncia della giurisprudenza di legittimità recente: Cass. 25 marzo 2024, n. 8069.

Il criterio del patrimonio netto fallimentare

Il criterio del patrimonio netto fallimentare identifica il danno imputabile agli amministratori nella differenza tra attivo (realizzato e realizzabile) ed ammontare dei crediti ammessi allo stato passivo patrimoniale accertato nel corso della procedura concorsuale.

Con il che, dato un passivo di 500 ed un attivo (realizzato e realizzabile) di 100, il danno viene quantificato in misura pari a 400.

Questo metodo parrebbe mancare di oggettiva coerenza con le disposizioni codicistiche in materia di risarcimento del danno, giacché si limiterebbe a determinare il danno tramite un calcolo automatico, non tenendo conto del nesso di causalità sussistente tra la condotta degli amministratori e il danno effettivamente provocato, scontando il limite di confondere o, quanto meno, sovrapporre due concetti tra loro ontologicamente differenti, vale a dire il pregiudizio risarcibile ed il risultato negativo gestionale, rendendo imputabili poste passive fisiologiche e, in ultima battuta, imputando sostanzialmente disvalore conseguente ad una vendita fallimentare dei beni aziendali. Da qui, le innumerevoli critiche che tale innovazione ha suscitato, soprattutto in dottrina (per altre critiche mosse in tal senso, si veda Di Cataldo Rossi; Trisorio Liuzzi; Romualdi).

Le Sezioni Unite della Cassazione avevano notevolmente ridimensionato l'ambito di applicazione di questo criterio, ritenendo che potesse “essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

La previsione di cui al novellato art. 2486 c.c., però, parrebbe segnare una netta cesura rispetto a quanto avevano statuito le Sezioni Unite nel 2015. L'obiettivo del legislatore, secondo parte della dottrina, è stato proprio quello di derogare alle ordinarie regole del risarcimento del danno, introducendo un criterio di liquidazione del danno di natura legale e di stampo sanzionatorio, operante nel caso in cui manchino le scritture contabili o nel caso in esse siano irregolari (Trib Milano, 24 aprile 2023. Dimundo, Romualdi, Galletti), anche se tale orientamento non convince del tutto (Cass. sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100, in Giur. Comm., 2016, II, p. 529. Sul punto è opportuno segnalare anche Cass. 12 maggio 2022, n. 15245, la quale sembrerebbe contrastare con la pronuncia delle S.U. sopracitata ma, ad una lettura più approfondita tale sentenza sembrerebbe porsi in linea di continuità con quella delle Sezioni Unite. A tal proposito v. Balleari. L'Autore, commentando la pronuncia citata, rileva che “La Suprema Corte — in relazione ai casi di scritture contabili mancanti o inattendibili — afferma che il criterio del deficit fallimentare può essere applicato “soltanto come criterio equitativo” a una duplice condizione: (i) che la curatela abbia “previamente assolto l'onere della prova circa l'esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale”; e, congiuntamente, (ii) che sia “impossibile quantificare esattamente il danno”. La prima delle condizioni poste dalla Suprema Corte affinché possa essere fatto ricorso al criterio del deficit fallimentare lascia — quanto meno di primo acchito — non poche perplessità. Da una rapida lettura delle parole della Corte sembra infatti che, diversamente da quanto statuito dalle Sezioni Unite, la pronuncia in commento consenta di quantificare il danno risarcibile utilizzando il criterio de quo in presenza di qualsiasi condotta astrattamente causativa di un qualsiasi danno patrimoniale, e quindi anche al di fuori dei casi in cui siano contestati agli amministratori “inadempimenti qualificati” astrattamente idonei a produrre un danno commisurabile all'intero deficit fallimentare. Se così effettivamente fosse, si tratterebbe di un grave passo indietro nel percorso avviato dalle sezioni unite al fine di addivenire a una portata applicativa meramente residuale del criterio del deficit fallimentare: significherebbe, infatti, consentire che agli amministratori venga — nuovamente — addebitato un danno del tutto causalmente scollegato alle condotte loro contestate, con grave violazione dei princìpi in materia di causalità. Tuttavia, avendo riguardo alla pronuncia nel suo complesso, pare potersi affermare che l'intendimento della Suprema Corte fosse in realtà un altro, e cioè quello di riaffermare le limitazioni poste dalle Sezioni Unite, e non di distaccarsene. Tale conclusione — l'unica accettabile — sembra trovare supporto nel fatto che la Corte, prima di ritenere la sentenza impugnata contraria ai princìpi enucleati nelle proprie precedenti statuizioni, richiama alcuni precedenti (tra cui le stesse sezioni unite), in base ai quali il criterio de quo può essere utilizzato “sempreché, comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato”, e quindi sempreché si sia in presenza degli anzidetti “inadempimenti qualificati”. Avendo riguardo alla pronuncia nel suo complesso pare dunque ragionevole ritenere che la Corte, nel fare riferimento alle condotte astrattamente causative di “un danno patrimoniale”, volesse in realtà fare riferimento alle condotte astrattamente causative “del danno lamentato” (ossia agli “inadempimenti qualificati” idonei a produrre un danno pari all'intero deficit fallimentare), e abbia quindi omesso di ribadire detta limitazione per una semplice imprecisione, e non già perché intenzionata a distaccarsi dai (condivisibili) princìpi affermati chiaramente dalle Sezioni Unite (che la pronuncia in commento peraltro richiama espressamente)”.

