Bancarotta fraudolenta della partecipata: il sindaco non risponde (quasi mai) del reato degli amministratori. Una pronuncia rigorosa (eppure miope?)

24 Luglio 2024

Il Sindaco non è penalmente responsabile del delitto di bancarotta fraudolenta di una partecipata in house se non è dimostrato né il ruolo di amministratore di fatto né il concorso quale extraneus nel reato proprio degli amministratori della società, anche laddove egli abbia posto in essere condotte a carattere “politico” volte ad aggravare il dissesto. Una pronuncia che lascia aperti quesiti di primo piano (e che offre il fianco a prossimi ribaltamenti giurisprudenziali).

La massima

In tema di reati fallimentari, il Sindaco non risponde del delitto di bancarotta fraudolenta impropria derivante da operazioni dolose poste in essere da una società interamente partecipata dal comune, per effetto della sola qualifica di legale rappresentante dell'ente pubblico, posto che, nel caso in cui non vi sia prova della sua qualità di amministratore di fatto della società partecipata, la sua responsabilità sarà configurabile solo in qualità di extraneus, concorrente nel reato, a condizione che sia dimostrato lo specifico contributo fornito al legale rappresentante della società.

Il caso

L'aspettativa di credito e l'aggravamento del dissesto

La vicenda all'attenzione della V Sezione della Suprema Corte riguardava il fallimento di una società di servizi, interamente partecipata da un Comune, nel cui ambito la competente Procura della Repubblica aveva rilevato la commissione di “operazioni dolose” e il ricorrere della fattispecie di bancarotta fraudolenta ex art. 216 l. fall.

Nello specifico, definite nei gradi di merito le condanne dei membri del CdA della predetta Multiservizi, perveniva allo scrutinio della Suprema Corte la posizione del Sindaco del Comune, socio unico della fallita, avverso la cui assoluzione in secondo grado il Procuratore Generale proponeva ricorso sulla base delle seguenti argomentazioni:

  1. benché lo stato di dissesto della Multiservizi fosse già acclarato fin dal 2010, il Comune non aveva impedito che gli amministratori iscrivessero nei successivi bilanci un credito fittizio nei confronti del Comune stesso, invece di disporre la ricapitalizzazione della Società;
  2. il Sindaco aveva ammesso in sede di interrogatorio “che la società era mantenuta in vita per conservare il posto di lavoro ai dipendenti e che all'impegno comunale di ripianamento delle perdite non aveva fatto seguito alcuna concreta ed effettiva disponibilità di risorse;
  3. le fittizie iscrizioni a bilancio avevano dunque la funzione di prolungare la vita della società, aggravando il dissesto, ed erano operazioni delle quali il Sindaco aveva piena conoscenza, come poteva anche evincersi dall'intervento dello stesso presso i creditori sociali “per evitare la esecuzione forzata”;
  4. la Multiservizi aveva continuato a compiere operazioni antieconomiche – quali l'assunzione di nuovi dipendenti – senza che il Comune si fosse a ciò opposto.

Le predette condotte venivano a determinare, in ultima analisi, una violazione dell'art. 2447 c.c., poiché, pur a fronte di una riduzione del capitale sotto il minimo legale, il Comune non avrebbe impedito di iscrivere a bilancio una “aspettativa di credito”, nella dolosa consapevolezza dell'inesistenza di reali coperture finanziarie e in violazione dei principi contabili, che “non consentono la promessa di copertura di una perdita”.

In tale scenario, la pubblica accusa deduceva un errore del giudice d'appello, perché non avrebbe valorizzato “il principale contributo causale fornito dall'imputato [il Sindaco, ndr] alla fittizia operazione di copertura delle perdite”, avendo valutato come “esercizio di un potere politico animato da una superficiale intenzione di sanare la situazione” quelli che, invero, dovevano essere ritenuti come atti univocamente diretti alla causazione della condotta di bancarotta fraudolenta.

La Questione

Il ruolo omissivo del sindaco nel dissesto della partecipata

Il nodo giuridico della vicenda pervenuta allo scrutinio della Suprema Corte attiene, in ultima analisi, alla possibilità di qualificare il legale rappresentante di un Ente Pubblico quale concorrente nel delitto di bancarotta fraudolenta commesso dagli organi di una partecipata, allorquando egli, pur nella piena coscienza dello stato di dissesto, non abbia adottato le necessarie misure per impedire l'evento.

Invero, si sottolinea sin d'ora (poiché è tratto dirimente per la trattazione) come le condotte contestate all'Amministratore Pubblico fossero, per concreta configurazione delle stesse e per scelta della Pubblica Accusa, contestate in forma omissiva; da ciò deriva, ex art. 40 comma 2, c.p., la necessità di dimostrare la sussistenza di un dovere/potere impeditivo dell'evento in capo al Sindaco, essendo acquisita e incontestata la consapevolezza dello stato di dissesto.

