Stress da inattività lavorativa: risarcibile anche in caso di patologia pregressa

20 Agosto 2024

La Corte di cassazione torna sul tema dello stress lavorativo, questa volta affermando che l'inattività lavorativa forzosa può configurare una esposizione nociva e stressogena, eziologicamente idonea a produrre un danno risarcibile anche nel caso di patologia pregressa della dipendente.

Il caso

Una dipendente comunale conveniva in giudizio il proprio ente di appartenenza per ottenere il risarcimento dal danno da forzata inattività a cui era stata sottoposta per oltre due anni. Accertata l'inattività lavorativa, il giudice di primo grado condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno cagionato alla lavoratrice, individuato attraverso la c.t.u. medico-legale in un “disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso misti”, liquidando un compendio risarcitorio pari a 10.492,35 euro.

La vicenda giudiziaria vedeva un completo ribaltamento in secondo grado, con la totale riforma da parte della Corte d'Appello di Catania che, pur confermando in toto l'accertamento del giudice di prime cure sull'an della responsabilità datoriale, negava tuttavia il risarcimento del danno sul presupposto che non sussistesse alcuna riferibilità causale tra la pregressa sintomatologia presentata dalla lavoratrice e le successive condotte datoriali, seppur inadempienti.

L'ordinanza in commento, dunque, trae origine dal ricorso avverso la sentenza d'appello presentato dalla dipendente comunale, che viene accolto integralmente dalla Corte di cassazione con rinvio al giudice di secondo grado in diversa composizione.         

La questione

I principi di diritto

La pronuncia parte dal presupposto - quanto all'an della responsabilità - della formazione del giudicato interno; è infatti pacifico che, nel corso del periodo lavorativo oggetto di contenzioso, la lavoratrice è stata mantenuta “in una situazione non solo di forzata inattività ma anche di isolamento lavorativo”.

Qual è la traduzione in termini giuridici della condotta datoriale?

Gli ermellini non hanno dubbi: si tratta, da parte dell'Amministrazione comunale, di un “comportamento violativo dell'art. 2087 c.c.”, norma il cui contenuto non è limitato al “mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente”, ma si estende anche “all'obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato”.

Non pare affatto casuale il riferimento all'idea guida di discrepanza tra organizzazione lavorativa e personale, espressa per la prima volta da Cristina Maslach nel noto studio sul burnout (cfr. MASLACH, LEITER, Burnout e organizzazione, Trento, 2000). Al contrario, la formula viene meglio chiarita dai giudici di Piazza Cavour poche righe più avanti, dove si esplicita il legame dell'art. 2087 c.c. con l'obbligo di prevenzione e di contrasto dello stress lavoro-correlato, ovverosia con quello “stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali che, in caso di esposizioni prolungata, può causare problemi di salute e che, pertanto, investe la responsabilità dei datori di lavoro obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori”, in conformità alla definizione contenuta nell'Accordo Europeo dell'8 ottobre 2004, espressamente richiamato nell'ordinamento interno dall'art. 28, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 (cfr., ex multis, Cass. 15 novembre 2022, n. 33639).

Siamo di fronte, dunque, ad una prospettiva di “progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori”, che alimenta di contenuto la “valvola di apertura” rappresenta dal dovere generale di sicurezza a carico del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c.

Operate queste importanti premesse di ordine teorico, la pronuncia in commento affronta il nodo pratico: il mancato riconoscimento, da parte della Corte d'Appello, del nesso eziologico tra condotta datoriale inadempiente e patologia sofferta dalla lavoratrice, nonostante la c.t.u. medico-legale disposta in primo grado avesse accertato la compatibilità, sul piano eziopatogenetico, del disturbo dell'adattamento patito dalla ricorrente con una situazione di protratta conflittualità lavorativa.

Su questo punto, l'ordinanza è tranciante: i giudici di secondo grado sono pervenuti a conclusioni opposte rispetto al giudice di prime cure e allo stesso c.t.u., “apoditticamente e genericamente valorizzando atti di parte ed emergenze probatorie differenti da quelli favorevolmente considerati dal tribunale, senza invero indicare argomento alcuno idoneo a rendere comprensibile l'iter logico-giuridico seguito, omettendo in particolare di spiegare quali ragioni l'abbiano indotta a privilegiare questi ultimi in luogo dei primi”.

