Whistleblower: legittimo il licenziamento quando si travalica il perimetro della tutela elaborata contro qualsiasi forma di ritorsione
26 Settembre 2024
Massime La tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti altrui (c.d. whistleblowing) salvaguarda il medesimo dalle sanzioni disciplinari o da reazioni ritorsive conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un'esimente per gli autonomi illeciti che egli abbia commesso. La registrazione di conversazioni tra un dipendente pubblico ed i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, può essere legittima se vi è una necessità difensiva e se l'utilizzo della registrazione avviene solo in funzione del perseguimento di tale finalità. L'applicazione delle tutele previste dall'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 nel caso di whistleblowing non autorizza improprie attività investigative o la violazione dei limiti posti dalla legge nella raccolta di informazioni sull'illecito segnalato. Il caso Licenziamento per giusta causa della dirigente per l'utilizzo distorto della segnalazione whistleblowing La sentenza in commento tratta del ricorso introdotto da parte di una dirigente licenziata per aver posto in essere due condotte ritenute irrimediabilmente “diffamatorie”. Una prima, consistita nell'aver inoltrato, a vari destinatari, ed al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza dell'anticorruzione, il modello per la segnalazione di condotte illecite (c.d. whistleblower). Tramite quest'ultimo, la Lavoratrice aveva denunciato la sottrazione, da parte dell'allora Direttore, di fondi pubblici del MIUR. Nello specifico, le veniva contestato l'utilizzo improprio del modello whistleblowing, poiché il responsabile anticorruzione, all'esito dell'istruttoria, non riscontrava alcuna delle anomalie denunciate, e poiché il modello non era stato trasmesso con le modalità previste dal piano triennale di prevenzione. Ed infatti, la Lavoratrice aveva proceduto all'invio della segnalazione senza garantire la segretezza della stessa e dello stesso nominativo della segnalante. La seconda condotta alla base del provvedimento espulsivo che veniva contestata alla Lavoratrice consisteva nell'aver registrato una conversazione intrattenuta con un professore universitario, all'insaputa di quest'ultimo, poi pubblicata sul proprio profilo Facebook in modo travisato e stravolto, così arrecandogli un gravissimo nocumento. A dire della Lavoratrice, la registrazione sarebbe servita a corroborare l'attività illegittima posta in essere dal Direttore, oggetto della segnalazione whistleblowing. In secondo grado, la Corte territoriale escludeva la natura ritorsiva del licenziamento, e concludeva per la sussistenza dei presupposti della giusta causa, alla luce dell'accertata irrimediabile lesione del rapporto fiduciario con la parte datoriale, nonché per aver fatto la Lavoratrice un utilizzo improprio del modello whistleblowing. Avverso tale decisione, la dirigente licenziata proponeva ricorso in Cassazione. La Suprema Corte confermava la legittimità del licenziamento per giusta causa, sulla base di due dirompenti ragioni: in primis, la registrazione, all'insaputa del professore padovano, effettuata dalla Lavoratrice, e poi pubblicata sul proprio profilo Facebook, non appariva finalizzata alla difesa di un diritto in giudizio, non rinvenendosi alcun collegamento funzionale con la denuncia whistleblowing. Dunque, configurava una grave violazione del diritto alla riservatezza, idonea a giustificare il licenziamento intimato. In secundis, sul motivo sollevato dalla Lavoratrice inerentemente al mancato riconoscimento della natura della denuncia come segnalazione whistleblower, i Giudici di legittimità sottolineavano che l'inoltro della disclosure, anche ad organi esterni, e non invece solo ed esclusivamente ai soggetti indicati nell'art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, non impedisce l'applicazione del regime di tutele previsto dalla legge n. 179/2017. Ciò nonostante, rimaneva dirimente la circostanza che i giudici di merito avessero, in punto di fatto, escluso ogni collegamento causale della registrazione e pubblicazione della conversazione, con i fatti oggetto della segnalazione. Veniva altresì colta l'occasione per puntualizzare come dal vaglio della Corte di Cassazione fosse escluso l'accertamento svolto dal Giudice d'Appello circa l'inconsistenza dei fatti oggetto di denuncia e l'assenza di alcun profilo di rilevanza riconducibile alla prevenzione della corruzione, ovvero alla disciplina del whistleblowing. Tuttavia, i Giudici di legittimità ribadivano il principio secondo il quale: “Non si è in presenza di una segnalazione