Brevi riflessioni sulla responsabilità civile del revisore legale nella crisi d’impresa: legittimazione attiva e regime di prescrizione dell’azione
26 Agosto 2024
Il contributo è stato scritto con la collaborazione della Dott.ssa Elena Carpaneto. È un fatto che le azioni di responsabilità siano esercitate con una certa frequenza nell'ambito delle procedure concorsuali. Ciò vale evidentemente anche per quanto riguarda le azioni di responsabilità intentate nei confronti del professionista o della società incaricati della revisione legale dei conti. Come noto, l'attività della revisione legale dei conti risulta disciplinata da una normativa ad hoc: il d.lgs. n. 39/2010, emanato in attuazione della dir. 2006/43. Per quanto qui rileva, questo decreto attribuisce al revisore il compito di verificare, durante il corso dell'esercizio, la regolare tenuta della contabilità sociale, nonché la corretta rilevazione dei fatti di gestione all'interno delle scritture contabili. Lo svolgimento di tale attività risulta all'evidenza prodromico al principale adempimento rimesso al revisore, vale a dire: la predisposizione di un'apposita relazione sul bilancio di esercizio (il cosiddetto giudizio). Come si capisce, è ben possibile che il revisore, durante lo svolgimento dell'incarico, venga meno agli obblighi discendenti dal proprio ufficio. Per l'ipotesi in cui ciò dovesse verificarsi, il d.lgs. n. 39/2010 stabilisce che: i) il revisore è responsabile per i danni derivanti dall'inadempimento ai propri doveri nei confronti della società sottoposta a revisione, dei soci di tale società e dei terzi; ii) l'esercizio di tale azione di responsabilità si prescrive nel termine di cinque anni decorrenti «dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento». Sulla scorta di queste brevi premesse, si provi ora ad immaginare il caso (come detto, non infrequente) in cui la suddetta azione debba essere intrapresa da parte di un curatore nell'ambito della liquidazione giudiziale dell'impresa un tempo interessata dalla revisione legale dei conti. L'ipotesi ora considerata pone all'evidenza un duplice interrogativo di non poco conto, ovvero la questione se: a) il curatore sia, anzitutto, legittimato ad esperire una simile azione; b) ammessa in ipotesi una tale legittimazione, l'azione eventualmente esperita dalla curatela sia quella facente originariamente capo alla società sottoposta a revisione oppure ai terzi, intesi evidentemente quali terzi creditori. Cominciando dall'interrogativo sub a), lo stesso può essere agevolmente risolto in senso affermativo (come in effetti è già stato in precedenza risolto dalla più autorevole dottrina) alla luce dell'indiscutibile diritto del curatore di esercitare i diritti ricompresi nel patrimonio del fallito e, in questo caso, le pretese risarcitorie eventualmente scaturenti dal rapporto contrattuale intrattenuto con il revisore. La questione si palesa invece in tutta la sua complessità per quanto attiene all'interrogativo sub b), e cioè per quanto attiene alla possibilità di riconoscere in capo al curatore la legittimazione ad agire nei confronti del revisore, esercitando altresì l'azione di spettanza dei creditori sociali. Tale interrogativo è stato sollevato dalla più attenta dottrina già all'indomani dell'emanazione del d.lgs. n. 39/2010, il quale ha, come noto, abrogato l'art. 2409-sexies c.c., e cioè quella disposizione normativa che – mediante un richiamo all'art. 2407 c.c. – strutturava la responsabilità del revisore su quella del sindaco. In particolare, l'oggetto del contendere è divenuto attuale nel momento in cui tale abrogazione ha posto fuori gioco il terzo comma dell'art. 2407 c.c., e così il principio per cui alle azioni di responsabilità nei confronti del revisore sarebbe risultata applicabile la disposizione di cui all'art. 2394 c.c. in tema appunto di responsabilità verso i creditori sociali. Come si può facilmente intuire, il nocciolo della questione ruota tutto intorno alla scelta di ricondurre il mancato rimando all'art. 2394 c.c., alternativamente, ad un difetto di coordinamento riconducibile ad una dimenticanza del legislatore del d.lgs. 39/2010 o, al contrario, ad una scelta ponderata e meditata da parte di quest'ultimo. Ora, premesso che solo il legislatore davvero sa se quanto sopra riferito sia frutto di una scelta consapevole oppure di un tratto di penna sfuggito di mano, la questione può forse essere risolta (o immaginare di essere risolta) pensando alla figura del revisore all'interno dello schema proprio dell'ente societario. Ed infatti, osservando la questione da questo punto di vista, si dovrebbe tener sempre presente che la responsabilità disciplinata dall'art. 2394 c.c. è quella discendente dall'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, ovvero: una responsabilità il cui danno patito dai creditori costituisce il riflesso di quello cagionato alla società, o meglio al patrimonio di quest'ultima. Tenendo fede a questa premessa, risulta difficile – per lo meno a chi scrive – escludere tout court l'eventualità che inadempimenti ascrivibili al revisore possano ripercuotersi proprio sull'integrità del patrimonio sociale, in quanto implicito avallo, in ipotesi, di una condotta attuata dall'organo gestorio per l'appunto in spregio agli