Compenso del consulente tecnico del curatore: la Corte nega l’equiparabilità al c.t.u.

La Redazione
26 Luglio 2024

La S.C. ribadisce che, nella liquidazione del compenso del consulente tecnico del fallimento, non possono applicarsi i criteri previsti per la determinazione delle spettanze degli ausiliari del giudice, dovendosi invece fare riferimento alle tariffe vigenti per la categoria professionale di appartenenza, non diversamente da quanto accade per il difensore del fallimento.

La Corte di cassazione ha accolto il reclamo proposto da un consulente tecnico di parte, nominato dal curatore nel giudizio in revocatoria promosso da quest'ultimo, avverso il decreto con cui il giudice delegato aveva liquidato il relativo compenso.

Il consulente, tra i vari motivi di reclamo, contestava l'applicazione delle tariffe da parte del giudice delegato secondo il quale: «“trattandosi di mere osservazioni sull'attività sul metodo operativo del consulente tecnico d'ufficio”, l'opera prestata dalla reclamante “non può qualificarsi quale vera e propria consulenza tecnica di parte e non può essere, pertanto, ricondotta all'art. 31 della “tariffa professionale” vigente all'epoca della prestazione, e cioè quella prevista dal d.P.R. n. 100/1997, dovendo, piuttosto, trovare applicazione il criterio residuale di cui all'art. 16, comma 1, del d.P.R. cit. e, quindi, tenuto conto della natura dell'attività svolta dalla reclamante, l'art. 2 del d.m. 30/05/2002, che il giudice delegato ha utilizzato per la liquidazione del compenso, applicando, in ragione della qualità e della difficoltà del lavoro svolto, i valori medi ivi previsti».

La Corte, investita della questione, anche richiamando risalente giurisprudenza (Cass. civ., sez. I, 23 marzo 1996, n. 2572), ha ribadito  che: - «la posizione del consulente del fallimento non è in alcun modo assimilabile a quella degli ausiliari del giudice, inquadrandosi l'attività da lui svolta in un vero e proprio rapporto di prestazione d'opera professionale, le cui caratteristiche non subiscono alcuna modificazione per effetto della circostanza che la parte committente sia rappresentata dalla curatela fallimentare, in quanto quest'ultima non si avvale del professionista per riceverne un contributo tecnico al perseguimento delle finalità istituzionali della procedura, bensì, analogamente a quanto accade per l'avvocato al quale siano affidate la rappresentanza e la difesa in giudizio del fallimento, per l'assistenza di quest'ultimo nell'ambito di uno specifico procedimento giurisdizionale, in cui il curatore è costituito come parte in causa”; - “il consulente di parte svolge infatti, nell'ambito del processo, un'attività di natura squisitamente difensiva, ancorché di carattere tecnico, collaborando con l'avvocato al fine di sottoporre al giudicante rilievi a sostegno della tesi difensiva della parte assistita: la prestazione da lui resa non è pertanto equiparabile in alcun modo a quella del consulente tecnico d'ufficio, il quale opera in posizione d'imparzialità, fornendo al giudicante elementi di valutazione per la risoluzione di questioni il cui esame presupponga il possesso di specifiche cognizioni tecniche (c.d. consulenza deducente), nonché, in, casi particolari, procedendo egli stesso alla rilevazione di fatti il cui accertamento richieda l'utilizzazione delle predette competenze (c.d. consulenza percipiente)”; - “nessun rilievo può assumere, in contrario, l'attribuzione al giudice delegato del potere di liquidare il compenso dovuto al consulente di parte, nonché la previsione della reclamabilità del relativo provvedimento dinanzi al tribunale fallimentare”, né “è esatta l'affermazione secondo cui la designazione del consulente di parte è effettuata dal giudice delegato, al pari di quella del c.t.u. nominato nel giudizio di opposizione, trattandosi di una competenza spettante al difensore del fallimento, nell'esercizio dei poteri di conduzione della lite conferitigli con il mandato, i quali non differiscono da quelli previsti in linea generale dall'art. 84 cod. proc. civ.”; - “il contenuto tecnico della prestazione resa dal consulente di parte e lo svolgimento della stessa in favore della procedura non risultano pertanto sufficienti a giustificarne l'assimilazione all'attività del c.t.u., la quale non è ricollegabile ad un rapporto contrattuale, ma costituisce oggetto di un munus publicum, adempiuto in posizione d'imparzialità e nell'interesse dell'amministrazione della giustizia, laddove quella del consulente di parte si configura come un incarico professionale conferito esclusivamente a vantaggio della massa dei creditori”»

In definitiva: «“nella liquidazione del relativo compenso, non possono dunque trovare applicazione i criteri previsti per la determinazione delle spettanze degli ausiliari del giudice, dovendosi invece fare riferimento alle tariffe vigenti per la categoria professionale di appartenenza, non diversamente da quanto accade per il difensore del fallimento”; - “i differenti risultati cui conduce l'applicazione di ciascuno degl'indicati criteri di liquidazione non consentono poi di ritenere configurabile un'ingiustificata disparità di trattamento tra l'attività del consulente di parte e quella del c.t.u., tale da legittimare la disapplicazione dell'atto normativo secondario di approvazione della tariffa professionale (nella specie, il d.P.R. n. 645 del 1994, con cui è stato approvato il regolamento recante la disciplina degli onorari, delle indennità e dei criteri per il rimborso delle spese per le prestazioni professionali dei dottori commercialisti), trattandosi di situazioni non suscettibili di comparazione, avuto riguardo alla diversa posizione dei due professionisti ed alla differente natura dei rapporti posti a fondamento delle rispettive prestazioni” (Cass. civ., sez. I, 6 agosto 2014, n. 17708, in motiv.)».

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