Impresa familiare: la Consulta estende al convivente di fatto la disciplina a tutela del lavoro prestato, riconoscendo prerogative patrimoniali e partecipative
27 Agosto 2024
Massima La protezione del lavoro del convivente di fatto doveva essere la stessa di quella del coniuge e non poteva essere inferiore a quella riconosciuta finanche all'affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell'impresa familiare. Risulta pertanto la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l'art. 3 Cost. risulta violato «non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente» (sentenza n. 213 del 2016), ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.). La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va operata inserendo il convivente di fatto dell'imprenditore nell'elenco dei soggetti legittimati a partecipare all'impresa familiare di cui al terzo comma dell'art. 230-bis c.c., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto». Ai conviventi di fatto, intendendosi come tali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» (art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016), vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore. Pertanto – assorbito l'esame degli ulteriori parametri evocati (art. 9 CDFUE e art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU) – si deve dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, terzo comma, c.c., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». L'ampliamento della tutela apprestata dall'art. 230-bis c.c. al convivente di fatto per effetto della predetta pronuncia di illegittimità costituzionale fa sì che la previsione dell'art. 230-ter c.c. avrebbe oggi il significato non più di apprestare per quest'ultimo una garanzia prima non prevista, come nell'intendimento del legislatore del 2016, bensì quella di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell'art. 3, primo comma, Cost.) – la più ampia tutela qui riconosciuta; un abbassamento di protezione che viola il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), oltre che il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.). Pertanto, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa in via consequenziale all'art. 230-ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art. 230-bis c.c. Il caso L'applicabilità al convivente di fatto della disciplina sull'impresa familiare Con ordinanza del 18 gennaio 2024 le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2,3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ed all'art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), dell'art. 230-bis, primo e terzo comma, c.c., sull'impresa familiare, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e, in via derivata, dell'art. 230-ter c.c., che applica al convivente di fatto, che presti stabilmente la propria opera nell'impresa dell'altro convivente, una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare. Il casus belli da cui ha tratto origine la rimessione della questione al vaglio della Consulta riguardava, in particolare, la pretesa avanzata da una convivente stabile di un defunto imprenditore agricolo, la quale si era rivolta al Giudice del lavoro per richiedere l'accertamento del suo diritto alla corretta liquidazione della quota asseritamente spettantele quale partecipante all'impresa familiare, in virtù della costante attività lavorativa dalla stessa prestata presso l'azienda del convivente. In primo grado, il Tribunale aveva respinto la domanda della ricorrente, rilevando come il convivente di fatto non potesse essere considerato «familiare» ai sensi dell'art. 230-bis, terzo comma, c.c. e, di medesimo avviso, erano stata la Corte d'appello, la quale aveva disposto il rigetto del gravame, sull'identico presupposto indicato dal primo estensore, escludendo, altresì, l'applicabilità dell'art. 230-ter c.c., in quanto il rapporto di convivenza era cessato prima dell'entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. Cirinnà, sulla Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che, con l'aggiunta del suddetto articolo, aveva in parte esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare. Non convinta della correttezza delle statuizioni dei giudici di merito, la deducente decideva di sottoporre il caso al vaglio della Suprema Corte, lamentando, per un verso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 230-bis c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, numero 3 del codice di procedura civile, per la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza, sia di legittimità e sia costituzionale, che avrebbero consentito di applicare la disciplina dell'impresa familiare anche in mancanza di una norma che lo preveda