Citazione dinanzi al giudice di pace dopo la riforma Cartabia: domanda inammissibile o mutamento del rito?

Cesare Taraschi
29 Agosto 2024

Il nuovo art. 316 c.p.c. prevede che la domanda innanzi al giudice di pace si proponga con ricorso e non più con citazione. Quali sono le conseguenze dell'erronea introduzione della causa con citazione, pur a seguito della recente riforma processuale? Precisamente, la domanda è inammissibile/improponibile oppure il giudice è tenuto a procedere al mutamento del rito?

Massima

In relazione ai procedimenti dinanzi al giudice di pace, instaurati successivamente all'entrata in vigore della modifica apportata dal d.lgs. n. 149/2022 all'art. 316 c.p.c. (in data 28 febbraio 2023), è inammissibile, per mancanza della condizione della “grave difficoltà interpretativa”, la questione, rimessa con ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c., inerente alla possibilità di procedere al mutamento del rito qualora il giudizio venga introdotto con atto di citazione a comparire ad udienza fissa, anziché con ricorso secondo le forme del procedimento semplificato di cognizione di cui agli artt. 281-decies e succ. c.p.c.

Il caso

Nel corso di un giudizio di risarcimento del danno a seguito di sinistro stradale, promosso con atto di citazione dinanzi al giudice di pace di Barra, l'attore chiedeva, alla prima udienza, disporsi il mutamento del rito da citazione a ricorso, in quanto la domanda, ancorché promossa con citazione, aveva prodotto i suoi effetti, mentre la compagnia assicurativa convenuta si opponeva al mutamento del rito, eccependo l'improponibilità della domanda in quanto introdotta con atto di citazione, in aperto contrasto con il novellato art. 316 c.p.c.

Il giudice di pace adito, allora, disponeva con ordinanza il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione ex art. 363-bis c.p.c. per la risoluzione della questione di diritto avente ad oggetto il seguente quesito: «se possa procedersi - nei giudizi ordinari davanti al Giudice di Pace ove è previsto, a seguito della riformulazione dell'art. 316 c.p.c. (entrata in vigore il 28 febbraio 2023) che l'atto introduttivo assuma le forme del procedimento semplificato di cognizione di cui agli artt. 281-decies, 281-undecies, 281-duodecies e 281-terdecies c.p.c., e quindi del ricorso - al mutamento del rito qualora il giudizio venga introdotto con atto di citazione a comparire ad udienza fissa, ovvero secondo un rito non più esistente perché abrogato».

La questione

L'art. 316 c.p.c., a seguito della modifica di cui alla riforma Cartabia, prevede, in relazione ai procedimenti instaurati successivamente al 28 febbraio 2023, che davanti al giudice di pace la domanda si proponga non più mediante citazione a comparire ad udienza fissa (come secondo la previgente formulazione normativa), bensì «nelle forme del procedimento semplificato di cognizione, in quanto compatibili», e dunque con ricorso, che va notificato dal ricorrente unitamente al decreto di comparizione delle parti emesso dal giudice ex art. 318 c.p.c.

Quali sono le conseguenze dell'erronea introduzione della causa con citazione, pur a seguito della recente riforma processuale? Precisamente, la domanda è inammissibile/improponibile, oppure il giudice è tenuto a procedere al mutamento del rito?

Le soluzioni giuridiche

Nel motivare l'ordinanza di rinvio pregiudiziale, il giudice rimettente ha osservato che non vi sarebbero pronunce di legittimità sulla facoltà concessa alla parte di mutare il rito dalla stessa introdotto ove questo «non sia più esistente» e, quindi, «non costituisca più uno strumento processuale a disposizione della parte», come accaduto a seguito della riforma attuata dal d.lgs. n. 149/2022, in forza della quale, dinanzi al giudice di pace, sussiste «un solo (e unico) “rito ordinario” che va introdotto nelle forme del procedimento semplificato di cognizione».

La giurisprudenza di legittimità, invero, in più di un'occasione ha ritenuto possibile, e anzi doveroso, «da parte del giudice di disporre il mutamento del rito, da quello erroneamente adottato dalla parte a quello corretto, anche in ossequio del giusto processo di cui all'art. 111 Cost.» (in materia di opposizione a decreto ingiuntivo per credito relativo a rapporti di locazione urbana ex art. 447-bis c.p.c.: Cass. civ., sez. VI, 29 dicembre 2016, n. 27343, Cass. civ., sez. VI, 19 settembre 2017, n. 21671, Cass. civ., sez. un., 13 gennaio 2022, n. 927; nei giudizi di impugnazione: Cass. civ., sez. un., 8 ottobre 2013, n. 22848, Cass. civ., sez. un., 10 febbraio 2014, n. 2907; nei giudizi in tema di recupero di prestazioni professionali ai sensi dell'art. 14 d.lgs. n. 150/2011: Cass. civ., sez. VI, 21 febbraio 2022, n. 5659; nei procedimenti semplificati ex d.lgs. n. 150/2011: Cass. civ., sez. un., 12 gennaio 2022, n. 758).

