La responsabilità dell’amministratore privo di deleghe nei reati di bancarotta

05 Agosto 2024

La Cassazione Penale si pronuncia sulla responsabilità penale dell'amministratore privo di deleghe, in concorso con i reati di bancarotta commessi dagli amministratori delegati.

Massima

In tema di bancarotta fraudolenta, il concorso da parte dell'amministratore privo di deleghe è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova dell'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento illecito.

Il caso

La vicenda giudiziaria sottoposta all'attenzione della Suprema Corte origina dal ricorso presentato dal procuratore della Repubblica avverso un'ordinanza del Tribunale del riesame di Genova che aveva annullato, per carenza di gravità indiziaria, il provvedimento del GIP presso il locale Tribunale che aveva disposto la misura cautelare interdittiva del divieto di esercitare la professione di commercialista e l'attività d'impresa e di rivestire uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese a carico di un indagato, componente del consiglio di amministrazione di una società per azioni, indiziato di più fatti di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali.

Le censure mosse all'ordinanza del riesame si sostanziavano nell'evidenziare la manifesta illogicità del provvedimento in ragione dell'omessa valutazione o comunque sottovalutazione di una pluralità di fonti di conoscenza di anomalie gestionali, anche conseguenti ad operazioni con parti correlate, che avrebbero dovuto mettere in allarme l'indagato il quale, qualora avesse prestato doverosa attenzione a tali segnali di allerta, invece dolosamente ignorati, non avrebbe contribuito alla redazione dei bilanci di esercizio non veritieri per il periodo in cui era in carica.

Le argomentazioni del pubblico ministero così in sintesi riassunte, anche perché in parte versate in fatto, erano ritenute prive di pregio dalla Corte di Cassazione, la quale dichiarava inammissibile il ricorso.

La Questione

Il tema in causa concerne dunque, in ragione dei motivi dedotti dal ricorrente, l'analisi dell'elemento soggettivo della figura del concorso da parte dell'amministratore privo di deleghe nei reati di bancarotta commessi dagli amministratori esecutivi.

Nel caso al vaglio, infatti, l'indagato era munito di una delega circoscritta alla gestione dei contratti di appalto di lavori e di manutenzione della società sì da qualificarlo, per l'appunto, alla stregua di un amminisratore senza deleghe.

Le soluzioni giuridiche

Con la sentenza in commento la suprema Corte torna ad occuparsi del tema, sempre di stretta attualità, del concorso dell'amministratore privo di deleghe nei reati di bancarotta ed in particolare del “versante soggettivo” di tale responsabilità.

La Corte muove dal richiamare i propri arresti in argomento specificando come, al fine di ritenere dimostrato il dolo dell'amministratore non esecutivo, appaia necessario che egli abbia effettiva conoscenza di fatti predatori ovvero di segnali di allarme di questi ultimi e non che le anomalie siano semplicemente “conoscibili”.

In tema di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali, peraltro, lo studio dell'elemento soggettivo del reato presenta aspetti di ulteriore complessità giacché il dolo che deve caratterizzare la condotta del soggetto agente, derivando dalla combinazione degli artt. 223, comma 2 n. 1) l. fall. o 329, comma 2 lett. a) c.c.i.i. con l'art. 2621 c.c.(o anche l'art. 2622 c.c.), si pone su tre livelli, comprendendo il dolo generico (avente ad oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico (costituito dal fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto) e il dolo intenzionale di inganno dei destinatari (così anche Cass., 30 giugno 2016, n. 46689, in CED Rv. 268673-01).

Quanto alla rappresentazione del mendacio la Corte osserva come quest'ultimo si sia sostanziato, nel caso di specie, nell'omessa esposizione in bilancio del risultato di condotte predatorie poste in essere in danno della società, con la conseguenza che, al fine della verifica della sussistenza di tale primo livello di dolo, appare pregiudiziale verificare se l'indagato, nell'approvare i progetti di bilancio, avesse coscienza dei fatti distrattivi che il mendacio avrebbe occultato; invero, l'obbligo dell'amministratore di agire informato ed eventualmente di chiedere ragguagli al consiglio di amministrazione si attualizza solo laddove vi sia la conoscenza di fatti nocivi per la società oppure di indicatori di anomalie che comunque riconducano all'esistenza di attività altrettanto nocive.