Infatti, come indicato dalla costante giurisprudenza di legittimità in materia, allorché il giudice di merito “non abbia le cognizioni tecnico-scientifiche necessarie e idonee a ricostruire e comprendere la fattispecie concreta in esame nella sua meccanicistica determinazione ed evoluzione, pur essendo peritus peritorum deve fare invero ricorso a una consulenza tecnica di tipo percipiente, quale fonte oggettiva di prova (cfr. Cass. 22 febbraio 2016, n. 3428; Cass. 30 settembre 2014, n. 20548; Cass. 27 agosto 2014, n. 18307; Cass. 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass. 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. 19 gennaio 2006, n. 1020), sulla base delle cui risultanze è tenuto a dare atto dei risultati conseguiti e di quelli viceversa non conseguiti o conseguibili, in ogni caso argomentando su basi tecnico-scientifiche e logiche (cfr. Cass. 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass., 13 marzo 2009, n. 6155; Cass., 19 gennaio 2006, n. 1020)”.

Ad ogni modo, il giudice può anche disattendere le risultanze della disposta c.t.u. percipiente, “ma solo motivando in ordine agli elementi di valutazione adottati e agli elementi probatori utilizzati per addivenire all'assunta decisione (cfr. Cass. 3 marzo 2011, n. 5148), specificando le ragioni per cui ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni dell'ausiliare (cfr. Cass. 26 agosto 2013, n. 19572; Cass. 7 agosto 2014, n. 17747; Cass. 11 gennaio 2021, n. 200)”.

Proprio il raffronto con i suddetti principi di diritto porta a concludere che la sentenza impugnata non abbia fornito alcuna esplicitazione in ordine al diverso criterio logico seguito rispetto all'accertamento del nesso eziologico affermato dalla c.t.u. medico-legale, in questo modo rendendo oscuro il percorso argomentativo seguito (conf. Cass. 14 febbraio 2020, n. 3819).

Sotto questo profilo, la valorizzazione da parte della Corte d'Appello di Catania di due documenti medici anteriori ai fatti di causa, attestanti la possibile preesistenza di uno stato di “depressione ansiosa”, non sono idonei di per sé a contrastare l'obiettivo riscontro medico-legale né in termini di possibile individuazione di una causa della malattia diversa dall'ambiente di lavoro, né in termini di esclusione del nesso eziologico tra la condizione lavorativa e una eventuale patologia pregressa.

Sul punto, infatti, i giudici di legittimità richiamano l'orientamento ormai invalso in tema di condizioni patologiche preesistenti, secondo cui “rileva l'apporto eziologico anche della c.d. dose correlata ovvero del permanere della esposizione ai fattori di rischio (dunque della condotta inadempiente ex art. 2087 c.c.) successiva all'eziopatogenesi della malattia” (conf. Cass. 9 novembre 2022, n. 33080). Si tratta di un approccio che dà rilevanza anche alle condotte datoriali inadempienti successive alla genesi della patologia sofferta dal dipendente, in termini di incidenza eziologica come fattore di aggravamento o di accelerazione della patologia.

Nel caso di specie, conclude l'ordinanza, i giudici di secondo grado avrebbero quantomeno dovuto svolgere un supplemento di consulenza tecnica, al fine di poter validamente escludere l'incidenza eziologica della condotta datoriale inadempiente successiva all'insorgere della patologia nella lavoratrice.    