ex art. 54-bis, d.lgs. 165/2001, scriminante, allorquando il segnalante agisca per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori”. Le questioni Il mancato rispetto della procedura di segnalazione interna prevista dall'Ente datore di lavoro Il caso affrontato dalla sentenza in commento si muove nel terreno del pubblico impiego. Alla base del provvedimento espulsivo della dirigente vi era la contestazione per cui, quest'ultima, non avesse rispettato le modalità previste dal piano triennale di prevenzione della corruzione 2018/2020, nell'inoltro della segnalazione, che dunque non poteva farsi rientrare nelle tutele di cui all'art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001. In particolare, la disposizione appena citata, al comma 1 prevedeva che: “Il pubblico dipendente che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all'articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all'autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile”. Si noti come la norma si limiti ad indicare il destinatario della segnalazione, e non anche le modalità di inoltro della medesima. Nella fattispecie affrontata, invece, la Lavoratrice, rinunciando all'anonimato, aveva inoltrato, tramite pec, il modello per la segnalazione di condotte illecite, non all'indirizzo e-mail all'uopo predisposto, ma all'indirizzo personale del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza dell'anticorruzione e non solo, anche ad altri destinatari, ovvero alla direzione dell'Ente, nonché all'indirizzo personale dello stesso Direttore segnalato. La Corte d'Appello, ai fini della decisione, seppure “ad abundantiam”, sembra essersi soffermata sul fatto che la Lavoratrice non avesse seguito la procedura prevista presso l'Ente, per l'applicabilità dell'art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, dando rilevanza alla circostanza per cui la segnalazione fosse stata eseguita senza garantire la segretezza della stessa e dello stesso nominativo della segnalante. Da tale condotta, i Giudici di seconde cure, ne deducevano che l'intento della segnalazione non fosse quello di agire a tutela della p.a. e per il suo interesse, ma quello di portare discredito ai colleghi coinvolti, nei luoghi di lavoro. Dunque, il quesito, ragionevolmente risolto dalla Suprema Corte, era il seguente: quanto il rispetto della procedura può incidere sulla natura della denuncia quale “segnalazione whistleblowing”, dalla quale deriva l'applicazione o meno della relativa tutela di cui 54-bis del d.lgs. n. 165/2001? La pubblicazione sul profilo Facebook della lavoratrice di una registrazione di conversazione fra presenti Nel caso affrontato, alla lavoratrice licenziata era stato rimproverato, fra l'altro, di aver registrato e pubblicato sul proprio profilo Facebook una conversazione intrattenuta con un professore universitario, all'insaputa di quest'ultimo, che a dire della prima sarebbe stata connessa all'oggetto della segnalazione whistleblowing. Allora, rispetto a tale condotta i nodi giuridici che la Suprema Corte doveva sciogliere erano molteplici. In primo luogo, la questione della legittimità della registrazione di conversazioni del lavoratore con colleghi o con soggetti terzi a fini difensivi; in seconda analisi, la legittimità della successiva diffusione di tale registrazione su un social network, in ultimo la valutazione del delicato bilanciamento fra l'interesse dell'opinione pubblica alla divulgazione di informazioni riservate da parte del lavoratore e il danno subito dal datore di lavoro o da terzi ad esso collegati. La rilevanza della fondatezza della denuncia whistleblowing ai fini dell'applicabilità della scriminante di cui all'art. 54-bis del d.lgs . n. 165/2001 Strettamente collegato al bilanciamento fra interesse pubblico alla divulgazione delle informazioni riservate e danno subito dal datore di lavoro o da terzi dalla propalazione è il tema della valutazione della pertinenza e veridicità dei fatti denunciati. Infatti, nel caso affrontato, le circostanze poste alla base della segnalazione whistleblowing, all'esito dell'istruttoria, erano risultate non veritiere: nessuna condotta illecita era stata posta in essere dal Direttore dell'Ente. La domanda che ci si pone è la seguente, il dipendente, prima di indossare l'abito da whistleblower, deve assicurarsi di denunciare condotte illecite concretamente poste in essere? È sufficiente il mero sospetto? E soprattutto, sin dove può spingersi il potenziale whistleblower per accertare la veridicità o meno del suo sospetto, prima di procedere con la denuncia? Le soluzioni giuridiche La procedura di segnalazione interna nelle pubbliche amministrazioni L'54-bis