Reato (risarcimento del danno non patrimoniale da)
Cristiana Gaia Cosentino
30 Luglio 2024
L'evoluzione e l'inquadramento del danno non patrimoniale come conseguenza delle ipotesi di reato previste nel codice penale, il cui risarcimento è previsto all'art. 185 c.p.
Inquadramento
Nell'impostazione originaria del codice civile, “danno morale” va inteso come sinonimo di “danno non patrimoniale”, come si ricava dalla Relazione Ministeriale del Guardasigilli al codice civile del 1942.
Inoltre, il codice civile non fornisce una autonoma definizione di danno non patrimoniale, limitandosi a sancire la tipicità dello stesso, «nei soli casi determinati dalla legge».
Il principale riferimento riguarda l'art.185 c.p. che prevede l'obbligo al risarcimento in capo al colpevole e alle persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per lui, del danno patrimoniale e non patrimoniale scaturente dalla commissione di un illecito penale.
In seguito, una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art.2059 c.c., ha esteso la nozione di danno non patrimoniale, non solo alle ipotesi tipiche, ma anche alle violazioni di diritti costituzionali inerenti la persona. Gli arresti della Suprema Corte del 2003 (Cass. Civ., sez. III, 11 novembre 2003 n. 8827 e Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003 n. 8828), hanno svincolato la risarcibilità del danno non patrimoniale dalla riserva di legge correlata all'art.185 c.p. Sicché, presupposto non è più e non è solo la qualificabilità del fatto illecito come reato bensì, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche la previsione della legge fondamentale, configurando un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
Le SS. UU. con le sentenze di San Martino del 2008, hanno sancito l'unitarietà del danno non patrimoniale, riconducibile alle categorie giuridiche di cui all'art.2043 c.c. (dolo, colpa, nesso di causalità, onere della prova) e comprendente non solo il danno ingiusto derivante da reato, ma anche la lesioni di diritti costituzionali inviolabili (id est: danno alla salute, danno parentale danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost.; Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2008, n. 25157).
Le Sezioni Unite, inoltre, hanno indicato una fondamentale distinzione:
ipotesi di reato ove, se la sofferenza soggettiva non trasmoda in un danno biologico, ma rimanga solo una sofferenza morale, l'art. 185 c. p. consente una autonoma risarcibilità di tale sofferenza;
e l'ipotesi di danno biologico, ove la sofferenza soggettiva, in quanto connaturata alla sofferenza psicofisica, è già risarcita con il complessivo risarcimento del danno alla salute. Semmai, si pone un'esigenza di “personalizzazione”; analogamente, ipotesi descritte come “danno alla vita di relazione”, “danno estetico”, etc., a ben vedere non sono che componenti del danno biologico, destinate a essere assorbite nella liquidazione di quest'ultimo, evitando inutili duplicazioni di poste risarcitorie.
La Cassazione, in particolare, ha apportato alcune significative precisazioni in tema di danno morale, ribadendo che la tradizionale figura del danno morale soggettivo transeunte è da considerarsi ormai superata ed evidenziando l'impossibilità di fare riferimento ad essa come ad un'autonoma sottocategoria di danno, trattandosi, invece, di una formula che descrive un tipo di pregiudizio non patrimoniale, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. L'intensità e durata nel tempo di tale sofferenza non assumono alcuna rilevanza ai fini dell'esistenza del danno, ma solo in relazione alla quantificazione del risarcimento.
Per la configurabilità del danno morale, quindi, il turbamento e la sofferenza morale non possono ridondare in alterazioni patologiche, fisiche o mentali che, invece, rientrano nel danno biologico.
La Suprema Corte, in particolare la III Sezione Civile, è ritornata, però, sull'argomento, rimarcando che il danno non patrimoniale, unitariamente considerato, è costituito da sottocategorie di danno in sé autonome, quali:
il danno biologico, cioè la lesione della salute;
il danno morale, cioè la sofferenza interiore, che consiste nel pretium doloris, ossia il patema d'animo interiore ed attiene alla sfera dell'integrità morale tutelata dall'art. 2 della Costituzione
e il danno dinamico-relazionale, consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona.
Tale orientamento trova riscontro nella modifica operata a livello legislativo dalle previsioni di cui all'art. 138 e 139 cod. ass.ni private. In particolare, l'ordinanza “decalogo” sul danno non patrimoniale (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513) afferma che il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di «altri interessi costituzionalmente tutelati», va liquidato, come nel caso di danno biologico, «tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con sé stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell'uno come nell'altro caso, senza automatismi risarcitori.
In evidenza
Chi commette reato commette per ciò stesso un illecito civile nei confronti del soggetto portatore dell’interesse penalmente tutelato: la vittima del reato. La lesione dell’interesse protetto dalla norma penale costituisce un danno ingiusto.
Natura giuridica dell'art. 185 c.p.
Il risarcimento del danno da reato è stato in maniera preponderante ricondotto alla categoria delle sanzioni civili e non quale sanzione penale.
Ciò, in primo luogo, perché lo scopo del risarcimento consiste nella riparazione di un danno, mentre la pena assolve alla funzione di retribuzione, nonché di prevenzione generale e speciale; inoltre, accanto all'autore del fatto, è obbligato al risarcimento anche il responsabile civile, mentre il destinatario della pena può essere soltanto il soggetto attivo del reato; infine, ulteriore caratteristica è la sopravvivenza delle obbligazioni derivanti dal reato, nonostante l'avvenuta estinzione del reato o della pena.
Secondo una parte della dottrina il risarcimento dei danni non patrimoniali presenta una duplicità di caratteri: un carattere risarcitorio nel contenuto e un carattere afflittivo sul piano teleologico, che lo assimilerebbe ad una sanzione penale.
La giurisprudenza di legittimità, da un lato, ha affermato che la causa del danno e la fonte della relativa obbligazione restitutoria o risarcitoria debbano essere costituite dal reato, secondo il disposto dell'art. 185 c.p. e che la norma de qua, lungi dal rafforzare la tesi del carattere meramente sanzionatorio del diritto penale, costituisce il fondamento delle obbligazioni ex delicto, delineandone la natura autonoma ed originale siccome correlata eziologicamente alla commissione di un fatto costituente reato (Cass. civ., Sez. I, 26 maggio 1981); dall'altro, ha affermato che il diritto alla restituzione ed al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale ha natura civilistica e che le disposizioni dell'art. 185 c.p. non hanno efficacia costitutiva di tali diritti, ma mera funzione di regole integratrici dei generali principi degli artt. 2043 e 2059 c.c., che ne fanno un'enunciazione ed un'applicazione più ampia di quella penale (Cass. civ., Sez. VI, 21 gennaio 1992).
Criteri di accertamento del danno non patrimoniale da reato
Seppur una prima interpretazione del collegamento tra art. 185 c.p. ed art. 2043 c.c. riteneva il necessario accertamento dei presupposti previsti per la sussistenza di una responsabilità penale, successivamente si è affermato che la risarcibilità del danno non patrimoniale, a norma dell'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 c.p., non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente previsto come tale (Cass. civ., Sez. III, 20 luglio 2002). Sotto tale profilo, i giudici di legittimità hanno chiaramente sottolineato che alla risarcibilità del danno non patrimoniale exartt. 2059 c.c. e art. 185 c.p. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell'autore del danno se essa, come nei casi di cui agli artt. 2051 e 2054 c.c., «debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato» (Cass. civ., sez. III, 12 maggio 2003).
Sui medesimi presupposti la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., affermando che in sede civile è possibile avvalersi delle presunzioni di colpa senza che occorra dimostrare l'esistenza in concreto del reato.
Il riferimento al "reato" contenuto nell'art. 185 c.p. va inteso, secondo la Corte costituzionale, come astratta fattispecie di reato e da ciò ne deriverebbe l'irrilevanza dell'accertamento della colpa e la possibile applicazione dei parametri presuntivi previsti per l'accertamento della responsabilità civile (Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233).
La Corte ha infatti chiarito che «il riferimento al "reato" contenuto nell'art. 185 c.p. non postula più, come si riteneva per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge» (Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233).
Sotto il profilo soggettivo, occorre rilevare che il danno (patrimoniale e non patrimoniale), cui si fa riferimento nell'art. 185 c.p., non coincide con l'offesa necessaria per la configurabilità del reato, poiché si tratta di due categorie concettualmente distinte: mentre il danno è riconducibile alle conseguenze pregiudizievoli di natura privata, patrimoniali o non patrimoniali, derivanti dal reato e che debbono essere risarcite, per offesa deve intendersi la lesione o messa in pericolo del bene giuridico specificamente tutelato dalla fattispecie incriminatrice.
Al riguardo, una recente pronuncia della Suprema Corte ha evidenziato che compete il risarcimento a colui che, pur non essendo persona offesa dal reato, ha comunque subito un danno derivante dall'ingiusta condotta (Cass. civ., sez. VI, 26 maggio 2021, n. 14453).