espressamente; nonché denunciando, per altro verso, la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter c.c. e dell'art. 11 delle preleggi, dovendosi ammettere una deroga al principio di irretroattività, non presidiato da una norma costituzionale, ove ciò risponda a un criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia. La Corte di cassazione, sezione lavoro, quindi, con propria ordinanza interlocutoria, ha richiesto l'intervento nomofilattico delle Sezioni unite, al fine di chiarire se l'art. 230-bis, comma terzo, c.c. potesse essere evolutivamente interpretato in chiave di esegesi orientata agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost., nonché all'art. 8 CEDU, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto fosse stata caratterizzata da stabilità, in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso. A loro volta le Sezioni unite della Cassazione hanno rimesso la questione al vaglio della Corte Costituzionale, premettendo che la decisione impugnata trovava il suo fondamento nell'inapplicabilità ratione temporis dell'art. 230-ter c.c. e nella impossibilità di un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis c.c. ed osservando come solo all'esito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma dubitata, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, si sarebbe determinata la possibilità di procedere con l'invocato accertamento in punto di fatto, pretermesso dai giudici di merito, circa l'effettività e la continuità dell'apporto lavorativo nell'impresa familiare, determinante ai fini dell'accrescimento della produttività dell'impresa. Secondo gli Ermellini, invero, una lettura estensiva dell'art. 230-bis c.c. e costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti (in termini sia economico-partecipativi che gestionali) previsti per il coniuge determinerebbe una distonia sistemica, in quanto si verrebbe ad accordare ex post al convivente, la cui attività nell'impresa familiare fino al 2016 era esclusa dall'alveo applicativo della disposizione, una tutela per i fatti antecedenti al 2016 addirittura superiore a quella poi prevista dal legislatore con la legge n. 76/2016. Così esclusa la percorribilità di tale opzione interpretativa, l'unica via restava quella della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, primo e terzo comma, c.c., nella parte in cui non include il convivente more uxorio nel novero dei familiari che prestano in modo continuativo attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare. Tale disposizione, invero, si porrebbe in contrasto con una pletora di disposizioni di rilevanza costituzionale e comunitaria, partendo proprio dal dettato dell'art. 2 Cost., perché l'articolazione censurata imporrebbe di considerare in modo differenziato e non unitario un contributo collaborativo che, a prescindere dal legame formale, trova pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti tanto nell'ambito del matrimonio e dell'unione civile da un lato, quanto nella convivenza di fatto dall'altro. Tali modelli familiari, invero, realizzano allo stesso modo i fondamentali bisogni affettivi della persona ed impongono i medesimi obblighi di solidarietà morale e materiale. Inoltre, in violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 230 bis, primo e terzo comma, c.c. realizzerebbe una vera e propria discriminazione tra soggetti che, in modo continuativo, esplicano la medesima attività lavorativa nell'impresa familiare, così determinando una disparità di trattamento fondata sulla sola condizione personale insita nella condizione di coniugio. Ed invero, a fronte di un apporto equivalente nell'attività dell'impresa, la differente attribuzione di diritti si tradurrebbe in un inammissibile ostacolo di ordine economico all'uguaglianza dei cittadini. Al contempo, la disposizione de qua risulterebbe in contrasto anche ni riferimento al combinato disposto degli artt. 4, 35 e 36 Cost., in termini di lesione dei diritti di libertà, dignità del lavoro e della persona, nonché di adeguatezza della retribuzione, in considerazione della privazione di tutela per le prestazioni lavorative rese dal convivente more uxorio, le quali, in mancanza di applicabilità delle tutele previste per l'impresa familiare, correrebbero il rischio di venire attratte presuntivamente nell'alveo della gratuità propria dello spirito solidaristico sotteso al rapporto affettivo, con conseguente diminutio della tutela del lavoro propria del nostro ordinamento. Ma non solo. Rileverebbe anche la violazione dell'art. 9 CDFUE, in termini di equiparazione di meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti attraverso la legittima scelta di convivenza senza matrimonio, in considerazione