La responsabilità penale dell’amministratore di fatto nei reati di bancarotta
29 Agosto 2024
Massima La posizione dell’amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici in tema di bancarotta, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell’accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi – rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti – in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale o disciplinare. Il caso La vicenda giudiziaria sottoposta all’attenzione della Suprema Corte origina dal ricorso presentato dall’imputato avverso una sentenza della Corte di Appello di Genova che ne aveva affermato la responsabilità, in qualità di amministratore di fatto della società nell’ambito della quale erano state effettuate operazioni distrattive, per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Il ricorrente, in particolare, contestava la sussistenza della citata qualifica di amministratore di fatto, ma la suprema Corte riteneva sul punto immune da vizi la sentenza impugnata, dichiarando inammissibile il ricorso. La questione Il tema in causa concerne dunque l’analisi del soggetto attivo dei reati di bancarotta e segnatamente della possibilità che ne rispondano anche coloro che abbiano esercitato, in concreto, i poteri inerenti alle qualifiche soggettive tipiche delle norme che disciplinano detti reati. Le soluzioni giuridiche Nella sentenza qui annotata la Suprema Corte aderisce una volta di più al proprio consolidato orientamento (tra le molte cfr. Cass., 12 maggio 2006, n. 18464 e Cass., 2 maggio 2011, n. 39593) secondo cui la previsione normativa dell'amministratore di società quale soggetto attivo dei reati di bancarotta si estende senz'altro anche alla figura dell'amministratore di fatto, ovvero di colui che per l'appunto abbia svolto in concreto, ed in assenza di formale investitura, le funzioni relative a quella carica. Nel caso al vaglio si è detto come il ricorrente contestasse di avere rivestito la qualità di amministratore di fatto, ma la Cassazione, al contrario, riteneva sorretta da congrua e logica motivazione la sentenza d'appello, richiamando il proprio costante insegnamento alla luce del quale, ai fini dell'attribuzione della qualifica in argomento, è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare. Più in particolare i citati “elementi sintomatici” erano individuati dalla Corte di Appello in una pluralità di indizi rivelatori e segnatamente: 1) dal conferimento all'imputato di una pluralità di procure speciali che “riguardavano l'intero patrimonio della società, per cui equivalevano a permettergli di disporne liberamente”; 2) dalla circostanza che le operazioni distrattive erano consistite nel trasferimento di beni ad una società riconducibile alla moglie senza che a tali atti di disposizione patrimoniale, compiuti dall'imputato tramite regolare procura, facesse seguito il pagamento del prezzo da parte dell'acquirente; 3) dall'ulteriore circostanza che ad acquistare i beni alienati dalla società fallita era stato lo stesso imputato, in tal caso agendo in veste di procuratore della società acquirente; 4) dalla circostanza che il ricavato della successiva vendita a terzi di uno dei beni distratti era stato direttamente accreditato, tramite un bonifico disposto in suo favore dalla moglie, su un conto corrente acceso dall'imputato presso una banca estera; 5) dal fatto che l'imputato non potesse esercitare “uffici direttivi” a seguito di una precedente condanna per bancarotta, per cui era “normale che non risultasse formalmente come titolare”. Tra gli indizi appena citati la suprema Corte riserva, infine, una specifica menzione a quello sub 1), ricordando come la prova della qualifica di amministratore di fatto possa trarsi anche dal conferimento di una procura generale “ad negotia” quando questa, per l'epoca del suo conferimento e per il suo oggetto concernente l'attribuzione di autonomi e ampi poteri, sia sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico o occasionale ovvero sia seguita dall'attivazione dei poteri conferiti con la procura stessa. Nel caso di specie, in effetti, le singole procure conferite all'imputato, globalmente considerate, ben potevano essere valutate alla stregua di una procura generale, perché gli consentivano di operare sull'intero patrimonio della società fallita e di