Ciò premesso quindi, oggi è codificata l'applicazione del criterio del patrimonio netto fallimentare al caso in cui “mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati” (Balleari).

Una notazione particolare va riservata ai primi due casi sopra menzionati, giacché è stato osservato in dottrina e nella recente giurisprudenza (Cass. 3 gennaio 2017, n. 38, in questo portale, p. 5; Cass. 6 novembre 2023, n. 30851; Cass. 10 febbraio 2022, n. 4347; Cass. 12 maggio 2022, n. 15245. Si veda altresì, in commento a tale pronuncia, Balleari, ove l'Autore sostiene che “La pronuncia in commento, rafforzando la condizione precedentemente richiesta dalle Sezioni Unite, sembra quindi inserirsi in perfetta linea di continuità con quest'ultima e ulteriormente valorizzare i princìpi in materia di causalità, scongiurando dette interpretazioni estensive, e garantendo che gli amministratori possano vedersi addebitati l'intero deficit fallimentare non per il semplice fatto che le scritture contabili manchino o siano state tenute in modo parziale, ma solamente ove — ferma restando la necessità che venga loro contestato un “inadempimento qualificato” — le curatele abbiano rigorosamente dimostrato anche l'“impossibilità di quantificare esattamente il danno”. V, in tal senso anche Galletti. Anche in questo caso, l'Autore sostiene che, con riguardo alla necessità da parte del Curatore di raccogliere le scritture contabili della società, la norma parrebbe fare riferimento all'impossibilità di raggruppare le stesse, e non già di mera “difficoltà”. Con riguardo alla “notevole difficoltà” di ricostruzione, v. Spiotta), che un curatore, non potrebbe eccepire puramente e semplicemente, che l'assenza o l'irregolarità delle scritture contabili basta, di per sé, ad impedire di ricostruire, attraverso altre fonti, le principali vicende della società fallita, con la conseguenza che il criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare possa essere utilizzato soltanto ai fini della liquidazione equitativa del danno, ove ne ricorrano le ragioni e purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore.

E ciò non tanto per ragioni di equità, quanto invece per rispetto dei principi della responsabilità civile, ammettendosi un'inversione dell'onere della prova (che ha ad oggetto la dimostrazione della non imputabilità del deficit fallimentare) soltanto se la mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili sia ascrivibile a dolo o colpa dell'amministratore e altresì nel caso in cui sia plausibilmente sostenibile, in base ad un giudizio presuntivo fondato su elementi gravi, precisi e concordanti da condursi anche attraverso un'attenta analisi delle poste iscritte nello stato passivo fallimentare in termine di causa generatrice e tempo di generazione, che la condotta amministrativa sia la causa esclusiva, o quanto meno primaria, del dissesto sociale.

