Licenziamento illegittimo per superamento del periodo di comporto in caso di mancato avviso al lavoratore dell'imminente scadenza e tutela sanzionatoria applicabile

09 Agosto 2024

L'articolo approfondisce l'analisi di una recente sentenza della Corte di cassazione, la quale ha deciso un caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto oltre al requisito del superamento dei giorni limite di conservazione del posto, la contrattazione collettiva imponeva al datore di lavoro anche l'obbligo di avvisare preventivamente il lavoratore dell'approssimarsi del superamento del suddetto limite. Si discuterà infine del corretto regime sanzionatorio da applicare ai sensi dell'art. 18 l. n. 300/1970.

Massime 

1. Viola l'art. 2110 c.c. il mancato avviso dell'imminente scadere del periodo di conservazione da parte del datore di lavoro qualora sia espressamente previsto dalla contrattazione collettiva; inoltre

2. In tema di licenziamento per superamento del comporto, nel regime successivo all'entrata in vigore dell'art. 1, comma 42, legge n. 92/2012, l'inadempimento dell'obbligo, previsto dal contratto collettivo, di comunicare al lavoratore l'imminente scadenza del periodo di comporto determina l'illegittimità del licenziamento e l'applicazione del regime sanzionatorio della tutela reintegratoria c.d. debole, secondo l'espressa previsione dei commi 7 e 4 del novellato art. 18 legge n. 300/1970.

Il caso

Il lavoratore, superato il periodo di comporto, veniva licenziato, ma non gli veniva comunicata l'imminenza del superamento come previsto da CCNL

La vertenza origina dal licenziamento di una lavoratrice per superamento del periodo di comporto. Si precisa sin da subito che, ratione temporis, al rapporto è applicato l'art. 18 l. n. 300/1970 come novellato dalla  l. n. 92/2012 (c.d. Fornero). Al rapporto di lavoro era applicato il CCNL “Fise-Assoambiente” il di cui art. 46 prevedeva la possibilità di licenziamento superati 510 giorni. È fatto pacifico il superamento di tale limite. Tuttavia, la Società ometteva di comunicare l'imminente scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro: tale obbligo è previsto dalla contrattazione collettiva applicata alla fattispecie una volta decorsi 400 giorni di malattia.

Quanto all'omessa comunicazione di imminente scadenza del periodo di conservazione, la Corte di Appello, confermando il giudizio di primo grado, argomentava che si tratta di un comportamento che non poteva causare la nullità del licenziamento, posto che semmai si tratta di una violazione dei principi di buona fede e correttezza, dal momento che la contrattazione collettiva non ne sanziona espressamente il mancato rispetto e che, inoltre, il lavoratore doveva ritenersi onerato dal monitoraggio dei giorni di assenza computabili ai fini del comporto. Inoltre, rileva, sempre la corte territoriale, che la domanda di nullità era anche da considerarsi preliminarmente inammissibile posto la sua tardiva allegazione nelle conclusioni del ricorso ex art. 1, comma 51, l. n. 92/2012, ossia ricorso in opposizione all'ordinanza emessa secondo l'art. 1, comma 47 (c.d. rito Fornero).

Per tali ragioni, la Corte d'appello confermava la pronuncia del Tribunale che aveva ritenuto la fattispecie ricadere sotto il profilo sanzionatorio di cui all'art. 18, comma 5, l. n. 300/1970, ossia la tutela meramente indennitaria. Per utilità del lettore si riporta di seguito la norma: “Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”. La disposizione appena citata si applica in tutti quei casi in cui, pur in difetto della manifesta insussistenza del fatto, non sussistono comunque gli estremi del giustificato motivo di licenziamento.

Il lavoratore, dunque, proponeva ricorso in Cassazione con un unico motivo, deducendo: “la violazione o falsa applicazione degli artt. 2110 c.c. e 46 CCNL Fise Assoambiente, 2119 c.c. per avere, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto che il lavoratore avesse chiesto una pronuncia di nullità del licenziamento, a fronte della violazione dell'obbligo contrattuale (in quanto previsto dal CCNL) di avvisare il lavoratore della imminente scadenza del comporto, e non la declaratoria di illegittimità del provvedimento espulsivo, con espressa richiesta di applicazione del comma 4 (in forza del comma 7) dell'art. 18 l. n. 300/1970. L'adempimento dell'obbligo datoriale di avvisare il lavoratore della imminente scadenza del comporto costituisce un elemento costitutivo del potere di risoluzione del rapporto di lavoro e la mancanza determina l'illegittimità del licenziamento” (cit. sentenza in disamina).

La questione

Il mancato avviso dell'imminente scadere della conservazione del posto rende il licenziamento illegittimo?

Volendo isolare la questione giuridica sottesa alla fattispecie in esame, si può quindi affermare che la decisione a cui è stata chiamata la Corte riguarda (A) se il mancato avviso da parte del datore di lavoro dell'imminenza dello scadere del periodo di conservazione del posto (previsto nel caso specifico dalla contrattazione collettiva), sia elemento costitutivo del potere di risoluzione del rapporto e (B) la corretta individuazione del regime sanzionatorio in caso di illegittimo licenziamento per superamento del periodo di comporto.