La soluzione giuridica

Il contesto sistematico: lo stress lavorativo nella giurisprudenza di legittimità

L'ordinanza oggetto della presente analisi conferma un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità (cfr. TAMBASCO, ROSIELLO, Il risarcimento del danno da stress lavorativo. Nuove forme di tutela nell'era del lavoro digitale, Milano, 2024, p. 13 e ss.) che, consapevole dell'esistenza di un evidente “vuoto di tutela” nell'ordinamento giuridico (cfr. TAMBASCO, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza italiana, Roma, in OIL, 2022, p. 7-15), ha dato vita ad una tendenza volta “ad ampliare la tutela risarcitoria in favore del lavoratore, condannando tutti quei comportamenti datoriali idonei a creare un ambiente lavorativo stressogeno e lesivo della salute e della dignità del lavoratore, quali beni primari tutelati dalla Costituzione” (Corte dei conti Trentino-Alto Adige, sez. giurisdiz., 16 gennaio 2024, n. 1, par. 2.7.5).

Partendo dall'autentico “polmone normativo” rappresentato dall'art. 2087 c.c., il diritto vivente ha progressivamente valorizzato la “dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori”, imponendo come prioritaria “l'obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro, che consente di configurare la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento -imputabile anche solo per colpa- che si ponga in nesso causale con un danno alla salute, secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale” (cfr. Cass., sez. lav., 15 novembre 2022, n. 33639, par. 2.3.4).

Logica conseguenza di questo nuovo approccio è stata l'affermazione dello stress forzato quale causa prima della responsabilità datoriale, definita come “inadempimento datoriale agli obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c.”, che ricomprende “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass., sez. lav., 7 febbraio 2023, n. 3692; conf. Cass. 30 novembre 2022, n. 35235; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428).  

Il nuovo paradigma della responsabilità per stress lavorativo, dunque, ha visto ampliato il proprio raggio a tutte le situazioni in cui il datore di lavoro consenta, anche solo colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno per la salute dei lavoratori (Cass., sez. VI, 5 agosto 2022, n. 24339; conf., ex multis, Cass., sez. lav., 23 maggio 2022, n. 16580; Cass., sez. lav., 29 marzo 2018, n. 7844).

Ciò che conta in questa rinnovata prospettiva giuridica è che il fatto commesso, anche isolatamente, costituisca un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi del lavoratore protetti al livello più elevato dell'ordinamento (personalità morale, integrità psico-fisica, dignità, identità personale, partecipazione alla vita sociale e politica). Ecco, quindi, che assume valore dirimente “l'ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 c.c." (cfr. Cass. 28 dicembre 2023, n. 36208; Cass. 7 febbraio 2023, 3692, cit.; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639, cit.; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428, cit.; Cass. 25 ottobre 2022, n. 31514).

Ne deriva, sul piano pratico, che elementi quali la reiterazione e l'intensità del dolo non hanno più nessun rilievo nella qualificazione di illiceità della condotta datoriale, potendo tutt'al più eventualmente incidere sulla liquidazione del quantum risarcitorio (Cass., 19 ottobre 2023, n. 21901, cit.; Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084). 

In definitiva, possiamo affermare che la recente evoluzione della giurisprudenza di legittimità ha portato all'ampliamento del raggio operativo dell'art. 2087 c.c. attraverso un'opera di estensione in chiave “obiettiva” e “organizzativa” della clausola generale di sicurezza sul lavoro, costituendo per la giurisprudenza di merito un saldo riferimento nella valutazione delle condotte e degli ambienti stressogeni sottoposti al vaglio della tutela giurisdizionale, tanto da potersi sostenere che “dal punto di vista giuridico la distinzione operata dagli studiosi tra mobbing (insieme di condotte lecite o illecite caratterizzate da un unico intento persecutorio) e “stress lavoro correlato” (tipico di comportamenti anche colposi non necessariamente collegati tra loro), sembra essere superata dagli approdi più recenti della giurisprudenza che individuano nella norma di cui all'art. 2087 c.c. in ogni caso la fonte di responsabilità contrattuale del datore di lavoro” (Corte d'Appello di Venezia, sez. lav., 25 ottobre 2023, n. 589).

Osservazioni

La preesistenza di condizioni di fragilità o di patologie pregresse

La lettura della pronuncia in esame consente un'interessante digressione sul tema della responsabilità datoriale per esposizione del lavoratore ad ambienti di lavoro nocivi e stressogeni, nel caso di preesistenza di condizioni personali di fragilità o di patologie pregresse. Si tratta di un tema che, sul piano giuridico, involge la specifica questione dell'accertamento del nesso eziologico tra il danno alla salute e la condotta datoriale inadempiente del precetto generale di cui all'art. 2087 c.c.