In altre parole, l'assenza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili non può, da sé sola, far venire meno non solo uno specifico onere d'allegazione in capo a colui che agisce in responsabilità, ma anche e soprattutto il principio della necessità dell'individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui il soggetto è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nella sfera giuridica altrui.

Un diverso automatismo non solo condurrebbe a risultati che empiricamente risultano poco rispondenti all'effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si porrebbe in insanabile contrasto con i principi che regolano la responsabilità civile.

Tutto ciò, naturalmente, non esclude l'applicazione del criterio del “patrimonio netto fallimentare” come criterio di valutazione ai fini del risarcimento del danno in via equitativa (ai sensi dell'art. 1226 c.c.); si impone, però, di accertare l'effettiva impossibilità di addivenire ad una ricostruzione degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio sociale dall'illegittimo comportamento degli organi della società, ciascuno distintamente valutato e, comunque, la plausibilità logica nel caso concreto dell'imputazione causale dell'intero sbilancio patrimoniale della società a tale comportamento.

Il criterio della differenza tra patrimoni netti

I limiti descritti in rapporto al criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare, non a caso indicato come residuale nel novellato art. 2486 c.c., hanno condotto nel tempo dottrina (tra i molti possibili riferimenti, Palazzolo) e giurisprudenza (Cass. 23 luglio 1997, n. 16211; Cass. 4 aprile 1998, n. 3483; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10488, secondo cui il criterio del deficit “non appare rispondere all'esigenza di una rigorosa verifica della sussistenza di un rapporto di conseguenzialità causale tra la condotta illecita e il danno”; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032; Trib. Modica 10 dicembre 2010, in Dir. fall., 2012, 584; Trib. Milano 3 febbraio 2010, in Fall., 2010, p. 35; Trib. Milano 20 aprile 2009, in Giustizia a Milano, 2009, 29; Trib. Torino 12 gennaio 2009, in Fall., 2010, 35; Trib. Marsala 2 maggio 2005, ivi, 2006, 461; Trib. Milano 8 febbraio 2001, in Giur. It., 2002, 795; Trib. Napoli 4 aprile 2000, ivi, 1243; Trib. Milano 20 marzo 1997, ivi, 1997, 859; Trib. Genova 24 novembre 1997, ivi, 1998, 318; Trib. Milano 18 gennaio 1990, ivi, 1990, 560; Trib. Milano 27 marzo 1986, ivi, 807) ad assumere un atteggiamento più cauto, ritenendo necessaria la verifica del risultato economico delle singole operazioni pregiudizievoli per la società, di volta in volta poste in essere dagli amministratori ed eventualmente agevolate dall'omesso controllo dei sindaci in violazione dei rispettivi doveri giuridici, con la finale conseguenza di evidenziare che, per poter affermare la responsabilità di amministratori, deve essere fornita la prova dell'efficienza causale dell'attività amministrativa e di controllo in relazione alla situazione acclarata, nonché dell'ammontare del danno determinato in ciascun esercizio sociale in dipendenza dell'indebito protrarsi della gestione. In altri e più concreti termini, il danno non può consistere nella mera differenza tra l'attivo ed il passivo fallimentare, ma deve valutarsi in concreto quanta parte del patrimonio sociale perduto sia causalmente imputabile alla condotta dell'amministratore (Romualdi ha affermato che “La precisa determinazione del danno provocato dalla condotta degli amministratori non incide, però, sul preventivo accertamento della responsabilità e sul nesso di causalità tra l'inadempimento dei gestori e il pregiudizio arrecato, cosicché l'attore dovrà allegare le condotte attive od omissive degli amministratori che hanno cagionato il danno e fornire la dimostrazione del nesso di causalità che lo lega alla condotta. Non è infatti del tutto convincente la posizione di chi lègge tale modifica nel senso dell'introduzione di una presunzione dell'esistenza del nesso di causalità tra la condotta e il danno, poiché l'accertamento della responsabilità che è espressamente richiesto dall'incipit del terzo comma dell'art. 2486 c.c. «impone quantomeno che siano allegate (e provate) condotte illegittime suscettibili di porsi in termini di astratta efficienza per la produzione del danno». Il criterio codificato dal legislatore ha, infatti, come obiettivo quello di facilitare la quantificazione del nocumento arrecato dalla condotta degli amministratori e non di scardinare i principi della responsabilità risarcitoria che connotano la responsabilità prevista dall'art. 2486 c.c.”. Con riferimento all'orientamento che sostiene la sussistenza di una presunzione del nesso di causalità tra la condotta e il danno, di veda Abriani e Rossi; Dimundo, Responsabilità degli amministratori per violazione dell'art. 2486 c.c. e danno risarcibile).