Infatti, l'individuazione della persona offesa non esaurisce l'individuazione di ogni possibile danneggiato civile dal reato, dovendo quest'ultimo essere accertato con riferimento al caso concreto (cfr Cass. civ., sez. III, 23 aprile 1999, n. 4040). Ciò trova fondamento normativo, oltre che nell'art.185 c.p., anche nell'art. 74 c.p.p. che espressamente riconosce ad ogni «soggetto al quale il reato ha recato danno», il diritto di esercitare l'azione civile nel processo penale, attraverso la costituzione di parte civile, «per le restituzioni e per il risarcimento del danno dì cui all'art. 185 c.p.».
La risarcibilità del danno non patrimoniale va ricondotta alla prima delle tre ipotesi sopra indicate (danno derivante da fatto illecito astrattamente configurabile come reato), con la conseguenza che la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale.
Alla luce di tale chiara indicazione ermeneutica, ha concluso la Suprema Corte, si rivela pertanto insufficiente a giustificare il diniego della risarcibilità del danno non patrimoniale da fatto-reato la sola constatazione che esso non abbia leso l'integrità psicofisica del danneggiato, occorrendo comunque valutare se abbia leso interessi della persona di altra natura tutelati dall'ordinamento.
Resta fermo che l'evento di danno (ossia la lesione dell'interesse della persona) deve essere correlabile, secondo nesso di causalità materiale, al fatto illecito: il danno non patrimoniale non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento (danno-evento), ma con le conseguenze di tale lesione (danno-conseguenza), sicché la sussistenza di siffatte conseguenze pregiudizievoli e il loro collegamento all'evento dannoso devono comunque essere oggetto di allegazione e prova, anche di tipo presuntivo.
ORIENTAMENTI A CONFRONTO
Astratta configurabilità del reato
Cass. civ., Sez. III, 18 agosto 2011
“Anche nel caso in cui l'accertamento della responsabilità è stato effettuato in base a colpa presunta, senza alcun concreto accertamento e qualificazione del fatto come reato, il danno non patrimoniale è risarcibile, non essendo necessario che il fatto illecito integri in concreto un reato punibile, per concorso di tutti gli elementi a tal fine rilevanti per la legge penale, essendo invece sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente preveduto come reato e sia conseguentemente idoneo a ledere l'interesse tutelato dalla norma penale, ricomprendendosi in questa ipotesi anche la responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c.”
Persona offesa e danneggiato
(Cass. Civ., sez. I, 21 ottobre 2014, n. 46084)
Legittimato all'esercizio dell'azione civile nel processo penale non è solo il soggetto passivo del reato, ma anche il danneggiato che abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo del reato.
Nesso di causalità
Cass. Civ., Sez. VI, 2.12.2014, n. 11295
La responsabilità civile derivante da reato ha ad oggetto ogni danno eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo del reato e tale rapporto di causalità sussiste anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, abbia tuttavia prodotto uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato.
I soggetti obbligati
A mente dell'art.185 c.p., oltre all'autore del fatto dannoso anche altri soggetti possono, secondo le norme civilistiche, essere obbligati al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale.
Il responsabile civile è il soggetto giuridico tenuto al risarcimento dei danni in quanto obbligato a rispondere per il fatto altrui, ex artt. 185 c.p. e 83 c.p.p. (Cass. civ., sez. IV, 1 febbraio 2012, n. 10701).
Il primario riferimento concerne le norme civilistiche che fissano i criteri di imputazione del danno nei confronti dei genitori e dei precettori (art. 2048 c.c.), ove tale responsabilità si fonda, per il fatto illecito dei figli minori, non soltanto sul difetto di sorveglianza del figlio, ma anche sulla mancata o trascurata educazione del medesimo.
La responsabilità stessa è presunta ed il genitore non può liberarsi da essa se non dimostrando l'assenza di ogni colpa precedente il fatto illecito nell'esercizio dei doveri relativi all'educazione del figlio (Cass., Sez. II, 28.10.1975).
Altra norma di riferimento è l'art. 2049 c.c., secondo cui i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.
Al riguardo la Cassazione ha precisato che, ai fini del riconoscimento della responsabilità risarcitoria del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2049 c.c. per il reato commesso dal proprio dipendente, deve restare provato, tra l'evento pregiudizievole e l'ambito delle mansioni attribuite al dipendente, un rapporto di occasionalità necessaria, che si ravvisa quando l'attività svolta dal lavoratore abbia determinato, nella sua estrinsecazione, una situazione tale da agevolare, o comunque rendere possibile, il fatto illecito, anche se, nella condotta delittuosa, il dipendente abbia superato i limiti delle incombenze connesse alle mansioni attribuitegli (Cass. civ., sez. II, 7 novembre 2000). Non è necessaria l'esistenza di uno stabile rapporto di lavoro subordinato, ma è sufficiente che l'autore del fatto illecito sia legato all'imprenditore temporaneamente od occasionalmente e che l'incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso (Cass. civ., sez. V, 22 marzo 2013, n. 32462).
Al contrario, la Suprema Corte ha escluso la responsabilità civile della società per i danni da reato commessi dai soci o dagli amministratori nell'interesse proprio, non potendo essa trovare fondamento né nell'art. 2049 c.c. - per mancanza di un rapporto di subordinazione tra società e soci o amministratori - né nel principio di immedesimazione, che presuppone, invece, che gli atti illeciti siano, o si manifestino, come esplicazione dell'attività dell'ente (Cass. civ., Sez. VI, 22 maggio 2013, n. 24548).
Mentre, in tema di responsabilità civile da reato fondata sull'art. 2049 c.c., sussiste la responsabilità del committente per l'attività illecita posta in essere dall'agente, anche privo del potere di rappresentanza, quando la commissione dell'illecito sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze demandate a quest'ultimo e il committente abbia avuto la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza (Cass. civ., Sez. V, 9 febbraio 2016, n. 7124).
Parimenti, la responsabilità civile della P.A. per il reato commesso dal dipendente presuppone un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate, che ricorre quando l'illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti svolti, anche se il soggetto ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti (Cass. civ., sez. III, 5 giugno 2013, n. 40613).
Diversamente, non è configurabile la responsabilità civile della P.A. quando il dipendente, nello svolgimento delle mansioni affidategli, commetta un illecito penale per finalità di carattere personale, di fatto sostituite a quelle dell'ente pubblico di appartenenza ed, anzi, in contrasto con queste ultime (Cass. civ., Sez. VI, 27 marzo 2013, n. 26285).
Criteri di liquidazione del danno non patrimoniale da reato: funzione compensativa
Conforme all'idea di sanzione civile, l'individuazione dei criteri per la determinazione del danno non patrimoniale da reato passa per la finalità compensativa ad essa sottesa, sicché lo stretto collegamento con la fattispecie penale in sé considerata ha indicato quale primario criterio di riferimento la gravità del reato, nonché i parametri della determinazione della pena e in particolare l'intensità del dolo e il grado della colpa (art. 133, n. 3 c.p.).
Così, ferma restando la necessità di una liquidazione equitativa, soprattutto per la giurisprudenza di legittimità più risalente, occorre tener conto della gravità del reato, desunta da una serie di elementi, tra i quali l'intensità del dolo ed il grado della colpa, intendendosi per tale il livello di essa e non già l'entità dell'apporto causale del danneggiante alla determinazione dell'evento, da considerare, invece, a norma dell'art. 1227 cod. civ., ai fini della diminuzione del risarcimento (Cass. Civ. sez. III, 25 ottobre 2002, n. 15103). In altre pronunce, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo, quale parametro base per la liquidazione, la pena pecuniaria edittale prevista per il reato fonte di danno (Cass. civ., sez. III, 5 febbraio 1998, n. 1164).
In particolare, si ritiene legittima la determinazione del danno morale quale frazione dell'importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico purché il giudice abbia tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, effettuando la necessaria personalizzazione di detto criterio (Cass. civ. sez. III, 9 novembre 2006, n. 23918; Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2004, n. 10035).
Tuttavia, deve sottolinearsi che alcune pronunce della Suprema Corte tenevano già in debito conto l'autonoma rilevanza del danno morale rispetto alla lesione del diritto alla salute, in relazione alla diversità del bene protetto, che pure attiene ad un diritto inviolabile della persona ovvero all'integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, desumibile dall'art. 2 Cost. in relazione all'art. 1 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall'Italia con l. n. 190/2008 (Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2010, n. 702). Sicché, ritenevano errata la liquidazione di tale pregiudizio in misura pari ad una frazione dell'importo liquidato a titolo di danno biologico, perché tale criterio non rende evidente e controllabile l'iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione né permette di stabilire se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo (Cass. civ., Sez. III, 16 febbraio 2012, n. 2228).
In seguito la giurisprudenza di legittimità, lungi dallo sconfessare il carattere unitario del danno non patrimoniale, ha distinto quali sottocategorie di danno, in funzione descrittiva, da un lato la duplice componente del danno all'integrità psicofisica, quella biologica e dinamico-relazionale, che emerge dall'accertamento medico legale; e, dall'altro, quella della sofferenza interiore (danno morale), attraverso parametri tabellari che consentissero un'adeguata personalizzazione del danno, senza automatismi.