Tuttavia, secondo il giudice rimettente, si tratterebbe di decisioni rese «nel quadro normativo previgente all'entrata in vigore della riforma» del 2022, dove, innanzi al giudice di pace, era previsto un “rito ordinario”, da introdursi con citazione, «diverso e distinto da quelli “speciali” (ad es., in tema di opposizione a sanzione amministrativa ex artt. 6 e 7 d.lgs. n. 150/2011, da proporsi con ricorso secondo le regole proprie del rito del lavoro)».

Di qui, pertanto, il “carattere di novità” della questione, che – ad avviso del rimettente – presenterebbe «gravi difficoltà interpretative», come sarebbe dimostrato dall'emersione di ben tre soluzioni ermeneutiche «completamente diverse tra loro».

In particolare, una prima soluzione, ricavabile dal generale principio di conservazione degli atti processuali, sarebbe quella di riconoscere nell'atto introduttivo prescelto i presupposti sostanziali idonei per proseguire il giudizio nelle mutate forme del ricorso ex art. 316 c.p.c. novellato, utilizzando in chiave analogica l'art. 4, commi 1 e 3, d.lgs. n. 150/2011, e quindi assegnando a parte attrice un termine perentorio per procedere all'eventuale integrazione degli atti e alla notifica alle parti nel rispetto dei termini fissati dal novellato art. 281-undecies c.p.c.; quanto al regime delle decadenze e preclusioni, esse dovrebbero maturare in relazione al rito erroneamente adottato, in applicazione degli artt. 163 e 163-bis c.p.c., in forza del richiamo di cui all'art. 311 c.p.c.

In base ad una seconda soluzione interpretativa, ispirata al principio di tipicità e non fungibilità delle forme degli atti - rispetto al quale il principio di libertà delle forme ex art. 121 c.p.c. trova il limite per i soli atti in relazione ai quali la legge non richiede forme determinate -, l'errata scelta del modello processuale introduttivo imporrebbe la declaratoria di inammissibilità della domanda introdotta con citazione, attesa l'inesistenza, per intervenuta abrogazione, di un rito alternativo, con conseguente inoperatività, proprio per siffatta ragione, dei principi di diritto enunciati dalla citata sentenza n. 927 del 2022 delle Sezioni Unite civili riguardante i procedimenti semplificati disciplinati dal d.lgs. n. 150/2011.

Infine, una terza opzione ermeneutica, fondata sul «principio finalistico dell'atto introducente il giudizio nelle forme del rito erroneamente adottato», considera possibile disporre il mutamento del rito solo se l'atto introduttivo adottato, ma non più esistente, abbia comunque raggiunto il suo scopo mediante la “notificazione perfetta” di un atto contenente tutti gli elementi relativi all'editio actionis, diversamente dovendosi dichiarare il procedimento inammissibile anche alla luce dell'art. 156, comma 2 c.p.c.

Inoltre, sempre secondo il giudice rimettente, la questione presenterebbe il «carattere della serialità», in quanto «puramente processuale» e, dunque, «ex se suscettibile di (ri)verificarsi in tutti i giudizi proponibili innanzi al Giudice di pace …, non solo in tema di circolazione stradale ma in tutti quelli ratione materiae atque valoris attribuiti a quest'ultimo dall'art. 7 c.p.c. e dalle leggi speciali».

Tuttavia, con il provvedimento in commento, emesso dalla Prima Presidente della Suprema Corte, la questione rimessa dal giudice di pace è stata dichiarata inammissibile, in quanto, nella specie, difetterebbe una delle condizioni di cui al comma 1 dell'art. 363-bis c.p.c., ossia la grave difficoltà interpretativa in relazione alla questione concernente la possibilità, o meno, dopo l'entrata in vigore della riforma Cartabia, di operare il mutamento del rito nei giudizi innanzi al giudice di pace introdotti con citazione a comparire ad udienza fissa e non secondo le forme del procedimento semplificato di cognizione, anche se il rito adottato non sia più esistente in quanto abrogato.