La soluzione giuridica

Il licenziamento per periodo di comporto è normato dall'art. 2110 c.c. in combinato disposto con la contrattazione collettiva nazionale di riferimento

La Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato. Pertanto, si propone di seguito il ragionamento svolto.

Come noto, il licenziamento per superamento del periodo di comporto non costituisce né motivo soggettivo, né strettamente motivo oggettivo per il recesso, ma è un vero e proprio terzo genus previsto dal diritto positivo, ossia dall'art. 2110 c.c.

Per agilità espositiva si richiama integralmente la disposizione codicistica, che ai commi 1 e 2 prevede: “(1) In caso d'infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta  al  prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o  secondo equità. (2) Nei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'art. 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”.

Pertanto, il diritto di recesso matura in capo al datore di lavoro a fronte del noto superamento del periodo di conservazione del posto − durante la malattia, infortunio, gravidanza o puerperio − determinato dalla contrattazione collettiva.

Come giustamente rileva la Corte: si tratta di una disciplina speciale e dunque prevalente rispetto sia alla disciplina generale della risoluzione del rapporto prevista dalla l. n. 604/1966, sia alla normativa relativa all'impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui agli artt. 1256 e 1464 c.c. Ciò in ragione del fatto che l'evidente ratio sottesa alla disciplina del comporto è quella “di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere la produttività dell'azienda) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione). Il combinato disposto dell'art. 2110, secondo comma, c.c. e delle previsioni del CCNL (nei singoli settori merceologici) conforma, dunque, il potere di recesso del datore di lavoro” (cit. sentenza in disamina).

La Corte rinnova, dunque, l'importanza della contrattazione collettiva per normare il rapporto di lavoro.

Infatti, l'art. 2110 c.c. deve essere letto in combinato disposto, nel caso di specie, con la disciplina del CCNL, evidenziando in particolar modo che l'inadempimento dell'obbligo di avvisare il lavoratore dell'imminenza dello scadere del periodo di comporto, nella fattispecie previsto dal contratto collettivo, comporto determina l'illegittimità del licenziamento.

Osservazioni

Il mancato avviso dell'approssimarsi della fine del periodo di conservazione è parte costitutiva del diritto ai sensi del CCNL applicato al caso di specie

Tanto osservato, è logicamente sensato analizzare il ragionamento della Corte affrontando prima la questione giuridica (A). Orbene, l'art. 2110 c.c. nulla dice in merito all'eventuale obbligo del datore di lavoro di avvisare preventivamente il lavoratore circa lo scadere del periodo di conservazione. Pertanto, in via generale, ben si può affermare che il mancato avviso da parte del datore di lavoro non costituisce affatto una violazione dei principi di correttezza e buona fede che peraltro, si ricorda, sono principi dettati dalla lex contractus all'art. 1374 c.c., dunque applicabile solo a rapporti regolati dall'autonomia privata: assumono, pertanto, rilevanza in relazione al licenziamento de qua solo in riferimento agli obblighi normati dalla contrattazione collettiva, fonte originata appunto dall'autonomia privata.

Come già rilevato, l'art. 46 del CCNL applicato al rapporto di lavoro prevede, al comma 6 che: “Al raggiungimento di almeno 400 giorni calendariali complessivi di comporto, l'azienda ne dà comunicazione ai dipendenti interessati in occasione della consegna/trasmissione della prima busta paga utile”. Pertanto, come giustamente rileva la Corte, “Il rinvio dell'art. 2110 c.c. alle previsioni del contratto collettivo consente di ritenere che l'obbligo di comunicare l'approssimarsi della scadenza del periodo di comporto, conformi, al pari dell'arco temporale massimo di comporto, l'esercizio del potere di recesso del datore di lavoro, che può, pertanto, risolvere legittimamente il rapporto di lavoro nel rispetto delle condizioni dettate dalle parti sociali” (cit. sentenza in disamina). In consequenziale applicazione dei principi generali del diritto e del richiamo esplicito della legga alla contrattazione collettiva, il mancato avviso viola la disposizione contrattuale e, dunque, anche l'art. 2110 c.c.

Si passa ora disaminare la questione (B), ossia la corretta norma sanzionatoria. L'art. 18, comma 7, l. n. 300/1970 prevede: “Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti (…) che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, c.c.

Assume allora estrema importanza l'aver ricondotto il mancato avviso di cui alla precedente questione (A) alla violazione dell'art. 2110 c.c.: ciò comporta che per espressa previsione legale che la sanzione sia quella prevista dal comma 4 dell'art. 18 e non già dal seguente comma 5 applicato, invece, dalla Corte territoriale, il cui giudizio è stato pertanto cassato e riformato dalla Cassazione.

La decisione della Suprema corte commentata presenta una encomiabile chiarezza espositiva e rigore logico giuridico e non può che essere totalmente condivisa.

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