Nella c.d. “Ordinanza decalogo” (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513) la Suprema Corte ha affermato che l'attribuzione di un'ulteriore somma per il risarcimento del pregiudizio che non ha fondamento medico legale (c.d. sofferenza interiore) non costituisce un'indebita duplicazione e che, ai fini della relativa liquidazione, è possibile fare ricorso al ragionamento probatorio di tipo presuntivo.
Un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all'accertamento del danno morale, quale autonoma componente del danno alla salute, viene considerato quello della corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all'insorgere di una sofferenza soggettiva: tanto più grave, difatti, sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l'esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall'aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa (così, Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2020, n. 25164).
Sicché, il danno morale è stato quantificato nella percentuale forfettaria indicata nella tabella del Tribunale di Milano (incremento per sofferenza), stante la normale corrispondenza in termini di proporzionalità diretta tra gravità della lesione e sofferenza soggettiva. E, tuttavia, la Cassazione ha sancito ulteriormente che, nel procedere alla liquidazione del danno alla salute secondo tali tabelle, attesa l'autonoma rilevanza del danno morale rispetto al danno dinamico-relazionale, il giudice deve:
accertare l'esistenza, nel caso, di un eventualeconcorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale;
in caso di positivo accertamento, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le suddette Tabelle, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno mediante indicazione di un valore monetario complessivo;
in caso di negativo accertamento (con esclusione della componente morale del danno), considerare la sola voce del danno biologico depurata dall'aumento previsto dalle Tabelle per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, liquidando conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale;
in caso di positivo accertamento dei presupposti per la cd. personalizzazione del danno, procedere all'aumento (fino al 30%) del valore del solo danno biologico depurato, analogamente a quanto indicato al precedente punto 3), dalla componente morale del danno inserita in Tabella, ai sensi dell'art. 138, comma 3 c.p.c. (Cass. Civ., Sez. III, 22 marzo 2024, n. 7892).
Lo scollamento tra criteri determinativi del danno biologico e quelli in via percentuale del danno morale appare più evidente nel caso di condotte dolose, in cui alla lieve entità del danno all'integrità psico-fisica si contrappone il fatto illecito violento, di natura dolosa, da cui è derivata la lesione alla persona, che implica una diversa valutazione in termini di danno morale, tale da giustificare anche uno sconfinamento dai parametri tabellari ordinari (Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2019, n. 32787).
Sicché l'intensità del dolo conduce a presumere una sofferenza morale maggiore rispetto a quella attribuita in misura standard dalle tabelle, anche se non viene ravvisata la lesione di ulteriori interessi costituzionalmente rilevanti.
Mentre, in altri casi, la lesione del diritto alla salute può accompagnarsi alla compromissione di interessi ulteriori rispetto alla mera menomazione dell'integrità psicofisica, essendo il danno morale non soltanto pretium doloris, ma anche la risposta satisfattiva alla lesione della libertà e dignità umana, che vengono incise da una condotta intenzionalmente prevaricatrice (Cass. civ. sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530).
Ad esempio, nei casi di violenza sessuale, l'integrità psicofisica risulta solo uno dei beni della vita compromessi, venendo comunque in rilievo sempre la lesione della libertà, ove il danno alla salute può essere minimale rispetto al danno più rilevante alla libertà sessuale, alla libertà personale, all'onore, alla reputazione, ecc.
Funzione punitiva
Parte della dottrina, nella tendenza espressa dalla giurisprudenza ad aumentare la posta del danno morale in funzione della gravità della condotta e dei profili soggettivi della stessa, ha ravvisato il mascheramento della sostanziale irrogazione di sanzioni pecuniarie punitive. E' stato quindi evidenziato che, alla funzione tradizionale della responsabilità civile, si è affiancata una funzione sostanzialmente punitiva, alla cui ammissibilità in astratto non si sono opposte le Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601) e che, in definitiva, recupera l'autonoma ragion d'essere dell'art. 2059 c.c.
La funzione punitivo-preventiva della riparazione del danno da reato trova, innanzitutto, il suo fondamento nell'art. 185, comma 2 c.p., il quale, nel prendere in considerazione lo specifico delitto integrato in concreto dalla condotta del danneggiante, impone al giudice di condannare il colpevole (e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui) al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale cagionato con la commissione di un fatto-reato.
Se non si vuole che anche l'art. 185 c.p. (oltre all'art. 2059 c.c.) corra il rischio di essere implicitamente abrogato in via interpretativa, divenendo uno sterile duplicato dell'art. 2043 c.c., è necessario riconsiderare l'autonoma e peculiare funzione che la responsabilità assolve in presenza di un danno causato da una condotta delittuosa e che, pertanto, «risente dell'accessorietà rispetto al singolo reato di riferimento».
Effettivamente appare chiaro che in concreto, per quantificare il danno non patrimoniale, l'attenzione dell'interprete non si focalizza nell'immediato sull'apprezzamento dell'intensità della sofferenza, ma si incentra sul livello di antigiuridicità della condotta.
Ciò non significa però che la gravità dell'offesa (cioè, appunto, il livello di antigiuridicità della condotta) assuma necessariamente una rilevanza autonoma, quanto che la stessa costituisce un parametro per l'applicazione del ragionamento probatorio di tipo presuntivo, pure avallato dalla giurisprudenza di legittimità, stante l'indubbia difficoltà di accertare e misurare la sofferenza interiore della vittima.
Da tale modus operandi emerge soprattutto che una componente rilevante della sofferenza interiore è il sentimento di subire un'ingiusta e grave offesa a un diritto fondamentale, considerazione che giustifica l'autonoma previsione dell'art. 2059 c.c. accanto alla norma generale di cui all'art. 2043 c.c., ma non elide la necessità a livello teorico dell'esistenza di un danno conseguenza, seppure portando a un rilevante sgravio dell'onere probatorio.
La giurisprudenza di legittimità appare infatti allo stato consolidata nel mantenere - almeno a livello teorico - la rilevanza autonoma del danno conseguenza ai fini della liquidazione del danno. Sulla scia di tale orientamento, certa dottrina propugna la distinzione tra i danni patrimoniali e non patrimoniali “da reato” (sia da torto sia da contratto), per i quali la riparazione ha finalità essenzialmente deterrenti e punitive, rispetto a quella distinta partizione tra i danni patrimoniali e non patrimoniali soltanto civili (sia contrattuali sia extracontrattuali), per i quali il risarcimento ha una funzione prevalentemente compensativa.
Lungi dall'attribuire un arricchimento senza giusta causa, tale dottrina ritiene che «in funzione dei più intensi patemi accertati», in conseguenza delle modalità con le quali è stato commesso il delitto, oltre a dissuadere l'agente dal commettere ulteriori analoghi reati, non rappresenta «alcun surplus risarcitorio», in quanto alla vittima è concessa una somma che è anche «votata a controbilanciare quel che, direttamente o indirettamente, ha sofferto», nell'ottica di far “internalizzare” all'agente i costi delle sue azioni.
Tale funzione viene svolta negli ordinamenti anglosassoni dai cd. punitive damages che rappresentano una forma di «risarcimento pieno», il quale tende a perseguire tre obiettivi principali:
«punire in modo esaustivo l'offensore per la sua condotta» antigiuridica;
«ricompensare la parte lesa con una somma che è superiore e ulteriore rispetto all'importo previsto per il solo risarcimento»;
perseguire una essenziale finalità di deterrenza, «cercando di distogliere il colpevole e la collettività dal tenere comportamenti socialmente dannosi, laddove la minaccia del solo risarcimento possa essere inadeguata rispetto all'offesa subita e alla riprovevolezza della condotta tenuta dal danneggiato.
Tale concezione del danno da reato si sta facendo strada nella recente giurisprudenza della Suprema Corte, soprattutto in materia di diffamazione a mezzo stampa ovvero di lesione alla reputazione ed in tutti quei reati ove il danno morale assume preponderante evenienza, nella necessità di individuare parametri quantitativi che attingono a piene mani nelle maglie dell'illecito penale quale «sofferenza soggettivacagionata dal reato in sé considerata, la cui intensità e durata nel tempo rilevano non già ai fini della esistenza del danno, bensì della mera quantificazione del relativo ristoro» (Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361). Così, in definitiva, la Suprema Corte sancisce l'esistenza, accanto «alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell'istituto,lanatura polifunzionale della responsabilità civile «che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio punitiva».
Questa «curvatura deterrente/sanzionatoria» della responsabilità civile, che rappresenta la conseguenza del «panorama normativo che si è venuto componendo », richiede, però, un'«“intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all'art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25 Cost.), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali» (Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601), che ben può ricondursi nell'art.185 c.p., secondo tale filone dottrinario.
Ciò trova logico riscontro nell'art. 198 c.p. il quale dispone che persino «l'estinzione del reato o della pena non importa l'estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato» (ex art. 185 c.p.).
Quindi, in presenza dell'estinzione del reato o della pena, stante l'impossibilità di condannare il responsabile alle sanzioni edittali previste dalla fattispecie incriminatrice, il legislatore demanda alla riparazione pecuniaria del danno le funzioni sia di “risarcire” la vittima sia di sanzionare l'agente per la commissione dell'illecito sia di prevenire, per il futuro, ulteriori analoghe condotte antigiuridiche.