Sulla base di questi presupposti, è stato elaborato il differente criterio dei c.d. netti patrimoniali (tale criterio di quantificazione del danno rappresenta una presunzione relativa scollegata dalle condizioni di cu all'art. 1226 c.c. V., a tal riguardo, Mandolso), il quale prevede una comparazione tra la situazione patrimoniale alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e la situazione patrimoniale fallimentare, considerando quale pregiudizio imputabile la differenza negativa che si registra, al netto degli oneri che sarebbero comunque maturati in caso di immediata messa in liquidazione della società e delle conseguenze che non avrebbero potuto essere soggettivamente percepite da parte di un diligente amministratore o sindaco. Tale criterio di quantificazione del danno, quindi, si applica se (i) le scritture contabili sono state tenute regolarmente o comunque, anche se esse non risultano complete, siano tali da ricostruire il patrimonio della società e se (ii) sia stata accertata la responsabilità degli amministratori ex art. 2486 c.c. (con riguardo all'ambito nel quale l'azione di responsabilità possa essere esperita si ritiene che la norma non faccia riferimento solo alla liquidazione giudiziale, ma a qualunque tipologia di procedura concorsuale. Si veda, a tal proposito, Bartalena; Ghionni Crivelli; Galletti. Parte della dottrina ritiene che debbano essere ricompresi anche i costi sostenuti per addivenire al risanamento della società anche se questo non sia andato a buon fine. V., ad esempio, Abriani –Rossi. Altra parte della dottrina ritiene, per esempio, che dovrebbero essere prese in considerazione anche le perdite e le minusvalenze patrimoniali, che non sono veri e propri costi ma che incidono comunque sul netto patrimoniale e che anche una gestione finalizzata alla liquidazione dell'impresa non avrebbe potuto evitare. V., ad esempio, Calandra Buonaura).

In concreto, assumendo che il capitale sociale sia andato perduto anni prima della dichiarazione di fallimento, occorre procedere a riclassificare il bilancio alla data di ritenuto avveramento di una causa di scioglimento legale e calcolare il patrimonio netto, onde poi compararlo, per differenza, con il patrimonio netto fallimentare. Sul punto, giova osservare che sarebbe stato preferibile “fare riferimento non già alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento della società, ma alla data in cui la stessa è divenuta percepibile, ovvero ragionevolmente accertabile”, come si legge in Jeantet–Midolo–Pollio–Vallino. Gli Autori fanno riferimento, ad esempio, al caso di un amministratore che, pur avendo percepito la sussistenza di una causa di scioglimento, abbia provveduto alla tempestiva attivazione dei rimedi previsti dalla legge, senza poi giungere ad una deliberazione di scioglimento e liquidazione della società).