Ed è qui che il percorso argomentativo del Tribunale del riesame è apparso logico e sorretto da adeguata motivazione in quanto proprio tale ritenuta coscienza dei fatti distrattivi o di loro elementi indicatori è risultata cozzare con una pluralità di dati di fatto in realtà tale da porla in dubbio se non da escluderla.

E' infatti emerso come, tra l'altro, l'ultimo bilancio in contestazione, la cui nota integrativa avrebbe avuto particolare capacità significativa quale segnale d'allerta, fosse successivo alle dimissioni dell'indagato, come questi non avesse a disposizione l'intera documentazione della società fallita ed inoltre fosse l'unico tra i componenti del consiglio di amministrazione non investito di cariche anche nelle altre società del principale coindagato, presidente del consiglio di amministrazione, a cui solo erano attribuiti i fatti distrattivi ed a tacer della circostanza che quest'ultimo aveva tutto l'interesse a nasconderli ai terzi. Anche la significatività indiziaria tratta dell'esistenza di operazioni con parti correlate in realtà appare priva di tale significatività giacché la sola circostanza che un'operazione avvenga con parte correlata e sia indicata in nota integrativa ai sensi dell'art. 2427, comma 1 n. 22 bis) c.c. non è di per sé elemento da cui poter trarre l'evidenza della sua natura depauperativa.

Dunque fanno difetto, secondo la Corte, elementi che consentano di qualificare la motivazione del Tribunale del riesame in termini di manifesta illogicità come prospettato dal ricorrente, (già) non potendosi validamente sostenere che l'indagato avesse avuto effettiva conoscenza di fatti predatori ovvero di segnali di allarme di questi ultimi.

Alla conclusione negativa circa la sussistenza del primo livello di dolo del reato di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali non può allora che seguire, quale conseguenza, la superfluità della valutazione degli altri livelli di esso ovvero i citati dolo specifico e dolo intenzionale.

Anche la prova della (sola) conoscenza di segnali d'allarme, peraltro, non sarebbe stata del tutto esaustiva riguardo alla dimostrazione della sussistenza del dolo in ragione della mutevole capacità euristica dei dati percepiti e dei limiti dello scrutinio di legittimità sulle valutazioni del giudice di merito circa la responsabilità dell'amministratore senza delega in rapporto, appunto, alla conoscenza dei segnali suddetti e al loro grado di significatività e di intellegibilità.

E' dalla conoscenza dei segnali d'allarme intesi quali momenti rivelatori con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza e criteri di valutazione professionale, del pericolo dell'evento -continua la Corte richiamando proprie precedenti pronunce- che può desumersi la dimostrazione della ricorrenza della rappresentazione dell'evento da parte di chi è tenuto, per la posizione di garanzia assegnatagli dall'ordinamento, ad uno specifico devoir d'alerte che include in sé anche l'obbligo di una più pregnante sensibilità percettiva oltre che il dovere di ostacolare l'accadimento dannoso. Tale dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui valutazione, in rapporto al sintomo allarmante, deve esplicarsi volta per volta ed in concreto. Ne consegue che la convinzione di questa percezione e del relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito è rimessa alla valutazione del giudice di merito e come tale è insuscettibile di censura in sede di legittimità, se accompagnata da adeguata motivazione.

Osservazioni

Le conclusioni cui è giunta la suprema Corte appaiono certamente condivisibili quanto ai principi affermati, ponendosi in continuità con quelli affermati dalla giurisprudenza di legittimità a proposito dell'elemento soggettivo del dolo nei reati di bancarotta in riferimento alla figura dell'amministratore privo di deleghe (tra le molte cfr. Cass., 13 giugno 2022, n. 33582, in CED Rv. 284175-01, dalla cui massima ufficiale è tratta quella riportata in apertura della presente nota).

Generalmente l'analisi del concorso nei reati di bancarotta da parte di quest'ultimo, in ragione del suo ruolo non operativo, si pone in termini di concorso per omissione quale titolare di un obbligo di garanzia, rilevante ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p., nella specifica forma dell'obbligo di impedimento della commissione del reato altrui.

E' noto come tale concorso omissivo improprio presupponga l'inerzia del titolare di detto obbligo legata eziologicamente all'evento che si deve impedire costituito dal reato commesso da altri e tale causalità si sostanzia nella forma c.d. ipotetica o normativa, dovendo valutarsi se, supponendo mentalmente realizzata l'azione doverosa omessa, l'evento lesivo sarebbe venuto meno con criterio prossimo alla certezza o comunque di probabilità logica.