Secondo tale dottrina, l'entità della riparazione può essere determinata utilizzando come “parametri” funzionalmente compatibili quelli dettati proprio dal legislatore per la commisurazione della pena pecuniaria.
Il giudice potrebbe, quindi, tener conto, oltre alla gravità del reato desunta dall'entità «del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa» (art. 133, comma 1, n. 2, c.p.), dall'intensità del dolo e dal grado della colpa (n. 3), dalla «natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione» (n. 1), anche, in relazione al carattere di maggiore o minore antigiuridicità della condotta, «della capacità a delinquere del colpevole » (art. 133, comma 2 c.p.) e delle condizioni economiche del reo (art.133 bis c.p.).
Sotto tale profilo, alcuna parte della dottrina, sensibile alla necessità di trovare parametri certi in relazione alla determinazione del danno non patrimoniale con riferimento ai reati dolosi, evidenzia la rilevanza della gravità della condotta subita dal danneggiato, in quanto:
l'offesa è maggiore per il danneggiato il quale sia stato vittima di una condotta intenzionale o, comunque, di una situazione di rischio tollerata ed accettata dal responsabile civile, magari in vista di un maggior profitto, per ragioni di risparmio o per altri abietti motivi;
sarebbe discriminatorio ai fini della responsabilità trattare allo stesso modo un soggetto che abbia cagionato un danno per mera sventura (per es. un errore umano in ambiti a rischio, come nel caso di tutta una serie di attività mediche) ed un soggetto il quale abbia agito con dolo oppure abbia messo in conto l'eventualità più che probabile di cagionare un danno.
Tale dottrina dunque propone delle scale di graduazione degli incrementi del danno non patrimoniale commisurati ai diversi gradi dell'elemento soggettivo ovvero in considerazione degli eventuali benefici economici conseguiti dal danneggiante.
Sotto tale profilo, anche le Tabelle Milanesi sulla determinazione del danno parentale (ed. 2021-2022) consentono nei reati dolosi di pervenire ad una liquidazione che superi l'importo massimo previsto nelle tabelle stesse, in considerazione della (di regola) maggiore intensità delle sofferenze patite.
Parimenti, nelle cd. Tabelle Romane si afferma che «in presenza di un caso che si allontana dalle caratteristiche del cd caso medio in base al quale sono state redatte», il giudice rimane totalmente libero di «liquidare le somme che a suo avviso costituiscano il corretto risarcimento, salvo offrire una adeguata motivazione».
Fattispecie penali particolari
Di seguito si analizzano particolari fattispecie penali in correlazione all'individuazione e alla quantificazione del danno non patrimoniale da reato.
Onore e reputazione
Sul piano giuridico, l'onore può essere definito come «la dignità personale riflessa nella considerazione dei terzi e nel sentimento della persona medesima».
Sotto il profilo sociale, questo attributo della personalità prende il nome di reputazione.
Sono numerose le norme poste a protezione della dignità dell'uomo, sia in quanto persona sia come manifestazione della personalità in rapporto con gli altri, a cui si aggiunge il decoro, quale manifestazione esteriore della dignità umana: si parte dalla Costituzione (artt.2 e 3), passando per il diritto penale (artt. 594 c.p. e 595 c.p.) al diritto civile (artt. 2577 c.c. e 2579 c.c.), al diritto d'autore (L. n. 633/1941), fino ad arrivare alla tutela del lavoratore (l. n. 300/1970).
La matrice costituzionale implica una tutela civilistica che esula dai limiti della tutela penale.
Infatti, la Cassazione si è pronunciata al riguardo affermando che il diritto alla reputazione personale va riconosciuto al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo, in particolare nell'art. 2 Cost. e nel riconoscimento dei diritti inviolabili della persona (Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507).
In particolare, con riferimento al risarcimento del danno, esso non richiede che la responsabilità dell'autore del fatto illecito sia stata accertata in un procedimento penale, in quanto il riferimento al reato contenuto dall'art.185 c.p. comprende tutte le fattispecie corrispondenti nella loro oggettività all'astratta previsione di una figura di reato. Tale principio di diritto è stato sancito anche di recente, trattandosi di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, la cui lesione fa sorgere in capo all'offeso il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato, sicché ai fini risarcitori è irrilevante che sussistano gli elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrici poste a tutela dei detti beni (Cass. civ., sez. III, 15 giugno 2018, n. 15742): quindi, ai fini risarcitori, è del tutto irrilevante che il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa (Cass. civ., sez. III, 2 dicembre 2014, n. 25423).
Ciò ha indotto, negli ultimi anni, il sopravvento dell'azione risarcitoria civilistica rispetto alla costituzione di parte civile nel procedimento penale, senza considerare la depenalizzazione di alcuni reati quali l'ingiuria, in virtù del d.lgs. n. 7/2016.
La determinazione del quantum debeatur per i danni non patrimoniali viene effettuata sulla base di una valutazione equitativa operata dal giudice (art.1226 c.c. e art. 2056 c.c.), che deve tener conto di parametri razionali, quali la gravità del reato o l'entità della lesione (cfr. art. 133 c.p.), avendo presente da un lato, la qualità del soggetto leso; dall'altro – negli illeciti contro l'onore provocati dall'abuso nella libertà di informazione – la natura del mezzo di informazione, le modalità grafiche di presentazione della notizia ovvero la tiratura del periodico.
Se da un lato, pertanto, la quantificazione del danno sfugge ad una valutazione analitica, tuttavia il Giudice è chiamato ad indicare i criteri seguiti per una quantificazione proporzionata tanto alla gravità del reato quanto all'entità delle sofferenze patite dalla vittima, nonché considerando, tra gli altri, l'età, il sesso, il grado di sensibilità del danneggiato ovvero delle condizioni sociali del danneggiato in rapporto alla sua collocazione professionale e, più in generale, al suo inserimento nel contesto sociale, in relazione al concreto atteggiarsi della condotta lesiva: elementi, questi, che valgono a dare una più esatta dimensione quantitativa al discredito che l'offesa è in grado di produrre e, in definitiva, al pregiudizio da risarcire (cfr. Cass. civ., sez. III, 2 luglio 1997 n.5944), in modo da assicurare una razionale correlazione tra l'entità oggettiva del danno ed il suo equivalente pecuniario, sicché questo non rappresenti una mera parvenza di risarcimento. Ne consegue che l'esercizio del potere discrezionale attribuito al riguardo al giudice di merito è censurabile ogni volta che la liquidazione appaia irrisoria o simbolica (cfr. Cass. civ., sez. III, 2 marzo 1998, n. 2272).
Così, in particolare, con riguardo alle ipotesi di abuso del diritto di cronaca, qualora la lesione si sia consumata con il mezzo televisivo, la giurisprudenza ha riconosciuto che si possa tener conto, ai fini della liquidazione, della durata delle immagini e della diffusione del programma, ovvero nell'ambito imprenditoriale, l'ambiente ove la divulgazione ha avuto luogo ed anche l'atteggiamento di collaborazione o di non collaborazione all'elisione o riduzione del danno, tenuto dal giornale o dal direttore.
Si associano, quindi, parametri tipici della fattispecie penale, quali l'intensità del dolo o il grado della colpa.
È appena il caso di rilevare, in tema di onere della prova, che la granitica giurisprudenza di legittimità esclude la sussistenza di un danno in re ipsa, dovendosi allegare e provare il danno subito in concreto anche attraverso l'indicazione degli elementi costitutivi e delle circostanze di fatto da cui desumerne, sebbene in via presuntiva, l'esistenza (Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2022, n.34026).
Sotto tale profilo, rileva una pronuncia del Tribunale di Milano (Trib. Milano, 12 maggio 2021), in materia di risarcimento del danno non patrimoniale per il reato di calunnia a seguito di una denuncia per violenza sessuale rilevatasi poi infondata, in cui proprio l'instaurazione del procedimento penale a seguito della querela sporta dalla convenuta per il reato exart. 609 bis comma 1 e comma 3 c.p. e art. 61 comma 5 c.p. ha determinato in via presuntiva la lesione dell'onore e della reputazione dell'attore, in considerazione della gravità e della rilevanza, anche da un punto di vista sociale, dell'addebito penale mosso nei suoi confronti, della durata del relativo processo, nonché dell'accertata insussistenza del fatto attribuito. Sicché, ai fini della liquidazione del danno, vengono valorizzati alcuni parametri quali:
la gravità del fatto di reato attribuito all'attore;
la durata del relativo procedimento penale;
la natura “calunniosa” della querela sporta dalla convenuta cui è seguito il procedimento penale a carico dell'attore.
Appare opportuno, infine, rammentare che l'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano (Tabelle 2021 e 2024), riprendendo l'edizione del 2018, ha elaborato cinque diverse tipologie di ipotesi diffamatorie in ordine decrescente alle quali applicare differenti scaglioni di importi, calcolati in relazione alle sentenze raccolte ed esaminate ed ai criteri orientativi enucleati.