disporne liberamente, come in concreto avvenuto. Osservazioni Le conclusioni appena riassunte cui è giunta la Suprema Corte, invero condivisibili, non danno luogo ad alcuna particolare novità interpretativa in merito a quanto sostenuto, anche se la questione dell'esercizio di fatto delle funzioni proprie delle qualifiche soggettive tipiche previste dalle norme che disciplinano, tra gli altri, i reati di bancarotta, resta di significativo interesse. È noto infatti come i delitti di bancarotta siano reati propri ed invero, per quanto riguarda la bancarotta impropria, soggetti attivi possono essere gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i liquidatori della società dichiarata in liquidazione giudiziale ed ancora, nei limiti della gestione affidatagli, l'institore dell'imprenditore parimenti dichiarato in liquidazione giudiziale (cfr. artt. 329, comma 1, 330 e 333 c.c.i.i.). Quanto all'organo gestorio, i destinatari del precetto penale in realtà si individuano non tanto in base alla (sola) qualifica rivestita, bensì in ragione alle concrete funzioni esercitate, sì che alla figura dell'amministratore di diritto è senz'altro equiparata quella dell'amministratore di fatto, il quale rimane diretto destinatario delle norme incriminatrici per cui risponde del reato proprio non già in qualità di “extraneus”, bensì quale intraneo. I principi in argomento sono espressione di un orientamento oltremodo consolidato nella giurisprudenza di legittimità ed anche dal punto di vista del diritto positivo non mancano le norme che equiparano al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione gestoria colui il quale esercita i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione in modo continuativo e significativo (quanto alle norme più note si ricordano l'art. 2639 c.c. in tema di reati societari, l'art. 299 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ed infine l'art. 5, lett. a), d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in tema di disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche). L'equiparazione in argomento risponde ad una interpretazione di natura funzionale circa l'individuazione dell'organo gestorio, ed in effetti il difetto della qualifica formale di amministratore, quale ne sia la causa, costituisce circostanza inidonea ad escludere che il soggetto che comunque abbia occupato quel ruolo sia e rimanga diretto destinatario della disposizione penale semplicemente perché egli, e non altri (o non soltanto altri), é colui che effettivamente ha amministrato. La tesi contraria, di carattere formalistico perché postula, per l'appunto, l'assunzione formale della qualifica di amministratore in termini civilistici, finisce per essere riduttiva eccettuando la rilevanza penale delle condotte, pure consistite nell'aver svolto le funzioni di imprenditore, poste in essere da chi quella formale qualifica non abbia, anche con l'evidente rischio di offrire a quest'ultimo una facile possibilità di sottrarsi alle conseguenze penali del proprio agire semplicemente avendo cura di non assumere alcuna carica ufficiale nella società. Anche la giurisprudenza civile di legittimità, del resto, accoglie una interpretazione di natura funzionale in merito alla qualifica di amministratore, ammettendo la possibilità di esercitare l'azione di responsabilità per danni verso la società anche nei confronti, per l'appunto, dell'amministratore di fatto (Cass., 8 ottobre 2020, n. 21730). Quanto alla individuazione dei presupposti necessari affinché al soggetto agente possa attribuirsi la qualifica di amministratore di fatto, la sentenza qui annotata ricorda come questi sia tale qualora inserito organicamente in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare; è dunque insufficiente l'esercizio episodico o occasionale di poteri tipici caratterizzanti tali settori, al contrario richiedendosi, come dispone l'art. 2639 c.c., il loro l'esercizio in modo continuativo e significativo. Quali corollari di tali principi, in giurisprudenza si ritiene che: 1) “significatività” e “continuità” non comportano obbligatoriamente l'esercizio di “tutti” i poteri propri dell'organo di gestione, ma è comunque necessario che l'attività svolta, sia pure in specifici settori, sia tale da fornire indici sintomatici dell'organico inserimento del soggetto nell'assetto societario quale titolare