Invero, ribadito che l'art. 363-bis c.p.c. impegna il giudice del merito ad illustrare le diverse opzioni interpretative in gioco, quale test della serietà del dubbio ermeneutico, che deve assurgere a un livello idoneo ad impedire un arretramento del potere-dovere decisorio del giudice, occorre chiarire che tale obbligo motivazionale è volto ad evitare che il giudice operi rinvii puramente esplorativi o ipotetici, richiamandolo ad un approfondito esame di tutte le alternative interpretative che possono porsi, con la rilevante precisazione che la grave difficoltà interpretativa – richiesta dal comma 1 dell'art. 363-bis c.p.c. tra le condizioni di ammissibilità del rinvio pregiudiziale - non può derivare dalla sola scelta tra soluzioni ermeneutiche contrapposte, in quanto, altrimenti, si farebbe un uso improprio del rinvio pregiudiziale, che, sottraendo al giudice di merito il compito di interpretare la legge, finirebbe per diventare uno strumento «rivolto unicamente a conseguire un avallo interpretativo dalla Corte di cassazione diretto a preservare la decisione del rimettente da una diversa lettura ed applicazione delle norme ad opera del giudice dell'impugnazione».

Nel caso di specie, il giudice a quo ha mostrato chiaramente di avere contezza di quale fosse la giurisprudenza della Suprema Corte nei casi di rito erroneamente adottato dalla parte, tanto da aver enucleato le soluzioni ermeneutiche praticabili, nell'ambito delle quali ben avrebbe potuto, il medesimo giudice, maturare il proprio convincimento.

E ciò tanto più se si considera che il quadro giurisprudenziale già delineato dal giudice rimettente può essere integrato con ulteriori precedenti - che evidentemente agevolano l'individuazione della soluzione da dare alla questione in esame - con cui è stato, in linea generale, affermato il principio secondo il quale «l'erronea applicazione delle regole procedurali non può pregiudicare o aggravare in modo non proporzionato l'accertamento del diritto, sicché dall'adozione di un rito errato non deriva alcuna nullità, né la stessa può essere dedotta quale motivo di gravame, a meno che l'errore non abbia inciso sul contraddittorio o sull'esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte» (Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2021, n. 12567, in relazione all'abrogato rito societario; in precedenza, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 17 ottobre 2014, n. 22075; Cass. civ., sez. III, 27 gennaio 2015, n. 1448; Cass. civ., sez. lav., 5 aprile 2018, n. 8422).

Alla luce di tali considerazioni, il rinvio pregiudiziale è stato dichiarato inammissibile.

Osservazioni

La declaratoria di inammissibilità della questione sollevata dal giudice di pace di Barra appare pienamente condivisibile.

È ormai consolidata la giurisprudenza di legittimità – il che esclude che la questione presenti “gravi difficoltà interpretative” ex art. 363-bis, comma 1, n. 2), c.p.c. – nel ritenere che l'adozione di un rito errato, ossia diverso da quello previsto ex lege, non comporti l'invalidità della domanda giudiziale, ma obblighi il giudice a procedere al mutamento del rito.

Proprio di recente si è, infatti, ribadito il principio generale richiamato anche nel decreto della Prima Presidente della Suprema Corte, ossia che «l'errata applicazione del rito non è causa di nullità o motivo di impugnazione, qualora sia rispettato il contradditorio e sia consentita la possibilità difensiva» (cfr. Cass. civ., sez. II, 11 aprile 2023, n. 9628, oltre a quella già richiamata nel decreto in commento).

Da ciò discende che non può, in via interpretativa, avallarsi la soluzione della inammissibilità della domanda che sia stata introdotta dinanzi al giudice di pace con citazione anziché con ricorso, pur a seguito della riforma Cartabia ex d.lgs. n. 149/2022 – che, com'è noto, ha previsto che il rito “ordinario” da seguire, dinanzi al predetto giudice, sia quello semplificato di cognizione, nei limiti della compatibilità – in quanto la declaratoria di inammissibilità, a ben vedere, non è prevista da alcuna norma e non risulta conforme ai principi generali processuali, posto che il nostro ordinamento - in ossequio alle esigenze di economia processuale e conservazione degli atti processuali, a loro volta espressione dei principi costituzionali del “giusto processo” e della “ragionevole durata del processo” ex art. 111 Cost. - tende a salvaguardare l'attività processuale già svolta e ad evitare pronunce in rito che favorirebbero la proliferazione dei giudizi (in ragione della riproposizione, ove possibile, delle domande giudiziali dichiarate inammissibili) ed allontanerebbero le parti dal raggiungimento di una statuizione di merito sull'insorta controversia.

E non si dubita in giurisprudenza che il mutamento del rito abbia proprio la finalità di consentire la conservazione degli atti già compiuti, salvaguardando il diritto delle parti di difendersi e l'esigenza che il processo giunga ad una decisione sul merito (in tal senso, Cass. civ, sez. VI, 27 giugno 2013, n. 16202, secondo cui, peraltro, il mutamento del rito presuppone l'esistenza di due procedimenti a cognizione piena, tra i quali soltanto è possibile un fenomeno di conversione dell'uno nell'altro).