obblighi in tema di conservazione del patrimonio sociale. Il che, volendo osservare la questione da un diverso punto di vista, parrebbe a maggior ragione confermato dalla disciplina riservata al collegio sindacale, il cui regime di responsabilità, all'evidenza inclusivo di quella scaturente dall'art. 2394 c.c., non soffre limitazioni di sorta per l'ipotesi in cui sia ed esso affidata la revisione legale dei conti ex art. 2409-bis c.c. Così posta la questione, il vero problema da porsi credo che concerna piuttosto la configurazione del nesso causale tra l'ipotetico inadempimento del revisore, da un lato, e il danno al patrimonio sociale, dall'altro lato. Provo a spiegarmi meglio: prendendo a riferimento l'ipotesi, con ogni probabilità più diffusa nella prassi, il vero problema concerne, in altre parole, la possibilità di affermare e individuare un'efficienza causale tra l'inadempimento del revisore che abbia omesso di rilevare l'intervenuta perdita del capitale sociale e l'indebita protrazione dell'attività d'impresa. Tale efficienza potrebbe infatti essere facilmente posta in discussione, affermando che il revisore si troverebbe privo dei poteri necessari ad impedire un tale evento, non avendo nella propria cassetta degli attrezzi né lo strumento della denuncia al tribunale, né quello della convocazione dell'assemblea. Tuttavia, credo che anche in questo caso una possibile chiave di lettura possa essere ricercata all'interno del sistema proprio dell'ente società. Questo sistema mette infatti in risalto un insieme comunicante, opportunamente evidenziato dalla disposizione di cui all'art. 2409-octies c.c., ai sensi della quale il collegio sindacale e il revisore si scambiano tempestivamente le informazioni rilevanti per l'espletamento dei rispettivi incarichi. Il che induce a ritenere che l'efficacia causale della condotta inadempiente del revisore è sì configurabile, ma semplicemente si arresta in un momento antecedente rispetto a quella degli amministratori e dei sindaci, ovvero nel momento in cui risultano inutilmente esperite tutte le iniziative funzionali alla rilevazione dell'intervenuta perdita del capitale sociale tramite il giudizio sul bilancio e la denuncia al collegio sindacale. A corollario delle brevi riflessioni sopra svolte, occorre evidenziare che le problematiche scaturenti dall'analisi della disciplina della responsabilità del revisore non si arrestano di certo al tema della legittimazione attiva attribuibile alla curatela. Altrettanto vivo è infatti il dibattito sorto a proposito del regime della prescrizione dell'azione risarcitoria in analisi, che l'art. 15 del d.lgs. 39/2010 sancisce in cinque anni decorrenti «dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento». L'attualità del dibattito risulta confermata da una recentissima ordinanza del Tribunale di Milano (ord. n. 133 del 6 settembre 2023), nella quale è stata dichiarata «rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3, comma 1, e 24, comma 1, Cost. (…) la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, d.lgs. n. 39 del 2010, nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione delle azioni nei confronti di revisori e società di revisione decorre dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento». L'incidente di costituzionalità della norma prende le mosse dalle seguenti considerazioni preliminari: 1) mentre il dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione per tutte le azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci risulta identificato nel momento in cui è oggettivamente possibile avere contezza del danno subito, quello riferito alla responsabilità del revisore risulta, invece, individuato nella data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio in contestazione; 2) in difetto di una lacuna normativa, non è ammissibile il ricorso ad interpretazioni analogiche tese ad allineare il regime prescrizionale tra le fattispecie; 3) l'art. 15 del d.lgs. 39/2010 rappresenta una disposizione in deroga alle disposizioni codicistiche; 4) preclusa la via dell'interpretazione analogica, ne deriva l'impossibilità, alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale, di ricorrere all'interpretazione costituzionalmente adeguatrice; 5) le norme che delineano il regime della prescrizione dei diritti risarcitori verso gli amministratori e i sindaci, non derogando alle norme generali in materia di decorrenza dei termini di prescrizione, possono costituire il tertium comparationis rispetto al quale commisurare la ragionevolezza dello speciale regime previsto dal più volte citato art. 15. Ciò posto e tenuto altresì conto che i danni provocati dall'inadempimento del revisore legale «sono per natura lungolatenti», verificandosi «a distanza notevole di tempo rispetto al momento del comportamento lesivo», il giudice remittente evidenzia l'illegittimità della disposizione in analisi nella misura in cui dà luogo ad un «irragionevole differenziazione rispetto alle norme previste, in materia, con riferimento ai diritti risarcitori dei danneggiati da inadempimenti o illeciti di amministratori e sindaci». Chissà se, anche a luce di una tale ultima novità, il legislatore coglierà l'occasione per mettere ordine ad una disciplina foriera di incertezze e potenziali asimmetrie. |