di poteri decisionali (Cass., 4 dicembre 2023, n. 2514); 2) l'accertamento degli elementi sintomatici dell'esistenza di una amministrazione di fatto costituisce oggetto di apprezzamento in fatto , insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica (tra le molte, cfr. Cass., 27 giugno 2019, n. 45134); 3) il mancato riconoscimento della qualifica di amministratore di fatto non esclude che, qualora ne ricorrano le condizioni e rimanga immutata la condotta delittuosa contestata, il soggetto agente comunque risponda del reato a titolo di concorso eventuale ai sensi dell'art. 110 c.p. (Cass., 22 dicembre 2014, n. 18770). Al fine di identificare la figura dell'amministratore di fatto la citata rilevanza indiziaria dell'inserimento del soggetto agente in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società ovvero in qualunque settore gestionale dell'attività medesima postula in realtà che quest'ultima sia in corso o comunque che vi sia stata, per cui tali ordini di valutazioni appaiono difficilmente adattabili al caso in cui la società sia stata di fatto inattiva o comunque soltanto formalmente operante. Si tratta delle ipotesi di società “schermo” o comunque “illecite” perché prive di una reale autonomia o struttura e costituite per essere utilizzate fraudolentemente, spesso come strumento per commettere reati fiscali o truffe. Quanto a quest'ultima ipotesi, si pensi al caso in cui la società, priva di qualsivoglia struttura, inizi la propria attività imprenditoriale in un primo momento pagando puntualmente la merce acquistata dai fornitori e quindi, carpitane la fiducia, ometta di provvedere al pagamento di quanto successivamente ordinato, generalmente anche per importi maggiori, e scompaia in quel nulla nel quale nella sostanza si era sempre trovata. In simili ipotesi la Suprema Corte ha statuito che la prova della posizione di amministratore di fatto, non essendo ipotizzabile l'accertamento di elementi sintomatici di un inserimento organico all'interno di un ente solo formalmente operante, può evincersi dal compimento di una o più operazioni distrattive quando queste siano ideate per attuare il predetto disegno fraudolento di dismissione della fallita (Cass. 30 novembre 2022, n. 7824, in Cass. Pen., 2023, 3316 con nota di E. Bozheku: «I criteri per l'individuazione della figura dell'amministratore di fatto nelle società inattive e cenni sulla rilevanza dei beni di provenienza illecita nella prospettiva dei delitti di bancarotta»). Si comprende infatti come l'utilizzo della società quale strumento per commettere reati, nel caso di specie per conseguire l'ingiusto profitto costituito dalla merce ricevuta e non pagata, costituisca parte di una più ampia condotta di ideazione ed organizzazione del sistema fraudolento, sì che deve attribuirsi giusto valore alla posizione del soggetto il quale, per l'appunto, lo abbia ideato ed organizzato ed il cui ruolo dunque si identifica con probabilità prossima alla certezza anche con quello di dominus della società “strumento”. La circostanza che una società sia gestita da persone diverse rispetto all' “amministratore di diritto ” il quale, spesso privo di competenze specifiche nel settore di operatività dell'ente, assume evidentemente la qualità di “prestanome”, comporta anche la necessità di valutare la posizione di quest'ultimo, che «conserva tutti gli obblighi inerenti alla qualifica», rispetto ai reati eventualmente compiuti dall'amministratore di fatto. La valutazione in argomento presenta minori difficoltà allorché emerga “un concorso per azione” da parte del “prestanome”, come nell'ipotesi in cui, quale formale rappresentante legale dell'ente, abbia sottoscritto dei documenti, mentre appare più ardua in caso di mera “inerzia”. Non vi sono dubbi infatti che l'amministratore di diritto resti titolare di un obbligo di garanzia rilevante ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p. nella specifica forma dell' “obbligo di impedimento della commissione del reato altrui”, per cui, allorché sia rimasto inerte, appare necessario valutare se a suo carico sussistano elementi di reità secondo i principi del reato omissivo improprio. Quanto all'incidenza causale dell'inerzia nella commissione del reato da parte di terzi, non si dubita che il prestanome, quale legale rappresentante della società, conservi ogni potere