Tali Tabelle hanno trovato recente conferma dalla Suprema Corte, prevendendo parametri oggettivi e largamente diffusi (Cass. civ., sez. I, 27 marzo 2024, n. 8248). In particolare:
1) diffamazioni di tenue gravità: danno liquidabile nell'importo da euro 1.175,00 ad euro 11.750,00:
- limitata/assente notorietà del diffamante,
- tenuità dell'offesa considerata nel contesto fattuale di riferimento,
- minima/limitata diffusione del mezzo diffamatorio,
- minimo/limitato spazio della notizia diffamatoria,
- assente risonanza mediatica,
- tenue intensità elemento soggettivo,
- intervento riparatorio/rettifica del convenuto.
2) diffamazioni di modesta gravità: danno liquidabile nell'importo da euro 11.750,00 ad euro 23.498,00:
- limitata/modesta notorietà del diffamante,
- limitata diffusione del mezzo diffamatorio (1 episodio diffamatorio a diffusione limitata),
- modesto spazio della notizia diffamatoria,
- modesta/assente risonanza mediatica,
- modesta intensità elemento soggettivo.
3) diffamazioni di media gravità: danno liquidabile nell'importo da euro 23.498,00 ad euro 35.247,00:
- media notorietà del diffamante,
- significativa gravità delle offese attribuite al diffamato sul piano personale e/o professionale,
- uno o più episodi diffamatori,
- media/significativa diffusione del mezzo diffamatorio (diffusione a livello nazionale/significativa diffusione nell'ambiente locale di riferimento),
- eventuale pregiudizio al diffamato sotto il profilo personale e professionale,
- natura eventuale del dolo.
4) diffamazioni di elevata gravità: danno liquidabile nell'importo da euro 35.247,00 ad euro 58.745,00:
- elevata notorietà del diffamante,
- uno o più episodi diffamatori di ampia diffusione (diffusione su quotidiano/trasmissione a diffusione nazionale),
- notevole gravità del discredito e eventuale rilevanza penale/disciplinare dei fatti attribuiti al diffamato,
- eventuale utilizzo di espressioni dequalificanti/denigratorie/ingiuriose,
- elevato pregiudizio al diffamato sotto il profilo personale, professionale e istituzionale,
- risonanza mediatica della notizia diffamatoria,
- elevata intensità elemento soggettivo.
5) diffamazioni di eccezionale gravità: danno liquidabile in importo superiore ad euro 58.745,00.
CASISTICA
Onere della prova
Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24474
Nella diffamazione a mezzo stampa, il danno alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non é in re ipsa, ma richiede che ne sia data prova, anche a mezzo di presunzioni semplici. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di condanna al risarcimento dei danni, richiesta da un noto giornalista, di cui in un articolo di stampa si insinuava che fosse fra i clienti di una casa di appuntamenti, ritenendo lecito presumere che la pubblicazione di tale notizia avesse inciso sui sentimenti degli stretti congiunti di quest'ultimo, così pregiudicandone, per un non breve periodo di tempo, la serenità ed i rapporti familiari).
Criteri di liquidazione
Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2017, n. 13153
In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la prova del danno non patrimoniale può essere fornita con ricorso al notorio e tramite presunzioni, assumendo, come idonei parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale.
Cass. civ., sez. III, 18 febbraio 2020, n. 4005
Il danno all'immagine ed alla reputazione (nella specie, per un articolo asseritamente diffamatorio), inteso come "danno conseguenza", non sussiste in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Pertanto, la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, sulla base non di valutazioni astratte, bensì del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, che siano fondate, però, su elementi indiziari diversi dal fatto in sé, ed assumendo quali parametri di riferimento la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima.
Danno presuntivo
Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2023, n. 19551
In tema di risarcimento del danno non patrimoniale subìto dalle persone giuridiche, il pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all'immagine e alla reputazione commerciale, non costituendo un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che - pur ritenendo lesive dell'immagine della società attrice le numerose mail inviate ad interlocutori istituzionali da un dipendente licenziato, nelle quali si attribuivano alla società datrice di lavoro comportamenti non etici - aveva rigettato la domanda risarcitoria, in difetto di prova del danno conseguenza per mancanza di elementi dai quali ricavare, neanche con il ricorso a presunzioni semplici, che i destinatari delle mail avessero avuto effettiva contezza delle recriminazioni dell'ex dipendente, con conseguente pregiudizio per l'immagine societaria, quali affari o relazioni commerciali non conclusi in conseguenza della condotta diffamatoria realizzata).
Tabelle Milanesi
Cass. civ., sez. I, 27 marzo 2024, n. 8248
In tema diffamazione a mezzo stampa, al fine di garantire un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto ed un'uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno non patrimoniale deve essere liquidato, in via equitativa, secondo i criteri elaborati dal Tribunale di Milano, che prevedono, salva la possibilità di applicare dei correttivi alla luce della specifica situazione, parametri oggettivi e largamente diffusi, tra i quali: la notorietà del diffamante, la carica pubblica o il ruolo istituzionale o professionale eventualmente ricoperti dalla persona diffamata, la natura della condotta diffamatoria, l'esistenza di condotte diffamatorie singole o reiterate, lo spazio occupato dalla notizia diffamatoria, l'intensità dell'elemento psicologico in capo all'autore della diffamazione, il mezzo con cui è stata perpetrata la diffamazione e la sua diffusione, la risonanza mediatica suscitata dalle notizie, la natura e l'entità delle conseguenze sull'attività professionale e sulla vita del diffamato, la rettifica successiva o lo spazio dato a dichiarazioni correttive del diffamato.
Violenza sessuale
La giurisprudenza di legittimità è condivisibilmente orientata nel senso di ritenere che la condotta vietata dall'art. 609 bis c.p., ricomprende, oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest'ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale.
Da ciò ne deriva che il baricentro dell'incriminazione si è spostato da un aspetto della tutela riguardante la mera libertà sessuale, come bene giuridico rientrante nella categoria della moralità pubblica del buon costume (Titolo IX, capo I del codice penale), ad un altro aspetto della tutela, che contiene il primo ma non lo esaurisce, riguardante la libertà personale tout court, comprendente anche e soprattutto il diritto della libera autodeterminazione sessuale, come potere di disporre della propria persona e del proprio corpo, senza che siano ammesse intrusioni non consentite dal titolare del diritto: perché la violenza penalmente rilevante non consiste necessariamente nell'uso della forza fisica diretta a percuotere o a ledere ma può risolversi nell'uso di una qualsiasi energia, anche di ridottissime proporzioni, prodotta dal movimento corporeo che attinge una persona senza consenso o a sua insaputa per impedirne il dissenso.
Tant'è che l'iniziale consenso prestato dalla vittima non riveste alcuna efficienza concausale rispetto alla condotta dell'autore dell'illecito, allorquando ad esso abbia fatto seguito un successivo dissenso, degradando, in tal caso, il consenso iniziale a mera occasione, eziologicamente irrilevante rispetto alla condotta medesima (Cass. civ., Sez. III, 14 settembre 2022, n. 27016).
Sotto il profilo dei criteri di determinazione del danno non patrimoniale, la giurisprudenza di merito ha evidenziato in presenza di reati dolosi quali la violenza sessuale e le lesioni subite una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche e delle conseguenze dinamico-relazionali patite dalla vittima rispetto ai di reati colposi o altri atti/fatti privi di rilevanza penale.
Ciò giustifica la personalizzazione del pregiudizio in termini pressoché doppi della personalizzazione massima prevista dalla Tabella Milanese in materia di danno biologico, sia temporaneo che permanente e da applicarsi sui valori compensativi sia dei pregiudizi dinamico-relazionali sia della sofferenza interiore.
Si sottolinea, infatti, che il pregiudizio biologico non risulta esaustivo di ogni conseguenza dannosa non patrimoniale subita a fronte di illeciti dolosi pluri-offensivi di diversi diritti della vittima, in particolare la violazione dell'autodeterminazione sessuale, prendendo in considerazione vari fattori, vale a dire: la gravità e la ripetizione degli atti di violenza, il contesto familiare e il luogo ove gli stessi sono stati commessi, l'età della vittima, al netto di quei profili sofferenziali e dinamico-relazionali già liquidati nell'ambito del danno alla salute, quali effetti del disturbo psichico riportato.
Sotto tale profilo, la Suprema Corte ha evidenziato i diversi interessi fondamentali oltraggiati dalla violenza sessuale, quali l'integrità morale, la dignità, la libertà e la salute psichica.
Sicché, è corretta la rideterminazione del danno morale in via equitativa, stante la difficoltà da parte del danneggiato di proporne una precisa quantificazione e alla luce dei perniciosi effetti ultrattivi nell'equilibrio psico/fisico, in caso, in particolare, di minorenni (Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530). A tale riguardo, già in passato la Cassazione aveva evidenziato, riguardo agli atti di libidine subiti da una bambina da parte di un pedofilo – come la posta del danno morale non rappresenti necessariamente una quota del danno alla salute, laddove le lesioni attengano a beni diversi, oggetto di autonoma tutela (Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530).
