Risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione: ai fini probatori è richiesta l’allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio

28 Agosto 2024

Il presente contributo offre uno spunto di riflessione sul consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale non viene riconosciuto il risarcimento del danno da dequalificazione professionale in assenza di specifici elementi probatori.

Massime

Onere probatorio

In tema di demansionamento e dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno che asseritamente ne deriva, non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio.

L'onere probatorio del lavoratore può essere soddisfatto con qualsiasi mezzo di prova consentito dall'ordinamento, assumendo particolare rilievo la prova per presunzioni per cui la complessiva valutazione si poggia su precisi elementi per risalire al fatto ignoto, ossia sull'esistenza del danno, e sulle nozioni derivanti dall'esperienza. 

Il caso

Richiesta di risarcimento del danno e onere probatorio in capo al richiedente

La Corte di Appello di Roma ha rifondato la sentenza di primo grado del Tribunale di Roma, nella parte in cui il giudicante aveva riconosciuto il danno subito dal dipendente per demansionamento e dequalificazione professionale, derivato dalla modifica delle proprie mansioni da parte del datore di lavoro. In particolate tale danno sarebbe stato causato nel momento in cui al dipendente è stato escluso il coordinamento di dipendenti a lui sottoposti.

La Corte Territoriale, contrariamente al Tribunale di prime cure, ha aderito al filone maggioritario di giurisprudenza, ritenendo che è onere del lavoratore, che lamenta un danno da dequalificazione professionale e/o demansionamento, dare specifica prova, già nel ricorso introduttivo, in merito alla natura e alle caratteristiche del pregiudizio subito, cosa che il ricorrente non avrebbe ottemperato nel caso in esame.  

La Corte di Roma ha quindi specificato come lo scritto introduttivo di parte ricorrente fosse carente di ogni allegazione circa i fatti precisi o circostanze da cui poter desumere, anche in via presuntiva, la sussistenza del pregiudizio alla professionalità asseritamente patito dal dipendente.

Il lavoratore, dunque, ricorreva per Cassazione.

Le questioni

Onere probatorio in caso di richiesta di risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione

In caso di demansionamento e/o di dequalificazione professionale, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, suscettibile di liquidazione per via equitativa, potrebbe conseguire, da un lato, in re ipsa al demansionamento e dequalificazione, oppure dall'assolvimento, da parte del richiedente, di dar prova circa l'esistenza del pregiudizio subito.

Osservazioni

Spetta al lavoratore dare chiara prova del danno subito

Sulla tematica oggetto della sentenza in commento, la giurisprudenza non è mai stata unanime, non tanto nel riconoscere l'esistenza del diritto al risarcimento del danno, quanto invece su come tale danno debba essere provato dal lavoratore in sede di giudizio ai fini della sua liquidazione, e se soprattutto consegua in re ipsa, ovvero sia richiesta una allegazione specifica. È stata infatti dalla giurisprudenza ritenuta chiara la potenzialità nociva del comportamento datoriale, quanto al demansionamento e alla dequalificazione, soprattutto circa le conseguenze che possono influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione), ma gli orientamenti divergono su di una diversità di accenti e di sfumature, quanto al regime della prova.

Un primo orientamento giurisprudenziale è ascrivibile alle pronunce di cui a Cass. n. 13299 del 16 dicembre 1992, n. 11727 del 18 ottobre 1999, n. 14443 del 6 novembre 2000, 13580 del 2 novembre 2001, n. 15868 del 12 novembre 2002, n. 8271 del 29 aprile 2004, n. 10157 del 26 maggio 2004, le quali, ancorché con motivazioni diversamente articolate, hanno ritenuto che l'ammontare del risarcimento del danno può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio.

Sono ascrivibili, invece, al diverso indirizzo - che richiede la prova del danno - Cass. n. 7905 dell'11 agosto 1998, n. 2561 del 19 marzo 1999, n. 8904 del 4 giugno 2003, n. 16792 del 18 novembre 2003, n. 10361 del 28 maggio 2004, le quali enunciano il principio secondo cui il prestatore di lavoro deve fornire la prova dell'esistenza del danno patito e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale; tale prova costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa ed alla liquidazione del danno. In altre parole, non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore, che denunzi il danno subito, l'onere di fornire prova di quanto asseritamente patito, in base alla regola generale di cui all'art. 2697 c.c.

La questione, rimessa alle Sezioni Unite, ha trovato l'adesione al secondo indirizzo (Cass., sez. un., n. 6572/2006).

L'indirizzo delle Sezioni Unite rafforza la tesi maggioritaria, in dottrina e in giurisprudenza, che prospetta la responsabilità datoriale di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: il danno deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione), norma che si inserisce, nell'ambito del rapporto di lavoro, nei principi costituzionali. Giacché l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art. 1218 c.c., con conseguente esonero dall'onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessione con l'art. 1223 c.c.

Di conseguenza, dall'inadempimento datoriale, non deriva automaticamente l'esistenza del danno; questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva del comportamento del datore di lavoro. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, che è per certi versi autonoma. Non può infatti non valere la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli all'art. 2103 c.c., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte Costituzionale n. 372/1994).

D'altra parte - mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta - ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento; soluzione non plausibile nel nostro ordinamento.

Occorre, quindi, sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione/demansionamento, si rende indispensabile una specifica allegazione da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno.

Non è quindi sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione e/o del demansionamento e domandare genericamente il risarcimento del danno, non potendo il tribunale prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice sebbene possa sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 c.p.c., non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass., sez. un., 3 febbraio 1998, n. 1099).

Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione e/o del demansionamento, dell'isolamento, della forzata inoperosità, dell'assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi, se da un lato integrano l'inadempimento del datore, dall'altro è poi strettamente necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che, ad esempio, la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provocando cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l'interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così, sussiste l'inadempimento, ma non c'è pregiudizio, e di conseguenza non c'è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 378/1994 per cui "E' sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c.”.

Aderendo a questa corrente giurisprudenziale, ormai consolidata, la sentenza in commento ha ritenuto non fondati i motivi del lavoratore, poiché non correttamente provati i danni asseritamente patiti.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.