della raggiunta pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione; così come il possibile contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost, in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, nel senso non limitativo della nozione di “famiglia” alle sole relazioni basate sul matrimonio, in luogo della necessità estensiva anche ad altri legami “familiari” di fatto e dell'obbligazione positiva sottesa alla promozione di tali diritti umani. Infine, le Sezioni unite hanno prospettato l'illegittimità costituzionale derivata dell'art. 230-ter c.c. che, riconoscendo al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell'impresa dell'altro convivente il mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi, applicherebbe allo stesso una tutela patrimoniale inferiore rispetto a quella riconosciuta al familiare dall'art. 230-bis c.c., privandolo di ogni compenso per l'attività lavorativa prestata in caso di mancata produzione di utili. La questione L'evoluzione sociale e giuridica della tutela delle convivenze more uxorio La questione sottesa alla pronuncia in esame involge la tematica della inclusione dei conviventi di fatto tra i familiari che collaborano nell'impresa familiare e del conseguente giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 230-bis, commi primo e terzo, e, «in via derivata», 230-ter del codice civile, siccome disponente una tutela significativamente ridotta per i conviventi di fatto rispetto agli altri familiari che collaborano nell'impresa, realizzando così una disparità di trattamento non più giustificabile alla luce delle evoluzioni sociali e giuridiche in materia di convivenza more uxorio. La soluzione giuridica L'adeguamento dell'ordinamento interno in tema di protezione del lavoro e dei diritti del convivente di fatto La Corte Costituzionale, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dal preventivo richiamo alla genesi dell'istituto dell'impresa familiare disciplinata dall'art. 230-bis c.c., quale strumento di superamento della comunione tacita familiare prevista per il settore agricolo dall'art. 2140 c.c. previgente, introdotto nell'ordinamento con la finalità di conferire una tutela minima a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono nell'ambito di aggregati familiari che non possono contare su più specifiche discipline di protezione sia in ambito lavorativo che societario. Alla data relativa ai fatti di causa, in particolare, l'unica disposizione vigente era riferibile al censurato art. 230-bis c.c. e non già l'art. 230-ter c.c., che, pur concernendo proprio la partecipazione del convivente di fatto all'impresa familiare, non era applicabile ratione temporis, essendo stato introdotto solo successivamente dalla legge n. 76/2016. Ebbene, con la previsione dell'art. 230-ter c.c., il legislatore non ha inteso limitare la disciplina preesistente di cui all'art. 230-bis c.c., così escludendo il convivente di fatto da alcuni diritti (quale il diritto al mantenimento) spettanti ai partecipanti all'impresa familiare, ma, al contrario, ha voluto introdurre nell'ordinamento una tutela nuova per il caso di impresa familiare alla quale partecipi un convivente di fatto. La convivenza more uxorio costituisce, oggigiorno, un rapporto di uso diffuso e comunemente accettato, che si pone perfettamente accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Eppure, questa evoluzione della coscienza sociale non comporta ex se l'annullamento dei “tratti somatici” e differenziali delle due figure, posto che la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi ed il cui addentellato normativo lo si rinviene nella tutela diretta sancita dall'art. 29 Cost. Ma vi sono, poi, dei casi particolari, in cui le comuni caratteristiche rinvenibili tra la convivenza more uxorio ed il rapporto coniugale rendono necessaria una identità di disciplina, da garantire attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall'art. 3 Cost. In tale contesto, l'adeguamento dell'ordinamento interno al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro Paese in tema di estensione applicativa della disciplina al convivente di fatto di disposizioni che, tradizionalmente, facevano esclusivo riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio, ha trovato conforto e stimolo in numerose pronunce giurisprudenziali a carattere costituzionale e comune, nei principi della CEDU e nell'impulso comunitario, così dando riconoscimento e piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Permangono, quindi, differenze di disciplina, ma, quando si tratta di diritti fondamentali, esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa, proprio come nel caso del diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), che, quando reso nel contesto di un'impresa familiare, richiede uguale protezione. Questa esigenza di approntare una speciale garanzia del lavoro è stata realizzata dall'art. 230-bis c.c., secondo la scelta del legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975, con un ampio raggio di applicazione perché abbraccia non solo il coniuge e gli stretti congiunti dell'imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado secondo l'elencazione contenuta nel terzo comma della disposizione; elencazione alla quale deve ritenersi che si siano aggiunti, nel 2016, i soggetti legati da unioni civili. Ma la protezione del lavoro del convivente di fatto doveva essere la stessa di quella del coniuge e non poteva essere inferiore a quella riconosciuta finanche all'affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell'impresa familiare. Alla luce delle sollevate questioni di illegittimità costituzionale, va, pertanto, dato atto della violazione della disciplina de qua in relazione al diritto fondamentale al lavoro (di cui agli artt. 4 e 35 Cost.) ed alla giusta retribuzione (di cui all'art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Risulta, altresì violato anche l'art. 3 Cost., ma non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, quanto piuttosto per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro, che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare Resta, pertanto, assorbito l'esame degli ulteriori parametri evocati (art. 9 CDFUE e art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU), in quanto la reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va operata inserendo il convivente di fatto dell'imprenditore nell'elenco dei soggetti legittimati a partecipare all'impresa familiare di cui al terzo comma dell'art. 230-bis c.c., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto». Ma non solo. Ai conviventi di fatto vanno riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore, per cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, anche all'art. 230-ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art. 230-bis c.c. Altrimenti, l'ampliamento della tutela apprestata dallart. 230-bis c.c. al convivente di fatto per effetto della ritenuta pronuncia di illegittimità costituzionale comporterebbe, quale conseguenza, che la previsione dell'art. 230-ter c.c. avrebbe oggi il significato non più di apprestare per quest'ultimo una garanzia prima non prevista, come nell'intendimento del legislatore del 2016, bensì quella di restringere ingiustificatamente e in modo discriminatorio la più ampia tutela qui riconosciuta, così realizzando non solo una violazione del dettato e dei principi di cui all'art. 3, primo comma, Cost., anche un abbassamento di protezione violativo del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), oltre che il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.) Pertanto, va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 230, terzo comma, del codice civile, dichiara -bis nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»; nonché, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter c.c. Osservazioni Lo sviluppo di una concezione pluralistica della famiglia e l'esigenza di estensione protettiva alle convivenze di fatto della disciplina sull'impresa familiare L'intervento della Corte Costituzionale ci consente di avanzare alcune considerazioni di sintesi sul tema delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio e della conseguente necessità di favorire l'applicazione estensiva al convivente di fatto della stessa tutela del coniuge/familiare, neutralizzando così una disparità di trattamento non più giustificabile alla luce delle evoluzioni sociali e giuridiche della materia. Nel nostro ordinamento e con riferimento al quadro normativo di derivazione dell'attuale disciplina in commento, è possibile sostenere come, essenzialmente, siano state due le fondamentali riforme che hanno caratterizzato l'evoluzione della rilevanza dei legami familiari nella società civile: ovvero la riforma del diritto di famiglia (introdotta con la legge 19 maggio 1975, n. 151) e la disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto (introdotta con la legge 20 maggio 2016, n. 76, c.d. Cirinnà, sulla Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze). Ed invero, prima della riforma del 1975, la partecipazione all'attività produttiva della famiglia, anche se svolta con carattere di prevalenza e di continuità, veniva considerata alla stregua di una prestazione lavorativa resa per mero affetto e dovere morale, con conseguente presunzione iuris tantum della relativa gratuità in virtù dei vincoli familiari. Veniva, pertanto, comunemente