Il vaglio della Suprema Corte si è pertanto diretto non all'individuazione di comportamenti “attivi” ed alla loro riconduzione ad un paradigma di responsabilità commissiva, bensì alla verifica della concreta incidenza delle omissioni dell'Ente Pubblico, in qualità di socio, sull'illecito ex art. 216 l. fall. commesso dagli amministratori, e alla sussistenza o meno di un potere (e, dunque, di un dovere) di impedire tale evento.

La soluzione giuridica

Il socio pubblico tra poteri impeditivi e volontà politica

La risposta della Corte ai quesiti che precedono è particolarmente netta e rigorosa, seppur (come si avrà modo di argomentare) non pienamente convincente nei risvolti fattuali della vicenda.

Preliminarmente, i S. Giudici sottolineano quanto invero già evidente dalla mera lettura del capo d'imputazione, i.e. l'impossibilità di configurare in capo al Sindaco la qualifica di “amministratore di fatto” della partecipata, “non essendo emerso dall'istruttoria dibattimentale l'esercizio in modo continuativo e significativo di un'ingerenza ben più pregnante nella gestione della società rispetto alla intrusione episodica rinveniente dalle condotte enucleate nella sentenza […]”.

Occorre in questa sede ricordare appena che la figura dell'amministratore di fatto è dalla più recente giurisprudenza individuata al ricorrere “di ‘indicatori di capacità gestionale', vale a dire elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società (rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti), ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare” (Cass. pen., sez. V, 7 dicembre 2023, n. 12715). In tale ottica, non essendovi prova di un incardinamento del Sindaco nella “sequenza organizzativa, produttiva o commerciale”, è evidente come egli possa rispondere solo nella sua qualità di rappresentante legale del Socio pubblico (e, pertanto, di extraneus) e non quale componente “di fatto” del meccanismo di mala gestio della Società.

Tanto premesso, la Corte ritiene in ogni caso non raggiunta la prova della responsabilità del Sindaco per due ordini di ragioni: l'uno oggettivo e l'altro soggettivo.

Sotto il profilo oggettivo, il socio pubblico non sarebbe stato “titolare di poteri impeditivi […] a fronte di una gestione scellerata, aveva potere di reagire e richiedere la rimozione degli amministratori infedeli o incapaci ex art. 2449 cod. civ., ma tali facoltà rimangono ben distinte dalle omissioni in esame e sono estranee alla gestione diretta che si pretende costruire […]”. Anche laddove l'Ente Pubblico avesse adottato tutte le misure a propria disposizione, la Corte ritiene che l'evento di bancarotta non sarebbe stato impedito, non essendo il socio in quanto tale “titolare di poteri idonei ad impedire quegli eventi in base alle disposizioni di natura civilistica”.

Sotto il profilo soggettivo, la Corte argomenta inoltre, in maniera alquanto sintetica, che le omissioni del Sindaco non sarebbero state univocamente dirette alla realizzazione della bancarotta da parte degli amministratori, potendosi rinvenire negli artifizi contabili e nella prolungata agonia gestoria della Multiservizi una (quantomeno concorrente) “responsabilità politica”. In mancanza di una contestazione in forma commissiva, dunque, la condotta omissiva dell'Ente Pubblico mal si presterebbe ad una lettura in chiave necessariamente fraudolenta e in danno dei creditori, potendo essere sorretta da motivazioni differenti, quali, ad esempio, la continuità dei servizi forniti attraverso la partecipata o la tutela dei posti di lavoro. Si tratta, invero, di conseguenze implicite di un ragionamento che la sentenza lascia (forse volontariamente) in chiaroscuro ma che emergono dal raffronto con la situazione concreta posta al vaglio della Corte (il già citato “esercizio di un potere politico animato da una superficiale intenzione di sanare la situazione”).

Ulteriormente, la Corte corrobora il proprio ragionamento con puntuali richiami alla più recente giurisprudenza sul concorso dell'extraneus, atteso che:

  1. vi sarebbe nesso di causalità solo nel caso in cui “la condotta contestata […] sia risultata decisiva per l'assunzione della condotta da parte dell'intraneus” (Cass. pen., sez. V., 15 giugno 2022, n. 37101).
  2. è necessario che l'extraneus sia “consapevole del rischio” per i creditori della società (Cass. pen., sez. V, 4 luglio 2014, n. 41055);
  3. il terzo concorrente deve aver operato con consapevolezza e volontà di aiutare l'imprenditore in dissesto a “frustrare gli adempimenti preposti dalla legge a tutela dei creditori dell'impresa” (Cass. pen., sez. V, 26 giugno 2011, n. 27367).