Nel caso di specie invece l'addebito provvisorio attribuito all'amministratore non operativo aveva ad oggetto una condotta (non omissiva bensì) attiva per avere questi contribuito alla redazione di bilanci di esercizio poi risultati falsi in ragione della mancata o inesatta contabilizzazione di circostanze costituite da fatti distrattivi addebitati, si è detto, al solo presidente del consiglio di amministrazione.

E' noto infatti come le attribuzioni degli amministratori indicate negli articoli 2420-ter, 2423,2443,2446,2447,2501-ter e 2506-bis del codice civilenon poss a no essere delegate (cfr. art. 2381, comma 4 c.c.) e dunque anche la redazione del bilancio di esercizio disciplinata dall'art. 2423 c.c.non può essere oggetto di delega.

Si comprende quindi come, a fronte dell'azione contestata all'indagato, la valutazione della sussistenza dell'elemento soggettivo abbia assunto carattere primario ed è qui che, prima nella ricerca della prova del fatto e poi nell'impostazione del ricorso, sono emerse le criticità evidenziate dalla sentenza in commento.

La responsabilità dell'amministratore privo di deleghe per fatto proprio colpevole impone di distinguere, preliminarmente, se il reato addebitatogli sia punito anche a titolo di colpa oppure soltanto a titolo di dolo.

1) Qualora il reato sia punibile anche a titolo di colpa (come nelle ipotesi della bancarotta semplice per aggravamento del dissesto di cui all'art. 323, comma 1 lett. d) c.c.i.i. o della bancarotta semplice documentale di cui all'art. 323, comma 2 c.c.i.i.) il giudizio avente ad oggetto la responsabilità dell'amministratore non operativo abbraccia confini più ampi, acquistando rilievo anche la sua inettitudine, incapacità o imprudente fiducia nell'agire dell'organo delegato, come scrive la suprema Corte nella sentenza qui annotata al fine di scongiurare il rischio che l'indagato fosse ritenuto responsabile per un reato doloso, come quello contestato nel caso al vaglio, a fronte invece di sue condotte al più colpose in quanto aventi le caratteristiche appena indicate.

L'imputazione soggettiva a titolo di colpa impone anche di valutare i motivi per cui i segnali di allarme sono sfuggiti alla conoscenza dell'amministratore non delegato ed invero anche la circostanza della loro effettiva conoscibilità può costituire fondamento di un addebito colposo a suo carico per non averli apprezzati per negligenza, imperizia o anche imprudenza in ragione della suddetta fiducia (mal) riposta nell'agire altrui.

I giudizi in questione presentano larghe analogie con quello concernente la responsabilità per danni causati alla società dagli stessi amministratori privi di deleghe ed invero la giurisprudenza civile di legittimità precisa come costoro, a fronte dell'esistenza di segnali di allarme, abbiano l'obbligo di attivarsi con la diligenza imposta dalla natura della carica, adottando o proponendo i rimedi giuridici più adeguati alla situazione ed in caso contrario rispondendo in solido con gli amministratori delegati del danno cagionato poiché un comportamento inerte si pone in contrasto con il dovere di agire in modo informato (cfr. Cass., 22 aprile 2024, n. 10739, in CED Rv. 671097-01 nella quale la Corte confermava la sentenza impugnata, che aveva ritenuto responsabili gli amministratori non esecutivi i quali, nonostante la mancata trasmissione delle relazioni informative periodiche, avevano negligentemente omesso di chiedere chiarimenti ai delegati, denunciando il loro inadempimento ed attivando i rimedi più adeguati, come la revoca della delega gestoria o dell'amministratore delegato, l'avocazione al consiglio delle operazioni rientranti nella delega o la proposizione delle necessarie iniziative giudiziali).

2) Qualora il reato sia punibile soltanto a titolo di dolo, come nel caso della bancarotta impropria da false comunicazioni sociali, pur non richiedendosi la prova di un preventivo accordo tra il soggetto agente ed il consigliere non operativo appare pregiudiziale che l'inerzia di quest'ultimo consegua ad una conoscenza dei tratti sufficientemente determinati del reato che ha obbligo di impedire, sì da poter essere apprezzati almeno quali “segnali di allarme”.