Il rito, in effetti, non è requisito di validità della domanda giudiziale, sicché l'errore in ordine allo stesso non può determinare la conclusione del processo con un provvedimento di rigetto per motivi di mera forma, ma obbliga il giudice adito ad adottare, d'ufficio, un provvedimento ordinatorio di mutamento del rito, che consenta al processo di pervenire ad una decisione di merito secondo il rito prescritto dalla legge. Ad essere inammissibile, in sé per sé, non è la domanda, ma il rito con il quale la stessa è veicolata nel processo, sicché dall'errore commesso dalla parte in ordine alla scelta del rito non può derivare un vizio che infici la validità della domanda medesima.

E che il mutamento del rito sia principio generale dell'ordinamento è desumibile dal fatto che lo stesso viene applicato dalla giurisprudenza anche al di fuori di espresse previsioni normative, come, ad es., nel caso in cui, avverso la cartella esattoriale, sia stato erroneamente proposto il giudizio di opposizione con le modalità del procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione anziché con il rito dell'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. (in tale ipotesi, l'errore nella scelta del rito non costituisce di per sé motivo di inammissibilità della domanda né di invalidità assoluta del giudizio, essendo il giudice tenuto, anche d'ufficio, a disporre la conversione del rito e a fissare un termine per l'eventuale integrazione dell'atto introduttivo: cfr. Cass. civ., sez. VI, 20 gennaio 2014, n. 1089; Cass. civ., sez. VI, 27 giugno 2012, n. 10746), nonché nel caso di opposizione all'ingiunzione di pagamento degli onorari di avvocato, nel regime normativo anteriore al d.lgs. n. 150/2011 (cfr. Cass. civ., sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3637, secondo cui, in mancanza dei presupposti per il ricorso al procedimento speciale di cui agli artt. 28 e 29 l. n. 794/1942, non può dichiararsi l'inammissibilità del ricorso in opposizione, ma il procedimento prosegue trasformandosi in un ordinario giudizio di cognizione).

Anche più recentemente, la giurisprudenza di legittimità, in relazione alle domande introdotte con il rito sommario di cognizione (abrogato dal d.lgs. n. 149/2022), ha sostenuto che, qualora il giudice le ritenga inammissibili in ragione di una rilevata “incompatibilità strutturale del rito sommario con l'oggetto della domanda”, va disposto il mutamento del rito ai sensi dell'art. 702-ter, comma 3 c.p.c. e non dichiarata l'inammissibilità della domanda ai sensi dell'art. 702-ter, comma 2 c.p.c. (Cass. civ., sez. III, 9 luglio 2019, n. 18331; nonché Cass. civ., sez. II, 3 ottobre 2022, n. 28579, in relazione all'opposizione a decreto ingiuntivo introdotta con il rito sommario).

D'altra parte, anche nelle recenti pronunce della Consulta, si è assistito ad una rilettura di alcune norme processuali nel senso di favorirne un'interpretazione che consentisse l'ampliamento dei limiti del meccanismo del mutamento del rito. In particolare, con la sentenza Corte Cost., 27 novembre 2020, n. 253, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell''art. 702-ter, comma 2, ultimo periodo, c.p.c. nella parte in cui non prevede che, qualora con la domanda riconvenzionale sia proposta una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e la stessa rientri tra quelle in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice adito possa disporre il mutamento del rito fissando l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c.

Nel contesto, allora, di un siffatto quadro giurisprudenziale, la risposta alla questione sollevata dal giudice di pace di Barra, a dispetto dei dubbi interpretativi sollevati dal giudice rimettente, appariva alquanto scontata, dovendo opportunamente propendersi, come sembra desumersi dal contenuto del provvedimento in commento, per la soluzione del mutamento del rito, con il passaggio cioè dal rito erroneamente introdotto con citazione a quello semplificato di cognizione disciplinato ex artt. 281-undecies e ss. c.p.c., applicabile nei limiti della compatibilità con le specifiche disposizioni dettate, per i procedimenti davanti al giudice di pace, dai novellati artt. 316 e ss c.p.c.

Resta fermo che, in caso di omesso mutamento del rito da parte del giudice di pace, la decisione non risulterà ex se viziata e non sarà suscettibile di impugnazione sotto tale profilo, a meno che non abbia inciso sul contraddittorio, sui diritti della difesa o sul regime delle prove, restando comunque a carico della parte soccombente l'onere di indicare, in sede di gravame, lo specifico pregiudizio che sia derivato dalla omessa adozione del rito previsto (ex multis Cass. civ., sez. III, 24 maggio 2023, n.  14374).

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