Anche in questo caso, è il diritto pretorio a chiarire i relativi contenuti e a delimitare i rispettivi confini.  

In primo luogo, l'analisi degli orientamenti giurisprudenziali sia di merito che di legittimità evidenzia una netta distinzione tra i) sussistenza di condizioni personali di fragilità psico-fisica e ii) esistenza di patologie pregresse.

In particolare, la preesistenza di condizioni di fragilità del lavoratore o della lavoratrice, consistente in quello stato di vulnerabilità della persona da cui deriva una sorta di predisposizione” non invalidante in sé e per sé (cfr. Cass., 4 novembre 2021, n. 31742), non vale ad escludere il nesso eziologico tra la patologia insorta e l'esposizione all'ambiente di lavoro nocivo o comunque stressogeno. Si tratta di un principio espresso proprio dalla giurisprudenza di merito, che ha affermato come “non sostenibile che la sussistenza di un determinato vissuto possa escludere, anche solo in parte, la rilevanza causale di fatti illeciti comprovati (nel caso di specie, gli atteggiamenti discriminatori e vessatori) nel deterioramento dello stato di salute di colui che ne è vittima” (Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 22 marzo 2021, n. 475).

Infatti, secondo la citata pronuncia, “sicuramente ogni persona reagisce ad eventi stressogeni con diverse modalità, riconducibili, anche, al proprio carattere ed alle proprie esperienze; ma questo non è un motivo valido per escludere l'efficacia causale degli eventi stessi su uno stato di malattia, ove ne sia provata sia l'esistenza sia il nesso causale. Per fondare eventuale responsabilità è sufficiente, quindi, che la condotta, dolosa o colposa, dell'agente abbia avuto efficacia causale anche solo a livello di concausa, nella produzione dell'evento dannoso” (Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 22 marzo 2021, n. 475, cit., in un caso di vittima affetta da un preesistente narcisismo; conf. Cass., sez. lav., 8 giugno 2007, n. 13400; Cass., sez. lav., 19 luglio 2005, n. 15183).

Tutt'al più, la preesistenza di particolari condizioni di vulnerabilità può rilevare a valle della responsabilità datoriale, potendo determinare un peso particolare nella valutazione del quantum risarcitorio del danno, ma non nella determinazione del nesso di causalità (cfr. Cass. 29 agosto 2007, n. 18262, nel caso di “predisposizione paranoide” del lavoratore).

Ne deriva dunque che la peculiare fragilità del dipendente esposto a condizioni di lavoro stressogene non vale a escludere il nesso di causalità tra i comportamenti del datore di lavoro e i danni subiti dal dipendente, dovendo il datore rispondere per l'intero danno e non solo proporzionalmente, stante il principio, affermato in giurisprudenza, per cui «un evento dannoso è da considerarsi causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo » (Cass., 8 giugno 2007, n. 13400, cit.).

Radicalmente diversa, come abbiamo detto, è l'ipotesi in cui la patologia fisica e/o psichica sia preesistente alla situazione lavorativa nociva o molesta. In questo caso, si pone all'operatore del diritto un rilevante problema pratico: come incide l'ambiente di lavoro su un pregresso stato patologico? Si tratta di un interrogativo che, in altri termini, involge il tema centrale inerente alla possibilità di considerare, successivamente alla contrazione della patologia da parte del lavoratore, come causalmente rilevanti, quali fattori di accelerazione o di aggravamento della malattia, le successive esposizioni del lavoratore ai fattori di rischio, nel perdurare dell'inadempimento datoriale all'obbligo di adozione delle necessarie misure di prevenzione e sicurezza dettate dall'art. 2087 c.c.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità sembra oggi aver definitivamente abbandonato la tesi della cosiddetta dose indipendente o trigger dose secondo la quale, ai fini dell'accertamento del nesso causale, dovrebbe essere valorizzata la sola esposizione nociva (in violazione dell'art. 2087 c.c.) sufficiente a innescare la malattia, essendo invece irrilevanti tutte le altre.