escluso che le prestazioni rese in ambito familiare potessero generare pretese e obblighi, giuridicamente vincolanti, azionabili nei confronti del familiare imprenditore, con l'eccezione del solo comparto agricolo, siccome destinatario di un regime a sé stante, derivato dagli usi e dalla previsione codicistica dall'art. 2140 c.c. non più vigente. Ben presto, tuttavia, si iniziò ad avvertire l'esigenza di previsione di specifiche tutele poste a salvaguardia di estesi fenomeni di effettivo sfruttamento del lavoro familiare, in quanto non certamente frutto di una libera scelta e favorito dalla costrizione imposta ai singoli componenti della famiglia, in virtù della predominanza di una concezione patriarcale propria degli anni addietro. E così, con la legge n. 151/1975 il legislatore ha introdotto, nell'autonoma Sezione VI, del Capo VI, del titolo VI del Libro primo del Codice civile, l'art. 230-bis, rubricato «Impresa familiare», che per la prima volta ha riconosciuto una tutela specifica a tutti coloro che, legati da vincoli di parentela o di coniugio, partecipano al processo produttivo dell'impresa gestita dal capofamiglia. Il previsto superamento della presunzione di gratuità ad opera dell'art. 230-bis c.c. ha, quindi, consentito di approdare ad un riconoscimento minimo di tutela per i rapporti di lavoro svolti nell'ambito di aggregati familiari, in applicazione del combinato disposto di una serie di preminenti principi costituzionali, da ricondurre non solo al disposto dell'art. 29 Cost, ma anche ai valori di solidarietà e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., in uno alle previsioni degli artt. 35 e 36 Cost, posti a presidio del lavoro libero e dignitoso. Ecco che, dunque, grazie alla novella di cui all'art. 230-bis c.c., il familiare che presta la propria attività di lavoro, in modo continuativo nella famiglia o nell'impresa familiare, a favore di un imprenditore a lui legato (da vincolo di coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo), gode di una complessiva posizione partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori. Nel tempo, tuttavia, lo sviluppo di una concezione pluralistica della famiglia in ambito non solo sociale ma anche giuridico, ha favorito l'ascesa di una esigenza di estensione protettiva alle convivenze di fatto, che ha portato all'adozione, nel contesto nostrano, della legge 20 maggio 2016, n. 76, c.d. Cirinnà, sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze. Ed è subito da sottolineare come, per il legislatore del 2016, la distinzione tra unione civile e convivenza di fatto rileva anche con specifico riferimento all'istituto dell'impresa familiare, grazie alla previsione scandita con l'art. 1, comma 46, che ha introdotto l'art. 230-ter c.c., secondo il quale il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. In luogo dell'inclusione del novero dei soggetti ammessi a godere del regime dell'impresa familiare, dunque, l'opzione legislativa prescelta è stata concentrata sull'introduzione di una autonoma e specifica regolamentazione dei diritti del convivente -lavoratore, ancorata, tuttavia, ad una tutela più ristretta rispetto a quella prevista per i familiari dall'art. 230-bis c.c. Ed invero, appare evidente come l'espressa circoscrizione del diritto del convivente alla partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, comporta la mancata ricomprensione di tutte quelle prerogative di tutela proprie della famiglia strictu senso intesa, non spettando a questi, ad esempio, il diritto al mantenimento, così come la previsione di un diritto di prelazione per il caso di divisione ereditaria o cessione dell'impresa familiare, ovvero ancora un diritto partecipativo, con la conseguenza che il convivente, pur collaborando unitamente ad altri familiari dell'imprenditore, deve attenersi alle decisioni gestionali e sugli indirizzi produttivi adottate dagli altri componenti, anche in ordine alla eventuale partecipazione agli utili a cui avrebbe diritto. Dunque, così come prontamente osservato dalle Sezioni unite, nell'attuale disciplina, mentre ognuna delle parti dell'unione civile rientra nell'elenco dei familiari di cui all'art. 230-bis, terzo comma, c.c., per il convivente stabile, ai sensi dell'art. 230-ter c.c., opera una tutela minore rispetto a quella del familiare. Nonostante appaia, invero, indubbio come la disposizione introdotta nel 2016 sia significativa di una estensione delle tutele in favore del convivente di fatto, le previsioni normative di cui agli artt. 230-bis e 230-ter c.c. non risultano perfettamente coincidenti, in quanto il secondo attribuisce al convivente una serie di diritti inferiore a quella riconosciuta al