Licenziamento per giusta causa: legittimo se il dipendente offende l’azienda tramite un post pubblicato sul proprio profilo Facebook

29 Agosto 2024

Il licenziamento del dipendente che, in un post su Facebook, qualifica in modo dispregiativo il proprio datore di lavoro, utilizzando termini lesivi dell'immagine dello stesso, è legittimo poiché tale condotta è diffamatoria e integra gli estremi della giusta causa, essendo il post accessibile a una platea potenzialmente indeterminata di soggetti e, in quanto tale, non scriminabile alla stregua della corrispondenza privata del lavoratore.

Massima

È legittimo il licenziamento del dipendente che, attraverso un post pubblicato sul proprio profilo personale su Facebook, denigri l'azienda presso cui è assunto utilizzando termini che sono lesivi dell'immagine della stessa. Tale pubblicazione, infatti, per l'attitudine a determinare la circolazione del contenuto tra un gruppo indeterminato di persone, non è sovrapponibile al messaggio scambiato in una chat privata, scriminato per effetto del combinato disposto degli artt. 51 c.p. e 15 Cost. (in materia di libertà e segretezza della corrispondenza).

Il caso

Condotte diffamatorie sui social network

Nel caso esaminato dalla Corte, un dipendente ha impugnato il licenziamento irrogatogli per aver postato sula propria pagina Facebook, quale contenuto visibile alla propria lista di contatti, affermazioni diffamatorie nei confronti del proprio datore di lavoro.

Sia in primo grado, sia in appello, i giudici di merito hanno respinto l'impugnazione del licenziamento proposta dal lavoratore che, a propria discolpa, sosteneva che il post incriminato fosse stato visibile soltanto a una cerchia ristretta di utenti (i primi “amici” nel social network, per l'appunto) e per un periodo limitato, prima di essere definitivamente rimosso.

Il lavoratore ha, dunque, adito la Corte di Cassazione.

Le questioni

Il fondamento dell'indebito rilevabile disciplinarmente

La Corte d'appello, confermando la pronuncia del Tribunale, ha rigettato l'impugnazione del dipendente, considerando il licenziamento irrogato dal datore di lavoro proporzionato alla gravità della condotta, in quanto la stessa è stata ritenuta idonea a incrinare il rapporto fiduciario tra le parti.

Infatti, ammesso anche che la volontà del lavoratore fosse quella di non rendere il post accessibile a una platea indeterminata di soggetti, la sola pubblicazione sul proprio profilo del social network ne estende, di per sé, la visibilità a un numero già amplissimo di “amici” oltre che, potenzialmente, a una moltitudine indeterminabile di utenti, data la possibilità che il post stesso, una volta immesso sul web, sia veicolato senza alcun limitazione e al di fuori dell'eventuale controllo del suo autore.

Una tale condotta, secondo la Corte, legittima il recesso della Società in quanto certamente diffamata dalla pubblicazione del post del lavoratore.

Le soluzioni giuridiche

La diffusione di informazioni tramite social network.

La Corte di Cassazione conferma la pronuncia dei giudici di primo e secondo grado, affermando che la diffusione su Facebook di un commento offensivo nei confronti del datore di lavoro integra gli estremi della diffamazione e, di conseguenza, giustifica il recesso datoriale in virtù dell'irrimediabile compromissione dal rapporto fiduciario con il dipendente che abbia pubblicato un tale contenuto.

In particolare, il mezzo utilizzato dal dipendente, indipendentemente dalla volontà dello stesso, consente di raggiungere potenzialmente un gruppo indeterminato di soggetti iscritti al social network, non potendo, quindi, essere scriminata dalla finalità riservata della comunicazione.

Osservazioni

Condotta diffamatoria e riservatezza delle comunicazioni sui social network.

La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, si pronuncia nuovamente sul tema della potenzialità lesiva, nei confronti del datore di lavoro, del contenuto dei post pubblicati sui social network dai propri dipendenti e della loro rilevanza disciplinare e penale.

Quanto alla valenza diffamatoria del post pubblicato sul profilo personale di Facebook del lavoratore e, quindi, alla fondatezza del licenziamento per giusta causa, la Corte di Cassazione ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la diffusione su Facebook di commenti offensivi nei confronti del datore di lavoro costituisce giusta causa di licenziamento, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.

La condotta in esame, infatti, integra gli estremi della diffamazione - consistente nell'offesa della reputazione altrui attraverso la diffusione di una notizia a più persone - per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di soggetti.

La propagazione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso della propria bacheca Facebook, infatti, integra una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di soggetti, anche se il contenuto sia, di principio, visibile soltanto agli utenti collegati al profilo del lavoratore. Per la Corte, infatti, non importa che il social network sia ad accesso circoscritto, essendo il post in tal modo condiviso (peraltro, già con una moltitudine di utenti) potenzialmente veicolabile esternamente, senza che dalla scelta di utilizzare un tale tipo di strumento possa essere desunta una volontà di non diffusione all'esterno da parte dell'autore.

Tale ultima statuizione della Suprema Corte risulta di particolare interesse. Gli Ermellini, infatti, nell'escludere la sovrapponibilità del caso di specie con altro oggetto di una propria precedente pronuncia (la n. 21965/2018) citata dal ricorrente, chiarisce che la scriminante della riservatezza della corrispondenza – tale da escludere la giusta causa di recesso – possa essere applicata soltanto laddove si tratti di messaggi di una chat privata diretti unicamente agli iscritti a un determinato gruppo chiuso (nel caso di specie, peraltro, era stata specificamente accertata la volontà dei partecipanti di non diffusione delle conversazioni ivi svolte).

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