Con il che, dato un patrimonio netto riclassificato (e antergato) pari a - 200 ed un patrimonio netto fallimentare pari a - 500, il danno viene quantificato in misura pari a 300

danno che dovrà poi essere necessariamente corretto in diminuzione da un punto di vista soggettivo, considerando il momento in cui un organo sociale possa rendersi effettivamente conto dell'avveramento di una causa di scioglimento legale, e da un punto di vista oggettivo, scomputando tutti gli oneri passivi che sarebbero comunque maturati anche in caso di tempestiva messa in liquidazione della società (tra tutti, gli oneri fiscali, la svalutazione dei cespiti aziendali derivante dalla liquidazione, i costi immateriali capitalizzati, i canoni di leasing o gli oneri di analoghi rapporti di durata, i costi di liquidazione, ecc.): vd. Romualdi.

Con riferimento a ciò che interessa ai fini del presente contributo, rientrano nel novero degli oneri passivi anche quelli sostenuti medio tempore allorché l'impresa abbia fatto accesso ad una procedura di risoluzione della crisi, sfociata poi in liquidazione giudiziale (in tal senso, Fregonara, Romualdi).

L'applicazione del criterio in esame è risultato ricorrente, in particolare, nei casi di quantificazione del danno da prosecuzione dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento della società, presupposto che la giurisprudenza già in passato ha identificato come quel momento in cui la causa era conosciuta o conoscibile dagli amministratori utilizzando l'ordinaria diligenza (Dimundo; Trib. Perugia, 11 marzo 2024; Rordorf; Ghionni Crivelli; Pederzini).

Al riguardo, infatti, la giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 23 gennaio 2017) ha affermato che “il confronto tra le situazioni patrimoniali, avendo ad oggetto non già “dati oggettivi” ma “valori stimati”, deve avvenire secondo criteri di valutazione omogenei”, quali, a titolo esemplificativo, “i valori desunti dai bilanci di esercizio redatti secondo criteri di continuità aziendale e (...) i valori risultanti dallo stato passivo fallimentare”.

Sopravvivenza di criteri evolutivi e dinamico aziendali

Al cospetto del novellato dato normativo, che attribuisce al criterio dei netti patrimoniali valenza prevalente, ma presuntiva, con salvezza di prova di una diversa quantificazione, occorre chiedersi se oggi, come ieri, possano essere applicati criteri differenti.

Anzitutto, il criterio dei patrimoni netti di cui alla prima dell'art. 2486 c.c., infatti, rappresenta una presunzione certamente relativa, in quanto la predetta disposizione fa “salva la prova di un diverso ammontare. Si tratta quindi di un'inversione dell'onere probatorio della quale possono beneficiare i convenuti in giudizio ( Trib. Napoli, 9 febbraio 2023, secondo il quale “la norma prevede la possibilità per l'amministratore di fornire la prova di un diverso ammontare, ovvero di dimostrare che il danno patrimoniale ascrivibile allo stesso sia inferiore rispetto alla differenza tra i netti patrimoniali”. V. anche Romualdi) , anche se della prova del diverso ammontare può giovarsi anche il curatore (Ghionni Crivelli; Pederzini).

Alla luce di ciò, la risposta circa la possibile applicazione di criteri differenti rispetto a quelli previsti in via presuntiva dal legislatore, deve essere senz'altro positiva.

La prova di un diverso ammontare, infatti, potrebbe avere il vantaggio di essere maggiormente rispondente alle particolarità del caso di specie. Tale orientamento è sostenuto dalla giurisprudenza recente ( Trib Ancona, 24 gennaio 2024; Trib. Firenze, 1 marzo 2023) , secondo la quale “il principio espresso dalla norma in esame, dunque, continua ad essere quello per cui il risarcimento dev'essere il più possibile aderente al danno provocato: solo se tale aderenza non può essere ottenuta è applicabile un criterio che, anziché far premio agli amministratori per la loro negligenza contabile, semmai la penalizza; ma ogni qual volta i criteri equitativi indicati dalla legge possono essere corretti nei loro effetti distorsivi, attraverso l'utilizzo di dati certi, non vi è motivo di non farvi ricorso, poiché essi valgono, appunto a fornire “la prova di un diverso ammontare”, maggiormente vicino alla realtà”.