La giurisprudenza di merito, in un caso di violenza sessuale su minore, che aveva riportato un disturbo post traumatico da stress cronico con invalidità temporanea protrattasi per due anni e postumi permanenti nella misura del 18% a causa della gravità della condotta dolosa, determinando una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche e delle conseguenze dinamico-relazionali patite dalla vittima, ha giustificato un incremento della liquidazione in misura doppia rispetto alla personalizzazione massima prevista dalle Tabelle milanesi in materia di danno biologico, sia temporaneo che permanente. Poiché le condotte di reato avevano causato non solo una lesione all'integrità psicofisica della minore, bensì anche la lesione del diritto all'autodeterminazione sessuale, è stato liquidato un ulteriore danno (liquidato in euro 80.000,00), la cui gravità è stata commisurata alla gravità dell'abuso, commesso con violenza su una persona minore nell'ambito di un contesto familiare e con abuso della propria qualità di parente (Trib. Milano, 11 agosto 2021, n. 6963).
CASISTICA
Liquidazione cd. pura
Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972.
la liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. "pura", consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell'esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell'integralità del risarcimento. Nel consegue che, allorché non siano indicate le ragioni dell'operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost.) sia nel vizio di violazione dell'art. 1226 c.c. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva operato una drastica riduzione dell'importo dovuto ai danneggiati a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a reato di violenza sessuale sulla base del rilievo, puramente assertivo, secondo cui il maggiore importo liquidato dal primo giudice era "sproporzionato" rispetto ai fatti e la riduzione dello stesso appariva "conforme a giustizia”.
Criteri di liquidazione
Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2018, n. 10802
In caso di determinazione equitativa del danno morale cagionato dalla commissione di reati sessuali in danno di minori d'età il giudice deve tener conto dell'intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale, del turbamento psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi, degli effetti proiettati nel tempo nonché dell'incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima.
Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2014, n. 46170
In caso di violenza sessuale nei confronti di minorenne, il danno biologico non deve necessariamente essere liquidato mediante applicazione del criterio tabellare adottato dalla giurisprudenza civile, potendo il giudice ricorrere anche a criteri equitativi in ragione della natura non patrimoniale del pregiudizio sofferto, tenendo conto tuttavia della valutazione medico-legale eventualmente presente in atti ed indicativa anche della percentuale di invalidità riscontrata a carico della vittima.
Personalizzazione doppia
Trib. Milano n. 22479/2019
Vi è una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche patite dalla vittima rispetto a quelle generalmente patite nei casi oggetto di monitoraggio da parte dell'Osservatorio sulla giustizia civile presso il Tribunale di Milano. Per tale ragione, deve procedersi ad una adeguata personalizzazione del danno biologico, in quanto la commissione di un reato doloso, nella specie plurimi atti di violenza sessuale, peraltro commessi con violenza su una persona minore nell'ambito di un contesto familiare e con abuso della propria qualità di parente, cagiona una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche e delle conseguenze dinamico-relazionali patite dalla vittima rispetto al medesimo punto percentuale di invalidità temporanea o definitiva subita a seguito di un sinistro stradale, di reati colposi o altri atti/fatti anche privi di rilevanza penale. Sicché, appare equa una personalizzazione del danno biologico nei termini pressoché doppi della personalizzazione massima prevista dalla Tabella Milanese in materia di danno biologico, sia temporaneo che permanente, e da applicarsi sui valori compensativi sia dei pregiudizi dinamico-relazionali sia della sofferenza interiore.
Danno iure proprio dei familiari della vittima
Cass. pen., 22 ottobre 2007, n. 38952
Ai prossimi congiunti della vittima di un reato (nella specie abuso sessuale su minore) spetta iure proprio il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega il prossimo congiunto alla vittima, non essendo ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto né il disposto dell'art. 1223 c.c. né quello di cui all'art. 185 c.p., in quanto anche tale danno trova causa diretta e immediata nel fatto illecito»
Criteri di liquidazione
Trib. Milano, n. 27574/2018
I danni non patrimoniali consistenti nella sofferenza morale patita dai genitori possono essere presunti in forza del rapporto qualificato esistente con la persona offesa dal reato, nonché dell'ambiente domestico ove si è verificato il delitto. Ai fini della quantificazione del danno devono essere, quindi, valorizzati alcuni parametri quali:
a) la ripetizione della condotta di reato;
b) le circostanze di luogo e di tempo in cui il fatto di reato è stato commesso;
c) il rapporto personale sussistente con l'autore del reato.
Tutela della libertà personale
a) La violenza privata
Si configura il delitto di violenza privata quando si coarta, mediante violenza o minaccia, la volontà altrui (art. 612 c.p.).
Il bene giuridico tutelato è la libertà psichica o morale, quindi di autodeterminazione dell'individuo, quale diritto fondamentale ed immanente all'ordinamento giuridico nazionale e sovranazionale (art.2 Cost.; art. 5 comma I Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo), ponendosi non a caso quale norma di chiusura del sistema rispetto ad altre fattispecie di reato che tutelano la limitazione di specifiche libertà (sequestro di persona, violenza sessuale, rapina ed estorsione etc.).
Si sottolinea, pertanto, la funzione sussidiaria di tale fattispecie incriminatrice penale (Cass. pen. sez. II, n. 275/1985), finalizzata a punire quelle forme (generiche) di coartazione della libertà morale.
L'elemento oggettivo della violenza privata consiste nel sopportare qualcosa di contrario alla propria volontà di autodeterminazione.
La vittima viene, quindi, costretta a “fare, tollerare o omettere qualche cosa, mediante una violenza o mediante una minaccia, quindi, mediante una condotta commissiva dell'autore della violenza privata, non essendo sufficiente ad integrare la costrizione una semplice omissione (Cass. pen., sez. VI, n. 2013/2010), anche mediante l'uso di mezzi coercitivi (come l'apposizione di un lucchetto che impedisca l'uso di un bene o l'accesso allo stesso, cfr. Cass. pen., sez. V, 22 gennaio 2010, n. 11907). La minaccia, invece, si configura quale prospettazione di un male ingiusto (Cass. pen. sez. II, 18 gennaio 2011, n. 3609), che può essere in forma esplicita ma anche essere percepita in virtù del contesto o delle condizioni soggettive dell'autore del reato (quando si tratti, ad esempio, di un noto pluripregiudicato, cfr. Cass. pen., sez. V, 26 gennaio 2006, n. 7214).
Sicché, viene messo in luce il principio dell'autodeterminazione, sancito da vari strumenti normativi anche sovranazionali ed internazionali, tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani adottata dalle Nazioni Unite nel 1948, la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 1950 e la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006.
Tale diritto garantisce la libertà di scegliere e di agire in modo indipendente, rispettando le proprie convinzioni e valori personali.
Quando questo diritto viene violato, ad esempio a causa di pressioni, coercizione, minacce o violenza fisica, la persona può subire anche un danno alla salute, in forma di danno psichico, che si manifesta attraverso sintomi come ansia, depressione, senso di impotenza, vergogna, senso di colpa, perdita di autostima e senso di alienazione. In particolare, può verificarsi il danno da lesione dell'autodeterminazione per:
Coercizione: per compiere un'azione contro la propria volontà, come compiere un reato o violare i propri principi morali sotto minaccia o pressione.
Violenza domestica: in una relazione in cui il partner abusa fisicamente o psicologicamente dell'altro, l'autodeterminazione della vittima può essere lesa. Questo perché la persona è costretta ad accettare comportamenti che violano la sua dignità e la sua libertà.
Discriminazione: quando una persona è discriminata a causa del suo genere, orientamento sessuale, etnia o religione.
Abuso di potere: quando un'istituzione o un individuo esercita il proprio controllo su altri individui, limitando la loro libertà e autonomia.
Trattamenti sanitari forzati: quando una persona è sottoposta a trattamenti medici senza il proprio consenso o è costretta a sottoporsi a cure che vanno contro la sua volontà.
Sotto tale profilo, in relazione alle condotte sopra descritte, con riguardo ai parametri seguiti dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, la ormai conclamata ripartizione del danno non patrimoniale nelle voci, aventi funzioni descrittive, di danno biologico, dinamico-relazionale, morale, determinano un diverso “peso” risarcitorio in relazione alle modalità della condotta penale, all'intensità del dolo e della colpa ed ai riflessi sulla sfera esistenziale dell'individuo unitariamente inteso. Sicché, se da un lato, si parte dalla determinazione del danno biologico, mediante l'utilizzo delle Tabelle adottate dai Tribunali secondo una applicazione diffusa a livello nazionale (in particolare, le Tabelle Milanesi, quale criterio guida per la corretta valutazione equitativa del danno, non altrimenti valutabile con più certi parametri, come sancito dalla giurisprudenza di legittimità), si finisce con l'incrementare tale posta, dando adeguata rilevanza alla sofferenza soggettiva, in relazione all'elemento soggettivo o ancor più alla personalizzazione del danno, se nel caso concreto l'evento di danno abbia originato conseguenze pregiudizievoli diverse e che superano quelle ordinariamente scaturenti dal medesimo tipo di danno biologico, quale individuato nei barème di riferimento, secondo la medicina legale.