Il riferimento a questi ultimi rinvia, com'è noto, all'omonima teoria secondo cui essi sono costituiti da segnali d'allerta cui possa attribuirsi, seguendo il procedimento logico delle presunzioni semplici e con accertamento di natura casistica, una capacità rappresentativa del reale altrimenti ignoto.

E'altrettanto noto come tale conoscenza possa derivare da qualsiasi fonte, non essendovi ragioni normative o logiche per sostenere che le uniche informazioni rilevanti siano quelle tratte dall'interno del consiglio di amministrazione o comunque dal solo ambito societario, giacché una circostanza è nota indipendentemente dalle sue modalità di acquisizione ed a tacer del fatto che di regola gli amministratori esecutivi, come anche ricordato nella sentenza in commento, hanno interesse di celare al meglio ai colleghi non operativi le irregolarità poste in essere nella loro gestione dell'impresa.

La conoscenza di una pluralità di elementi indizianti la sussistenza di un reato può dunque giungere a significare, a carico dell'amministratore non esecutivo che rimanga inerte, l'“accettazione del rischio” dell'evento e cioé dell'effettiva verificazione di quel reato secondo i principi del dolo eventuale, non dubitandosi come anche l'omissione possa essere naturalisticamente animata da dolo.

Quanto fin qui osservato in tema di dolo nel concorso per omissione da parte dell'amministratore privo di deleghe non si discosta molto dal giudizio chiamato ad effettuarsi nei casi come quello al vaglio, ove si è detto che all'indagato era contestata una condotta (non omissiva ma) attiva per avere contribuito alla redazione di falsi bilanci.

La bancarotta impropria da false comunicazioni sociali di cui agli artt. 223, comma 2 n. 1) l. fall. o 329, comma 2 lett. a) c.c.i.i. é reato con evento di danno, costituito dal dissesto dell'impresa o dal suo aggravamento, ed a condotta vincolata poiché tale dissesto deve conseguire, per l'appunto, a condotte che a propria volta integrino i reati presupposto di cui agli artt. 2621 o 2622 c.c.

Il reato inoltre appare complesso in senso lato in quanto non residuano dubbi che l'evento costituito dal cagionare o aggravare il dissesto si debba combinare con tutti gli elementi costitutivi del reato presupposto, compreso quello soggettivo. Ne deriva, come ricorda la Corte, che l'elemento soggettivo della bancarotta da false comunicazioni sociali diviene un dolo “trilivello”, comprendendo il dolo generico avente ad oggetto la rappresentazione del mendacio, il dolo specifico ed il dolo intenzionale.

Nel caso al vaglio dunque appare incontestabile come la prova del primo livello di dolo dell'indagato al momento della redazione dei bilanci non potesse prescindere da quella della sua conoscenza di fatti distrattivi oppure di indicatori di anomalie che comunque riconducessero all'esistenza di attività nocive per la società.

E' parimenti incontestabile, peraltro, come il profilo volitivo dell'amministratore non esecutivo debba essere disvelato in concreto e, qualora tale disvelamento si assuma ricavarsi dalla conoscenza di numerosi “segnali di allarme”, la capacità euristica derivante dalla loro sommatoria deve apparire inequivocabile poiché anche il dolo deve essere provato oltre ogni ragionevole dubbio.

L'apprezzamento della portata euristica derivante dalla conoscenza di simili segnali d'allerta presenta poi aspetti indubbiamente valutativi per cui, qualora tale conoscenza da parte dell'indagato non fosse stata esclusa ed il giudizio non si fosse arrestato alla verifica del primo livello del dolo, eccettuandosi che vi fosse prova della rappresentazione del mendacio, al ricorrente sarebbe spettato l'ulteriore e non facile compito di dar conto della loro -indubbia- capacità rappresentativa del dolo quali fatti noti costituenti indizi gravi, precisi e concordanti della sua esistenza. Soltanto adempiendo a questo onere avrebbe potuto giungersi, invero, a ritenere la motivazione del Tribunale del riesame affetta da manifesta illogicità, dovendosi ricordare, come già osservato, che la valutazione del grado di potenzialità informativa dei fatti percepiti, pur valutati in modo non parcellizzato, é rimessa alla valutazione del giudice di merito e come tale è insuscettibile di censura in sede di legittimità, se accompagnata da adeguata motivazione.

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