Tra l'altro, la giurisprudenza di legittimità ( Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538, in Giust. Civ., Mass. 2005, 2, e Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032, in Giust. Civ. 2006, 4-5, I, 967) in passato ha criticato l'applicazione del criterio della differenza tra patrimoni netti, osservando che “il pregiudizio derivante da specifici atti illegittimi imputabili agli amministratori non deve essere confuso con il risultato negativo della gestione patrimoniale della società”, in quanto “lo sbilancio patrimoniale può avere cause molteplici non necessariamente riconducibili a comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società”.

Quanto precede, come condivisibilmente osservato dalla Suprema Corte, muove dall'assunto che “la concreta misura [del danno] dipende spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce: ossia da attività sottratte per loro natura al vaglio di legittimità del giudice”.

Questa statuizione ha inevitabili e complessi risvolti pratici poiché rientra nello spinoso confine di insindacabilità degli atti gestori compiuti secondo la business judgement rule. Quanto precede, tuttavia, non può giustificare, in senso contrario, un'assoluta impossibilità di sindacare le scelte gestorie.

A tal riguardo, recente giurisprudenza ha, infatti, osservato che “se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentano profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente – senecessario, con adeguata istruttoria – i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, così da non esporre l'impresa a perdite, altrimenti prevenibili” ( Trib. Roma, 20 febbraio 2017, in ilcaso.it; con riguardo alla giurisprudenza di legittimità in tema di business judgement rule, si veda Cass. 27 marzo 2017, n. 15470; Cass. 30 gennaio 2013, n. 3409) .

La giurisprudenza di merito include nel novero degli atti gestionali sindacabili quelli che, tenuto conto degli importi investiti, delle risorse economiche disponibili e del mercato di riferimento “risultino del tutto contrastanti con l'interesse della società (…) amministrata”.

Quanto precede è senz'altro di immediata comprensione astratta, ma non di altrettanta facile applicazione, poiché l'accertamento in concreto delle condotte illecite necessarie per l'assolvimento del nesso di causalità diviene ostico, o quantomeno di difficile determinazione (salvo che la prosecuzione illecita dell'attività d'impresa sia avvenuta per un tempo non eccessivo e, tale per cui, sarebbero ricostruibili i singoli atti gestori compiuti dagli amministratori e di conseguenza, anche il relativo pregiudizio subito. V., in tal senso, Dimundo. Nello stesso senso anche la giurisprudenza, come ad esempio Trib. Firenze, 15 dicembre 2022; Trib. Firenze, 10 febbraio 2023; Trib. Cagliari, 7 dicembre 2021) .

La dottrina e la giurisprudenza ( Trib. Roma, 22 settembre 2015, n. 18752, in ilcaso.it ) sono dunque pervenute alla conclusione che un verosimile correttivo del metodo, come inizialmente formulato, può essere rappresentato dalla rideterminazione del patrimonio netto attraverso il cambiamento dei criteri di redazione del bilancio, passando, dunque, dalla prospettiva della continuità aziendale a quella liquidatoria.

Sul punto, pare utile ricordare che la riduzione del patrimonio netto può essere causata non solo per effetto della gestione caratteristica, ma anche da quella finanziaria, straordinaria, atipica e tributaria, cui devono aggiungersi quelle poste definite dalla scienza ragionieristica come “non monetarie” che determinano aumenti e decrementi del risultato d'esercizio non imputabili agli amministratori.

In quest'ottica, quindi, non è tanto rilevante l'erosione del capitale sociale vista dallo stato patrimoniale, bensì quella vista dal conto economico, dal quale emerge, in via dinamica, la progressione di perdite che sono causa dell'abbattimento del patrimonio della società.