Da ultimo, a conclusione della radicale esclusione di penale responsabilità in capo al socio pubblico, la sentenza non manca di ricordare come la natura di partecipata pubblica di una società per azioni non ne modifica lo status di soggetto di diritto privato: “Il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al Comune non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull'attività […] mediante l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società”.

Sulla base delle predette argomentazioni, la Corte ritiene dunque che, acclarata la sua posizione di alterità rispetto al Consiglio di amministrazione della partecipata, il Sindaco non possa essere ritenuto penalmente responsabile “sulla base della mera qualifica rivestita e della coincidenza di legale rappresentante del Comune socio unico della società in house e di rappresentante dell'Ente locale”. A carico del Sindaco si potrà, al più, ipotizzare un concorso quale extraneus nel reato degli amministratori “a condizione che sia dimostrato in concreto il contributo specifico dallo stesso fornito al legale rappresentante della società”.

Osservazioni

I profili critici: una “sacca d'impunità” per il socio pubblico?

La sentenza in commento si connota – anche per le carenze probatorie in merito alla posizione del Sindaco, la cui sussistenza traspare tra le righe della pronuncia – per la radicale esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo al legale rappresentante dell'Ente locale: esclusione che, pur prendendo le mosse da presupposti pacifici e condivisi (su tutti, il rifiuto di una responsabilità da posizione tout court), produce frutti non pienamente soddisfacenti in concreto.

Nella rigorosa, corretta applicazione della normativa in materia di bancarotta, la Suprema Corte parrebbe infatti manifestare una sostanziale miopia rispetto alla reale articolazione dei rapporti nelle Società partecipate dagli Enti pubblici, i quali esercitano in ogni caso un'influenza ex se maggiore rispetto agli altri soci e, in ogni caso, sono in grado di orientare le scelte, le azioni e le omissioni delle partecipate stesse non solo con gli strumenti del diritto societario (come ottimisticamente ipotizzato in sentenza) ma altresì con i penetranti strumenti del controllo politico.

Eppure, l'estremizzazione della prospettiva prescelta dalla Suprema Corte parrebbe poter condurre, di fatto, alla creazione di una zona “grigia” tra l'attività aziendale delle società a partecipazione pubblica, soggetta alle regole d'impresa, e il controllo politico, sempre gravitante su di esse non solo in termini di partecipazione al capitale e di nomina e revoca degli amministratori ex art. 2449 c.c., ma altresì in virtù della maggiore pregnanza del rapporto fiduciario intercorrente tra i manager di una partecipata pubblica e l'azionista di riferimento (nel caso di specie, il Comune nella persona del Sindaco).

Non può invero ignorarsi il rischio sotteso all'estremizzazione dei concetti posti a fondamento dell'assoluzione del Sindaco nel caso di specie: se le azioni da questi realizzate – su tutte, nel caso di specie, l'intervento presso i creditori per evitare l'esecuzione forzata – costituiscono “esercizio di un potere politico animato da una superficiale intenzione di sanare la situazione”, evidente che il ruolo degli amministratori viene ad essere gravato di insostenibili responsabilità e pressioni. Per un verso, questi ultimi devono dirigere la Società secondo una logica economica; per altro verso, il socio di riferimento (l'Ente locale) potrebbe avere interesse a non disperdere capitale politico o anche solo a non esporre la Società, la cui attività ed il cui indotto genera effetti sull'intera comunità, e dunque ad avallare la prosecuzione di attività strutturalmente in perdita. In un simile contesto, addossare agli amministratori l'esclusiva responsabilità delle scelte di business potrebbe condurre ad una svalutazione del ruolo di questi ultimi, ridotti a sostanziali “passacarte” di un soggetto non perseguibile e al quale, tuttavia, debbono il mantenimento della loro carica.

Rispetto a tali scenari, certamente estremi eppure non ignoti alle cronache giudiziarie, la decisione della Suprema Corte solleva più quesiti delle soluzioni che fornisce, arroccandosi su una rigida cristallizzazione dei ruoli ex lege previsti e mancando forse l'occasione di una pronuncia più incisiva.

Pertanto, non appare improprio ipotizzare che le conclusioni della sentenza in commento, quantunque solide, possano essere in futuro ribaltate nel caso in cui il compendio probatorio e la strutturazione dei capi d'imputazione consentano una più lineare riconduzione delle condotte del legale rappresentante dell'Ente pubblico i) all'esercizio di poteri da amministratore di fatto, o; ii) alla partecipazione commissiva quale extraneus nel reato proprio.

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