coniuge. Se, infatti, si considera che l'art. 230-bis è preordinato alla protezione del bene “lavoro” in ogni sua forma, questo bene non può mutare a seconda del soggetto che lo svolge. La stessa dottrina aveva a lungo caldeggiato la possibilità di applicare estensivamente l'art. 230-bis c.c. al convivente more uxorio, evidenziando come l'impresa familiare rappresenti una forma generale di tutela del lavoro che viene prestato in virtù di quello speciale spirito di solidarietà che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi e come, pertanto, anche il convivente stabile abbia titolo per partecipare all'impresa familiare, in quanto la sua collaborazione lavorativa gratuita nell'ambito di uno stabile rapporto affettivo di coppia trova la propria causa nella stessa motivazione di solidarietà familiare. Del resto, la meritevolezza di tutela delle convivenze di fatto rappresenterebbe un portato immediatamente ascrivibile alla semplice lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 35 e 36), unionali (art. 9 CDFUE) e convenzionali (art. 8 CEDU), in quanto la rilevanza degli interessi perseguiti attraverso la scelta di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari. Sebbene il matrimonio e l'unione civile, appartengono a modelli cosiddetti «istituzionali», mentre la convivenza di fatto è un modello «familiare non a struttura istituzionale», in entrambi i casi si è, invero, in presenza di modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, in quanto la convivenza more uxorio è in concreto capace di corrispondere alle medesime esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona allo stesso modo del rapporto coniugale. Se, infatti, la ratio della tutela enucleata dall'art. 230-bis c.c. la si riconduce alla volontà di tutela della prestazione continuativa resa del familiare, quale partecipazione ad un progetto lavorativo comune al gruppo, ogni obiezione circa la sostanziale differenza tra posizioni di famiglia legittima e famiglia di fatto perderebbe di forza persuasiva, in presenza di valori costituzionali di riferimento quali la dignità, la libertà e l'uguaglianza. Si tratterrebbe, allora, di riconoscere un particolare diritto al convivente all'interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale, avendo una funzione residuale e suppletiva, diretta ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari e che, in passato, vedevano alcuni membri della comunità familiare esplicare una preziosa attività lavorativa, in forme molteplici, senza alcuna garanzia economica e giuridica. L'addentellato costituzionale del valore della famiglia di fatto, del resto, va individuato nell'art. 2 Cost., quale formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell'individuo, senza considerare come l'irragionevole esclusione legislativa di ogni tutela, anche minima, nei confronti del convivente di fatto rilevi anche sotto i richiamati principi costituzionali evidenziati dalla Corte. Non vi è chi no veda, infatti, il postulato contrasto con le previsioni dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, atteso che si determina una discriminazione tra soggetti che esplicano la medesima attività in modo continuativo nell'impresa familiare, fondata sulla sola condizione personale (la qualità di coniuge) a fronte di una sostanziale equivalenza nell'attività dell'impresa, finendo per porre un ostacolo di ordine economico all'uguaglianza dei cittadini. Così come è rilevabile un contrasto con l'art. 4 Cost., per la violazione dello stretto legame tra il lavoro (che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego) ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona, rilevando a pieno, in tal senso, anche le disposizioni degli artt. 35, primo comma, e 36, primo comma, Cost., quali baluardi a garanzia del lavoro e della retribuzione, considerato che le prestazioni lavorative rese nell'ambito di un rapporto di convivenza more uxorio, mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale, sarebbero destinate a rimanere prive di tutela. Ecco perché, allora, rilevata la possibile distonia sistemica conseguente ad una inammissibile interpretazione estensiva del disposto dell'art. 230-bis c.c. e costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge, in uno all'impossibilità di applicazione retroattiva della tutela di cui all'art. 230-ter c.c. introdotta nel 2016, l'unica opzione residuale non avrebbe potuto che essere l'invocata declaratoria di illegittimità costituzionale della normativa in menzione, per violazione degli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché per violazione dell'art. 9 CDFUE e dell'art. 117, primo comma, Cost., novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU. |