In particolare, in una pronuncia, la Suprema Corte si è espressa con riferimento ai pregiudizi alla salute provocati da un'aggressione fisica “di selvaggia ferocia” determinato da un morso all'orecchio sinistro che aveva provocato il distacco parziale del lobo superiore sinistro, dato dal convenuto che lo aveva aggredito da dietro le spalle nel corso di un diverbio accesosi durante una partita amatoriale di calcio.
Nella specie, la Cassazione rileva che il Giudice di merito può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti da dette Tabelle solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto.
In tal modo, ha cassato la sentenza della Corte d'Appello, la quale ha effettuato una valutazione stereotipata non considerando il caso concreto, orientando la propria ricerca “non già a qualcosa di peculiare, ma a qualcosa di radicalmente stravolgente in riferimento all'entità degli esiti, non rilevando quindi tale vis prorompente nelle conseguenze pregiudizievoli pur sofferte dal ricorrente, e ricercando l'”eccesso”, e non già la “peculiarità” e il “non ordinario” che avrebbe dovuto indurla a utilizzare le tabelle tenendo conto delle possibili e diverse valutazioni che esse pur ammettono in riferimento al danno morale, senza considerare se il fatto illecito violento, di natura dolosa, da cui è derivata la lesione alla persona, meriti una particolare e separata valutazione in termini di danno morale e la fattispecie dunque integri le ipotesi particolari che giustificano, in ipotesi, anche uno sconfinamento dai parametri ordinari, utilizzati invece dal giudice del merito senza neanche dar conto del range minimo o massimo infra-tabellare applicato” (Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2019, n. 32787).
La giurisprudenza di merito, in un caso di lesioni dolose aggravate ai sensi dell'art. 61 n.1 c.p. (motivi abietti e futili), ha proceduto unicamente a una personalizzazione del danno da sofferenza soggettiva interiore nei termini della personalizzazione massima prevista dalle Tabelle milanesi in materia di danno biologico (pari al 50%), sia temporaneo che permanente (Trib. Milano, 11 aprile 2023, n. 2894), non essendo emersa invece la lesione di ulteriori interessi rilevanti.
Si è messa in luce, altresì, l'intensità della colpa, in particolare, in un tragico caso di morte di un ragazzo a causa del crollo in un'aula scolastica di un controsoffitto, in cui si è ritenuto come “la gravità del fatto non è priva di rilievo per le modalità e il contesto in cui si è verificato, nella misura in cui le peculiarità dell'evento lesivo si riverberano sul danno effettivamente subito, e dunque pur sempre in un'ottica riparatoria o compensativa e non sanzionatoria” (Trib. Torino, Sez. IV, 3 giugno 2015).
Così come, in tema di condotta omofobica, riguardo un soggetto il quale, durante la rituale visita di leva sostenuta presso l'ospedale militare, a seguito della dichiarazione di essere omosessuale, era stato esonerato dal servizio, la Suprema Corte ha affermato che la gravità dell'offesa è definita quale elemento di «indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del danno» alla libertà di orientamento sessuale e alla privacy (Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2015, n. 1126). Nella specie, riformando la sentenza della Corte d'Appello che aveva ridotto il quantum della liquidazione, anche sul presupposto della mancata deduzione di specifici elementi di sofferenza, è stata data rilevanza ai comportamenti delle amministrazioni che avevano gravemente offeso e oltraggiato la personalità della vittima in uno dei suoi aspetti più sensibili e indotto nella stessa «un grave sentimento di sfiducia nei confronti dello Stato, percepito come vessatorio, nell'esprimere e realizzare la sua personalità nel mondo esterno».
Parimenti, in un caso di un soggetto che, all'età di nove anni, era stato ricoverato presso un ospedale psichiatrico, ivi permanendo fino al 1999 (quando era stato dimesso in considerazione della sua capacità di autogoverno) e trattenuto all'interno dell'istituto per ragioni di carattere umanitario, non avendo mai avuto bisogno di psicofarmaci né mai avuto diagnosi di malattia mentale. Il soggetto lamentava la violazione di diritti fondamentali della persona, quali la libertà personale, la dignità e del decoro, con conseguente danno esistenziale, morale e biologico, anche in ragione dell'astratta configurabilità dei reati di cui agli artt. 605, 610 e 623 c.c., la Cassazione ha confermato la pronuncia sottoposta al suo esame, avendo il Tribunale tenuto conto della compromissione delle relazioni con il mondo esterno che il ricorrente ha subito a causa del prolungato ricovero presso l'istituto e del fatto che tale ricovero l'aveva indotto a scelte di vita diverse da quelle che avrebbe potuto fare in assenza della condotta illecita da parte dei sanitari, quali l'impossibilità di coltivare gli studi e quindi di svolgere attività lavorative che richiedono un'istruzione, con la conseguenza che una nuova liquidazione avrebbe comportato una ingiusta duplicazione di poste risarcitorie. Inoltre, la Suprema Corte, nella specie, seppur equiparabile al TSO illegittimo che colpisce la persona in modo simile all'ingiusta detenzione perché determina la restrizione della sua libertà personale ed effetti negativi sull'immagine, le relazioni ed il campo lavorativo, ha escluso l'applicazione in via analogica della speciale disciplina dettata dagli artt. 314 e 315 c.p.p. per le fattispecie di detenzione cautelare ingiusta disposta ed eseguita in ambito penale (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2019, n. 22177; Cass. pen. sez. IV, 05 maggio 2008, n. 17718).
Meritevole di rilievo appare, altresì, in materia di violazione della sfera privata e delle libertà fondamentali, la pronuncia del CGA della Regione Siciliana, che concerne l'ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Siciliana n. 16 dell'11/04/2020, emessa durante l'emergenza pandemica Covid-19, con cui si è vietata ogni attività motoria all'aperto, anche in forma individuale, ivi inclusa quella dei minori accompagnati dai genitori, con la conseguenza che ai minori veniva imposto l'obbligo di un'assoluta permanenza domiciliare, che si poneva in contrasto con il DPCM allora in vigore, del 10/04/2020, che consentiva a chiunque, minori inclusi, l'attività motoria e sportiva nei pressi dell'abitazione pur mantenendo la distanza di sicurezza di un metro dalle altre persone, con un'evidente discriminazione sfavorevole per i cittadini siciliani.
In tal senso, il CGA ha ritenuto che un giusto contemperamento tra l'art.13 Cost., quale diritto inviolabile, e l'art. 16 Cost. implica che tali limitazioni per motivi di sanità, non possono arrivare a costringere le persone a vivere in condizioni sostanzialmente analoghe alla detenzione domiciliare, così andando oltre i confini di ammissibilità, ritenendo illegittimo il divieto assoluto di uscire di casa imposto dall'ordinanza regionale, non prevedendo l'eccezione dello svolgimento dell'attività sportiva o motoria nemmeno in prossimità di essa. Sicché, il CGA ha riconosciuto nella specie un danno non patrimoniale di tipo morale ai sensi dell'art. 2059 c.c., a causa della lesione di diritti di libertà costituzionalmente garantiti, liquidabile in via equitativa. Nella quantificazione, i Giudici hanno tenuto espressamente conto dell'età del ricorrente, una persona minorenne e dunque collocabile in una fase delicata di crescita e formazione psicologica.
b) delitto di cd. Stalking (art. 612 bis c.p.)
Una particolare attenzione va posta al delitto di atti persecutori (o stalking), introdotto dall'art. 7 d.l. n. 11/2009, convertito con modificazioni nella l. n. 38/2009.
Tale delitto va qualificato come fattispecie causale «connotata da condotte alternative e ad eventi disomogenei, ognuno dei quali è idoneo ad integrarla, oggetto di rigoroso e puntuale accertamento del giudice» (Corte App. Milano, sez. V pen., 13 gennaio 2012). Si tratta di un «reato abituale di evento, a struttura causale e non di mera condotta» che si caratterizza, per la produzione di un evento di danno, consistente, appunto, nell'alterazione delle abitudini di vita, in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, di un fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di una persona alla quale il soggetto è legato da relazione affettiva, «per la cui sussistenza è sufficiente il verificarsi di uno degli eventi previsti» (Cass. civ., sez. I, 24 agosto 2015, n. 17082).
Non è necessaria, dunque, una rappresentazione anticipata del risultato finale, ovvero la coscienza dello scopo che si vuole ottenere, «essendo al contrario sufficiente la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi e dell'apporto che ciascuno di essi arreca alla lesione dell'interesse protetto» (Cass. civ., sez. VI, 13 settembre 2013, n. 20993).
In sostanza, bastano la coscienza e la volontà delle singole condotte con la consapevolezza che ognuna di esse andrà ad aggiungersi alle precedenti formando un insieme di comportamenti offensivi (Cass. pen., sez. V, 20 maggio 2015, n. 29859); il dolo si svilupperà dunque in itinere quale rappresentazione di tutti gli episodi già posti in essere, della loro frequenza e del nesso che li collega all'ulteriore apporto criminoso. Per la giurisprudenza costante della Suprema Corte, non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità (Cass. pen., sez. II, 12 novembre 2013, n.7042).
In punto di quantificazione del danno, si è fatto riferimento a criteri di determinazione equitativa, con riguardo a dati di comune esperienza.