Tuttavia, anche alla luce di alcuni orientamenti giurisprudenziali ( Trib. Massa, 30 ottobre 2015, in ilcaso.it ), non risulta corretto fare riferimento al mero risultato d'esercizio, poiché quest'ultimo è dato dalla sommatoria tra le varie gestioni sociali, tra le quali quella caratteristica. E dunque, al fine di enucleare la sola gestione caratteristica, non si può allora che fare riferimento alla “Differenza fra Valore e Costi della Produzione” per gli esercizi successivi a quello in cui si è verificata la perdita del capitale sociale, comunemente definita in ambito aziendalistico come EBIT, ossia Earning Before Interest Taxes.

Quest'ultimo risultato rappresenta un chiaro indicatore del grado di copertura dei costi generati dall'attività caratteristica e, perciò, si può desumere che, ove l'impresa non sia in grado di generare un margine positivo nella sua area tipica, si deve ragionevolmente ritenere che la prosecuzione dell'attività determini un aggravio almeno pari al margine stesso.

Nella determinazione del danno, si dovrebbe tuttavia tenere altresì conto di singoli atti di mala gestio eventualmente identificabili nello specifico.

L'applicazione del criterio più analitico, che prende in considerazione tutti gli atti di mala gestio posti in essere dagli amministratori, parrebbe dover consentire, con un margine di ragionevole accuratezza, una quantificazione del danno attendibile.

Come sopra rappresentato, questa soluzione dimentica che difficilmente è possibile parcellizzare le singole operazioni e che il danno raramente è commisurato con esattezza all'incidenza negativa delle medesime singole operazioni, configurandosi, al contrario ed il più delle volte, come pregiudizio discendente dalla più ampia e generale scelta degli amministratori di proseguire nell'attività ordinaria – che ben può alternare senza soluzione di continuità condotte conservative e iniziative imprenditoriali – dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (Fasan-Tiscini-Zanardini; Jorio; Mancini; Vitiello).

Tutto ciò parrebbe portare allora alla seguente conclusione: ove si contesti agli amministratori l'aggravamento del dissesto, non si dovrebbe cercare, ad ogni costo, una regola di calcolo generale, ma bisognerebbe probabilmente procedere, anche su base equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., ad una simulazione di “liquidazione virtuale”, accertando se e quali oneri passivi sarebbero comunque maturati anche in caso di tempestivo arresto dell'attività aziendale, onde calcolare esattamente il pregiudizio da indebita prosecuzione e collegarlo causalmente alla condotta dei soggetti ritenuti responsabili.

In questo senso, il calcolo del danno deve considerare le poste “conservative”, le quali dovrebbero, generalmente, condurre ad un risultato positivo, mitigando l'effetto negativo delle poste “non conservative”.

La quantificazione potrebbe allora avvenire attraverso la seguente operazione:

Dove:

n = esercizi a partire dal quale si è verificata la perdita del capitale sociale.

mg = atti di mala gestio (pregiudizio al netto dell'eventuale ricavo da esso derivante).

A ben vedere, il metodo così concepito, potrebbe tuttavia non essere del tutto soddisfacente, in quanto finisce per addebitare anche tutti quei costi definiti come “non monetari” e quindi ammortamenti, svalutazioni, accantonamenti ai fondi rischi e oneri a medio/lungo termine, minusvalenze da alienazioni di immobilizzazioni, ed altresì “scontare” dal risultato finale tutti i ricavi “non monetari”, quali costi patrimonializzati e plusvalenze da alienazioni di immobilizzazioni.

Pertanto, più che fare riferimento all'EBIT, è opportuno risalire lo schema scalare di conto economico riclassificato: il risultato intermedio più consono in questi termini appare quello dell'Earning Before Interest Taxes Depreciation and Amortisation, meglio conosciuto come EBITDA, decurtato di ogni ricavo non monetario, quali i costi patrimonializzati e le plusvalenze da alienazioni di immobilizzazioni.

La grandezza sopra richiamata è infatti rappresentativa dei flussi finanziari generati dall'attività di impresa, poiché esclude, come si può agevolmente desumere dall'acronimo stesso, anche svalutazioni e ammortamenti rispetto al margine EBIT.