Al contrario, l'orientamento attualmente consolidato afferma la rilevanza eziologica anche della cosiddetta dose correlata o cumulativa, consistente nella permanenza dell'esposizione ai fattori di rischio anche successivamente all'insorgere della malattia (cfr. Cass., sez. lav., 9 novembre 2022, n. 33080; nella giurisprudenza penale, ex multis, Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 2021, n. 44943; Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2012, n. 24997). Tesi, questa, riconosciuta oggi come valida legge di copertura scientifica per l'accertamento e la valutazione del nesso di causalità (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 21 giugno 2012, n. 24997, cit.).

Si tratta di un approccio metodologico che, anche sul piano epistemico, consente di cogliere meglio l'essenza del complesso fenomeno causale, dando rilevanza anche alle condotte datoriali inadempienti successive alla genesi della patologia (cfr. Cass. 9 novembre 2022, n. 33080, cit.).  Resta fermo, in ogni caso, che l'inadempimento datoriale agli obblighi di prevenzione e protezione rispetto alla salute e alla personalità morale dei lavoratori e delle lavoratrici potrà essere valorizzato e ritenuto causalmente efficiente solo nel caso in cui sia stato concretamente accertato, attraverso l'ausilio di una consulenza tecnica percipiente, che l'esposizione a un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno abbia avuto un ruolo acceleratore nella patologia o comunque l'abbia aggravata (cfr. Cass. 6 agosto 2024, n. 22161, cit.; Cass. 9 novembre 2022, n. 33080, cit.).

In altre parole, l'operatore del diritto se da un lato non potrà escludere automaticamente la responsabilità datoriale nel caso di preesistenza di una condizione patologica del dipendente, dall'altro dovrà comunque operare un attento scrutinio sulla condotta datoriale inadempiente ex art. 2087 c.c. successiva alla genesi della patologia, verificandone l'effettiva incidenza eziologica come fattore di aggravamento o di accelerazione, anche attraverso l'ausilio dei necessari supporti peritali che consentano di argomentare obiettivamente su basi tecnico-scientifiche e logiche (cfr. Cass. 6 agosto 2024, n. 22161, cit.; Cass. 9 novembre 2022, n. 33080, cit.).

In concreto, sarà tuttavia a carico del ricorrente l'onere di provare che la patologia già esistente, nel caso di esposizione ad un ambiente di lavoro salubre e rispettoso delle prescrizioni di cui all'art. 2087 c.c., avrebbe avuto un excursus diverso o in ogni caso meno infausto (cfr. Cass. 9 novembre 2022, n. 33080, cit.).

In definitiva, “lo stato di salute anteriore della vittima può assumere rilevanza ai fini della quantificazione del risarcimento, nel rispetto del principio della causalità giuridica, solo qualora in epoca antecedente al fatto illecito il danneggiato fosse già affetto da patologia con effetti invalidanti, sui quali si è innestata la condotta antigiuridica, determinando un aggravamento che, in assenza del fattore sopravvenuto, non si sarebbe prodotto; in quest'ultima ipotesi il giudice è tenuto a stimare il danno biologico tenendo conto della patologia pregressa, perché la lesione manifestatasi all'esito dell'azione illecita non è nella sua interezza una conseguenza immediata e diretta di quest'ultima, ma lo è soltanto per la parte che, secondo il giudizio controfattuale, non si sarebbe verificata in assenza della condotta antigiuridica tenuta dal danneggiante (Cass. n. 13400/2007; Cass. n. 27524/2017; Cass. n. 28986/2019; Cass. n. 17555/2020); alla preesistenza di una patologia non può, invece, essere assimilato un mero "stato di vulnerabilità", ossia una "predisposizione" non invalidante in sé, che non esclude né la causalità materiale, per il principio dell'equivalenza delle cause, né quella giuridica, perché il danno risulta comunque conseguenza diretta ed immediata dell'azione illecita (Cass. 20836/2018; Cass. n. 15991/2011)”, cfr. Cass., 4 novembre 2021, n. 31742, cit.

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