In particolare, la giurisprudenza di merito ha tenuto conto dell'odiosità della condotta lesiva nei confronti di una persona in posizione di debolezza, dell'intensità della condotta lesiva, della durata della condotta denunciata e della rilevanza del clima di intimidazione creato nell'ambiente familiare dal comportamento dell'attore, e del peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della persona offesa.
c) Danno da errore giudiziario
La disposizione dell'art. 643 c.p.p. riconosce al soggetto che sia stato prosciolto in sede di revisione della sentenza di condanna il diritto a una riparazione commisurata alla durata dell'eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna (se non ha dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario).
Consolidata giurisprudenziale afferma che la riparazione dell'errore giudiziario, come quella per l'ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno, ma di semplice indennità o indennizzo da atto lecito dannoso, in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato".
Ciò risponde alla precisa finalità di evitare che il danneggiato debba fornire la prova sia dell'esistenza dell'elemento soggettivo (dolo o colpa) delle persone fisiche che hanno agito sia dell'entità dei danni subiti.
Si è fatto, tuttavia, ricorso a criteri risarcitori e di ripartizione delle voci di danno che tengono conto della particolarità dei pregiudizi sofferti in tali ipotesi. In particolare, con riguardo alla differenza tra danno morale e danno esistenziale, la diversità tra tali categorie di danno emerge ancora più chiaramente, in quanto, la privazione della libertà personale per un solo giorno può provocare un gravissimo danno morale, ma il danno esistenziale, in questi casi, può anche mancare.
In altri casi, la configurabilità del danno esistenziale appare preminente e può costituire un caso emblematico dello "sconvolgimento esistenziale" che procura l'intera vicenda sottesa ad un errore giudiziario: la detenzione, la sottoposizione a processo e una condanna penale da cui conseguono la privazione della libertà personale (art.13 Cost.), l'interruzione delle attività lavorative e ricreative, l'interruzione dei rapporti affettivi e, comunque, interpersonali, il mutamento peggiorativo delle abitudini di vita, il discredito sociale, la lesione della propria reputazione e della propria immagine.
Di recente, allontanandosi dall'ottica indennitaria, la Suprema Corte ha escluso l'applicabilità del parametro risultante dal rapporto tra tempo di detenzione e quantum dell'indennizzo che inerisce alla riparazione per l'ingiusta detenzione, in quanto la relativa norma (art. 315, comma 2, cod. proc. pen.) ha carattere eccezionale e la fissazione di un tetto massimo trova giustificazione solo con riferimento all'istituto di cui agli artt. 314 ss c.p.c., nell'ottica del quale l'unico dato valutabile è la privazione della libertà personale, profilo caratterizzato dall'invariabilità mentre la pluralità e complessità dei dati da valutare nella prospettiva della riparazione dell'errore giudiziario, che deve tener conto di tutte le conseguenze familiari e personali, non è compatibile con un'analoga fissazione di un massimo liquidabile.
Occorrerà dunque fare riferimento ai parametri relativi alla durata dell'eventuale espiazione della pena e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, ricomprendendo, nell'ambito del danno non patrimoniale, il danno biologico, quello morale e quello esistenziale, che la vicenda giudiziaria complessivamente considerata ha determinato nella sfera individuale (Cass. civ., sez. III, 17 aprile 2023, n.16114).
CASISTICA
Violenza privata
Cass. civ., sez. feriali, 11 settembre 2012, n. 45002
È configurabile il danno morale ai danni di un soggetto minacciato nell'integrità fisica e perciò sottoposto a scorta personale, in virtù della patita compressione della libertà di movimento e della vita professionale e di relazione.
Cass. pen., sez. V, 9 giugno 2021 n. 22780/21
«In tema di liquidazione equitativa del danno morale conseguente al reato di atti persecutori, è sindacabile in sede di legittimità, come violazione dell'art. 1226 c.c., norma di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale e, nel contempo, come ipotesi di assenza di motivazione, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, la valutazione del giudice di merito che non abbia indicato, nemmeno sommariamente, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum».
Responsabilità parentale
Trib. Sulmona, 09 aprile 2018
Qualora soggetti minorenni diffondano, utilizzando mezzi telematici (WhatsApp, Facebook, etc.), fotografie contenenti l'immagine nuda di una coetanea e siffatta diffusione avvenga senza il consenso dell'interessata, devono ritenersi civilmente responsabili, ex art. 2048, comma 1, c.c., i genitori degli autori della predetta diffusione, in quanto è ad essi ascrivibile la culpa in vigilando ed in educando. La responsabilità parentale può essere esclusa, ai sensi dell'art. 2048, comma 3 c.c., soltanto qualora i genitori dimostrino di non aver potuto impedire il fatto, dovendosi con ciò intendere che gli stessi abbiano integralmente adempiuto al dovere di educare la prole attraverso lo sviluppo nella stessa di una adeguata capacità critica e di discernimento. La circostanza che al momento della commissione dell'illecito la fotografia in oggetto fosse già diffusa all'interno della comunità di appartenenza del soggetto fotografato e che ciò fosse dovuto, tra l'altro, alla condotta disinibita tenuta dal soggetto stesso, attenua la responsabilità civile, ma non la esclude, configurandosi in capo alla persona ritratta, ed ai genitori della stessa, un danno non patrimoniale consistente nella lesione di una pluralità di interessi costituzionalmente protetti, tra cui il diritto alla riservatezza, alla reputazione, all'onore, all'immagine, all'inviolabilità della corrispondenza .
Violenza coniugale
Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2020, n. 6074
La moglie (o convivente) vittima di umiliazioni, percosse e violenze da parte del marito ha diritto a essere risarcita del danno non patrimoniale subìto, sulla base dell'entità del patimento sofferto dalla vittima nei molti anni in cui è stata sottoposta ad un clima di violenza e sopraffazione e ciò anche in presenza dei figli minori.
Lesioni dolose
Trib. Milano, 29 febbraio 2024, n. 2299
In caso di lesioni dolose aggravate non vi è dubbio che vi sia una maggiore intensità delle sofferenze psicofisiche patite dalla vittima rispetto a quelle generalmente patite nei casi oggetto di monitoraggio da parte dell'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, rispetto alla medesima durata di inabilità temporanea e al medesimo punto percentuale per danno biologico permanente, subiti a seguito di un sinistro stradale o di reati colposi o altri atti/fatti anche privi di rilevanza penale. Sicchè, appare equo una personalizzazione del danno biologico nei termini doppi della personalizzazione massima prevista dalla Tabella Milanese in materia di danno biologico, sia temporaneo che permanente, e da applicarsi sui valori compensativi della sola sofferenza interiore.
Vilipendio di cadavere
Trib. Milano, proc. n. 62015/2008
Il bene giuridico violato è rappresentato da un legittimo interesse etico-sociale diffuso, proprio di ciascun membro della collettività, in quanto radicato nell'umanità in ogni epoca storica e cultura, e indipendente da eventuali collegamenti con la professione di una fede religiosa e con esigenze di tipo sanitario, che non influiscono sull'oggettività giuridica. La rilevanza conferita alla particolare res dall'ordinamento è riconducibile alla centralità della persona umana, di cui la salma rappresenta una “proiezione ultraesistenziale”. Il cadavere umano conserva quindi una propria connaturata dignità, assolutamente diversa da ogni altra res. Ai fini del quantum, si tiene conto: delle modalità del fatto e dell'oggetto della mutilazione subita dal cadavere; della risonanza che l'episodio ha avuto sulla stampa locale; della particolare intensità della sofferenza psichica subita dagli attori al momento della scoperta e dell'inevitabile protrarsi della stessa per tutta la vita, ogni volta che verrà ricordato l'episodio delittuoso o, comunque, il prossimo congiunto (il giudice ha liquidato euro 35.000,00 per il padre ed euro 35.000,00 per il fratello della vittima primaria).
Riferimenti
C. M. Bianca, Diritto Civile, Giuffrè Editore, 1997;
M. Sgroi, Nuovi ambiti di tutela della personalità, (Il Diritto Presente – Collana diretta da G. Cassano) G. Giappichelli, 2007;
G. Cassano (a cura di) – Nuovi diritti della persona e risarcimento del danno – Tutela civile e penale, (Giurisprudenza Critica – Collana diretta da P. Cendon), UTET, 2003;
Lilia Papoff , Risarcimento del danno non patrimoniale: rilevanza dell’elemento soggettivo e del disvalore della condotta, 10 ottobre 2023, Giuffrè;
A. Procida Mirabelli Di Lauro, Danni civili e danni da reato nel sistema polifunzionale delle responsabilità, Rassegna di diritto civile 4/2019 / Saggi, Edizioni Scientifiche Italiane;
D. Spera, A. Penta, Danno differenziale patrimoniale e non patrimoniale, Bussola in IUS Responsabilità civile, Giuffrè;
D. Spera, Laura Ventriglia, Danno alla persona, Bussola in IUS Responsabilità civile, Giuffrè;
M. Bona, Come liquidare e personalizzare il danno morale aggravato dalla condotta, Focus in IUS Responsabilità civile, 5 maggio 2015, Giuffrè.
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