di azione diretta sì da poter impedire, o comunque non consentire oltre, l'azione dei primi. Quanto invece al profilo soggettivo, è necessario valutare se l'inerzia sia stata mantenuta con la consapevolezza di agevolare l'altrui condotta criminosa ovvero accettando il rischio che simili condotte fossero poste in essere ed in ogni caso, trattandosi di fatti interni all'agente, dovendosene ricavare prova, volta per volta, dagli elementi di fatto a disposizione, comunque bandendosi ogni responsabilità di mera “posizione” derivante dalla sola circostanza dell'essersi prestato ad accettare la carica. La responsabilità dell'amministratore di diritto “per fatto proprio colpevole” assume d'altra parte contenuti diversi allorché il reato che non è stato impedito sia punito soltanto a titolo di dolo ovvero anche di colpa; nel primo caso infatti, pur non richiedendosi la prova di un preventivo accordo col prestanome, appare necessario che l'inerzia di questi sia qualificata da una conoscenza dei tratti sufficientemente determinati del reato che ha obbligo di impedire in modo da poter essere apprezzati almeno quali “segnali di allarme”. Il riferimento a questi ultimi (o anche c.d. “red flags”) rinvia alla nota ed omonima teoria secondo cui essi sono costituiti da segnali d'allerta cui, ove “conosciuti” e nel loro complesso, possa attribuirsi, seguendo il procedimento logico delle presunzioni semplici e con accertamento di natura casistica, una capacità rappresentativa degli accadimenti sì da poter eventualmente fondare un giudizio di responsabilità a titolo di “dolo eventuale” allorché il prestanome abbia comunque accettato il rischio del verificarsi di quel reato che aveva obbligo di impedire. In conclusione, non paiono esservi dubbi come, nell'individuazione del soggetto attivo dei reati di bancarotta, debba accogliersi una teoria di carattere sostanzialistico che per l'appunto individui l'amministratore non già in base alla qualifica formale, bensì ai poteri esercitati in concreto e tale interpretazione, invero, è stata seguita dalla Cassazione anche in riferimento alla posizione del direttore generale, in particolare essendosi riconosciuta la figura del direttore generale di fatto (così Cass., 15 ottobre 2020, n. 7437). La giurisprudenza di legittimità, sia civile che penale, giunge invece a conclusioni diverse in merito alla posizione del sindaco di fatto, ritenuta non configurabile. Infatti, nelle occasioni in cui sono giunte all'attenzione della Cassazione condotte poste in essere da sindaci supplenti, che pure avevano partecipato alle riunioni dei collegi sindacali e sottoscritto i relativi verbali ovvero che avevano operato prima della rilevazione di una causa di ineleggibilità prevista dall'art. 2399 c.c., che opera automaticamente, la Corte, a differenza di quanto sostenuto in riferimento all'organo gestorio, ha escluso che nei confronti del sindaco che abbia agito “di fatto” possa esercitarsi l'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 146 l. fall. (Cass., 23 ottobre 2014, n. 22575) ed anche che questi possa ritenersi soggetto attivo del reato di bancarotta (Cass., 20 aprile 2022, n. 19540); soltanto a chi faccia parte pieno iure del collegio sindacale e non anche ai sindaci supplenti, non formalmente subentrati a quelli effettivi e quand'anche abbiano tenuto iniziative estemporanee e autonome di partecipazione all'organo collegiale, possono ritenersi attribuiti i doveri di vigilanza di cui all'art. 2403 c.c. La tesi non soddisfa pienamente, in quanto la rilevanza dell'esercizio di fatto delle funzioni tipiche della qualifica soggettiva prevista dalla legge in caso di reato proprio appare principio di portata generale poiché disciplinato positivamente, tra le altre, dalle norme sopra citate ed affermato ripetutamente dalla suprema Corte in riferimento alle figure dell'amministratore e del direttore generale; resta dunque necessaria un'ulteriore riflessione sulla possibilità di estendere l' “individuazione di carattere funzionale” del soggetto attivo anche al caso di svolgimento di fatto, con carattere di continuità e non occasionalità, delle funzioni attribuite al sindaco, come nelle citate ipotesi in cui il sindaco supplente abbia tenuto iniziative anomale oppure allorché la delibera di nomina sia viziata e “medio tempore” comunque il sindaco abbia agito. |