Redditi percepiti da un non residente in qualità di amministratore di una società residente: devono essere dichiarati?

29 Luglio 2024

Il quesito si interroga sul regime di tassazione applicabile ad un cittadino francese non residente per i redditi percepiti in qualità di amministratore di una società residente, evidenziando le differenze che sussistono tra la previsione della Convenzione internazionale Italia-Francia n. 5/1989 e l'orientamento della giurisprudenza di legittimità. 

Un cittadino francese, ivi residente, percepisce redditi derivanti dal suo ruolo di legale rappresentante e amministratore unico in una società di capitali avente sede nel territorio italiano. Deve presentare la dichiarazione dei redditi in Italia per i redditi ivi percepiti?

La maggior parte dei sistemi tributari, compreso quello italiano, prevede per le persone fisiche un principio generale di tassazione (c.d. world wide taxation principle) di modo che i soggetti fiscalmente residenti in uno Stato siano tassati sui redditi ovunque prodotti. La conseguenza di tale principio generale è che, qualora il reddito prodotto all'estero dal contribuente residente sia assoggettato a tassazione anche nel paese estero (o viceversa), si verifica un fenomeno di doppia imposizione. Tale fenomeno viene risolto dai vari ordinamenti tributari o con il meccanismo del credito d'imposta (per l'ordinamento interno vds. l'art. 165 TUIR) — prevedendosi la detrazione dell'imposta pagata all'estero a titolo definitivo dall'imposta dovuta nello stato di residenza — ovvero tramite Trattati internazionali (Convenzioni) che regolano l'esercizio della potestà impositiva degli Stati contraenti. Fatta questa premessa, con riferimento al caso di specie, verrebbe in rilievo la Convenzione Italia-Francia n. 20 del 5 ottobre 1989 la quale prevede che «I gettoni di presenza e le altre retribuzioni ricevuti da un residente di uno Stato che esercita funzioni di direzione o di gestione in una società residente dell'altro Stato — o che è membro del Consiglio di amministrazione o del collegio sindacale — sono imponibili in detto altro Stato». Tuttavia, occorre tenere in considerazione cosa prevede l'ordinamento interno rispetto a tale tipologia di redditi. In particolare, vengono considerati redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente anche «le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione agli uffici di amministratore, sindaco o revisore di società, associazioni e altri enti con o senza personalità giuridica…» e su tali redditi, se corrisposti a soggetti non residenti, «deve essere operata una ritenuta a titolo d'imposta nella misura del 30 per cento». Pertanto, nel caso prospettato, la società italiana che ha corrisposto il compenso al proprio amministratore, soggetto non residente, ha dovuto operare una ritenuta a titolo d'imposta su tali somme. La ritenuta alla fonte operata andrebbe, quindi, ad esaurire ogni adempimento del contribuente che non sarebbe tenuto a presentare la dichiarazione in Italia né a versare le relative addizionali IRPEF (in tal senso anche la prassi ministeriale relativamente ai compensi erogati a collaboratori non residenti). Ad una conclusione diversa si giungerebbe qualora si tenesse in considerazione l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità che non ritiene di collocare nella categoria dei redditi assimilabili a quelli di lavoro dipendente le somme percepite dal contribuente in assenza di un elemento di subordinazione ovvero laddove in una stessa persona si cumulino più poteri (rappresentanza, direzione, controllo, disciplina, ecc…) con l'impossibilità di diversificare le parti del rapporto di lavoro e le diverse attribuzioni. In sostanza, secondo tale orientamento giurisprudenziale, la carica di amministratore unico e socio unico non si potrebbe conciliare con l'esercizio di una attività di lavoro subordinato, non potendo quindi coesistere in capo al medesimo soggetto lo status di datore di lavoro e di lavoratore dipendente.

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