Dunque, dalla data a partire dalla quale si presenta la perdita del capitale sociale, la società presenterà flussi finanziari – derivanti unicamente dalla sua gestione caratteristica – che saranno interamente addebitabili agli amministratori per l'indebita prosecuzione dell'attività sociale, ai quali si aggiungerà l'effetto di eventuali atti di mala gestio.

La formula precedente, rettificata sulla base di quanto illustrato, andrebbe allora rideterminata come segue:

Dove:

n = esercizi a partire dal quale si è verificata la perdita del capitale sociale.

mg = atti di mala gestio (pregiudizio al netto dell'eventuale ricavo da esso derivante).

Questo potrebbe dunque essere il “diverso ammontare”, menzionato nel novellato art. 2486 c.c. e che è stato applicato di recente dalla giurisprudenza di merito (App.  Milano, 4 settembre 2023) ed oggetto di prova contraria a quella presuntiva dei netti patrimoniali, che dovrebbe consentire di contemperare le esigenze causali e probatorie che sono state evidenziate, giungendo così ad un risultato che possa essere a tenuta, anche e soprattutto nella prospettiva di ricercare un possibile accordo transattivo con i destinatari di un'azione di responsabilità.

Considerazioni conclusive

Il CCII ha apportato modifiche rilevanti al Codice Civile, che sono state oggetto di interpretazione da parte degli operatori del diritto e oggetto di applicazione da parte degli organi giudicanti.

In particolare, la modifica all'art. 2476 c.c. ha valenza meramente confermativa di un orientamento interpretativo ormai consolidato in dottrina e giurisprudenza, mentre la modifica all'art. 2486 c.c. ha portata sostanziale maggiore, ponendosi la questione se i criteri sino ad oggi applicati sulla base delle indicazioni rinvenienti dalla Corte di Cassazione non trovino più applicazione oppure possano venire in evidenza quale oggetto di prova contraria degli organi sociali, di gestione e di controllo, che saranno tratti a giudizio di responsabilità. Ciò posto, il terzo comma dell'art. 2486 c.c., positivizzando il criterio dei netti patrimoniali quale metodo presuntivo, sembra prevedere un canone di quantificazione del danno puramente oggettivo. Tale assunto si potrebbe evincere anche da quanto ha statuito la Suprema Corte con la sentenza sopra analizzata. Essa, sancendo l'applicabilità del terzo comma dell'art. 2486 c.c. ai giudizi pendenti, ha altresì stabilito che la disposizione codifica un mero metodo di quantificazione del danno che il Giudice è tenuto a rispettare, non andando ad impattare sulla ripartizione dell'onere della prova in capo alle parti in giudizio. A ben vedere però, il principio sancito dalla Corte di Cassazione, parrebbe non abbandonare (giustamente) i principi della causalità e della colpa, i quali hanno da sempre rappresentato, e rappresentano anche oggi, i capisaldi dell'istituto della responsabilità.

L'auspicio, è che il CCI rappresenti un parametro di riferimento che costituisca punto di partenza e non di arrivo della quantificazione del danno risarcibile, potendosi continuare a ragionare in termini di causalità e colpa, con adozione dei necessari correttivi che non trasformino in oggettiva una responsabilità che tale non è e, più a monte, non può essere. E su tale scia sembra porsi anche il Disegno di Legge che prevede la modifica dell'art. 2407 c.c. sulla responsabilità dei sindaci. La novità di maggior rilievo della proposta riguarda l'eliminazione della responsabilità solidale dei sindaci con quella degli amministratori, proprio per evitare erronei automatismi, che in passato avevano trovato applicazione, in forza dei quali i componenti dell'organo di controllo venivano considerati responsabili per il solo fatto che era stata accertata, a monte, la responsabilità degli amministratori.

Certo il metro di valutazione, alla luce delle nuove regole di compliance, dovrà essere più rigoroso, ma dovrà pur sempre verificarsi se ed in quale misura un danno sia realmente colpevole ed imputabile, onde scongiurare il rischio di pervenire ad una equivalenza tra pregiudizio risarcibile e debito impagato.

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