del d.lgs. n. 165/2001, nella formulazione originaria, al suo comma 1 prevedeva che: “1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, (o all'Autorità nazionale anticorruzione - ANAC) ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”. La richiamata littera legis veniva successivamente modificata dalla L. n. 179/2017, che eliminava il riferimento al “superiore gerarchico”. Nella sua nuova formulazione, l'art. 54-bis così appariva: “Il pubblico dipendente che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all'articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all'autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile (…)”. La suddetta disposizione, ad oggi, è stata abrogata dal d.lgs. 10 marzo 2023 n. 24. Quest'ultimo ha introdotto diverse novità per le pubbliche amministrazioni, in particolare nell'ambito dei canali di segnalazione interna e dei termini procedimentali. Più precisamente, all'art. 4, rubricato “Canali di segnalazione interna”, è stato così stabilito: “1. I soggetti del settore pubblico e i soggetti del settore privato, sentite le rappresentanze o le organizzazioni sindacali di cui all'articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015, attivano, ai sensi del presente articolo, propri canali di segnalazione, che garantiscano, anche tramite il ricorso a strumenti di crittografia, la riservatezza dell'identità della persona segnalante, della persona coinvolta e della persona comunque menzionata nella segnalazione, nonché del contenuto della segnalazione e della relativa documentazione. I modelli di organizzazione e di gestione, di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 231 del 2001, prevedono i canali di segnalazione interna di cui al presente decreto. 2. La gestione del canale di segnalazione è affidata a una persona o a un ufficio interno autonomo dedicato e con personale specificamente formato per la gestione del canale di segnalazione, ovvero è affidata a un soggetto esterno, anch'esso autonomo e con personale specificamente formato”. Dagli interventi del Legislatore succedutisi nel tempo, si evince come il dictum legislativo non abbia mai sancito alcuna vincolatività sull'utilizzo del sistema di segnalazione interna adottato dalla pubblica amministrazione. Ne deriva che non sussiste alcun obbligo per il whistleblower di attenersi rigorosamente alle procedure interne di segnalazione. Tale tesi ha trovato corroborazione nelle modifiche apportate dal d.lgs. 24/2023, il quale, all'art. 4, comma 6, indica altresì che: “6. La segnalazione interna presentata ad un soggetto diverso da quello indicato nei commi 2, 4 e 5 è trasmessa, entro sette giorni dal suo ricevimento, al soggetto competente, dando contestuale notizia della trasmissione alla persona segnalante”. Tornando alla fattispecie concreta, l'Ente alle dipendenze del quale lavorava la dirigente whistleblower, aveva così strutturato il canale di segnalazione interna: la dipendente avrebbe dovuto trasmettere la denuncia all'indirizzo e-mail all'uopo deputato. Così però non faceva, ed il modulo veniva inoltrato all'indirizzo e-mail della Direzione di Sezione, all'indirizzo e-mail personale del Responsabile Anticorruzione, ed all'indirizzo e-mail personale del Direttore segnalato. Ora, seppur vero che dalla trasmissione della segnalazione a più indirizzi e-mail poteva sorgere il rischio che il relativo contenuto venisse letto da più soggetti, non coinvolti nella gestione del canale di segnalazione, è pur vero che ciò sfuggiva alla sfera di controllo della segnalante. Infatti, nella sentenza della Corte d'Appello di Roma n. 1568/2023, impugnata in Cassazione, veniva accertato che alla casella della Direzione di Sezione avessero accesso tutti gli addetti alla segreteria. Ma di ciò la Lavoratrice non poteva avere alcuna contezza. D'altronde, nella formulazione originaria, l'art. 54-bis prevedeva che la denuncia whistleblower potesse essere inviata anche al “superiore gerarchico”. Sorgono quindi dei dubbi sul ragionamento adottato dai Giudici di Appello romani, nel voler puntualizzare che fosse fondato l'addebito tramite il quale viene contestato alla Lavoratrice di aver utilizzato impropriamente l'istituto del whistleblowing. Da tale errore si presumeva che lo scopo della Lavoratrice fosse quello di divulgare il contenuto della segnalazione per creare discredito ai soggetti coinvolti. Utilizzando le parole della sentenza: “L'invio delle 245 pagine ad indirizzi che non garantivano alcuna segretezza è stato frutto di una scelta specifica della Q. e da lei affatto giustificata, che ha poi condotto al risultato della diffusione del "dossier" nel luogo di lavoro, tanto che alla fine il P. ne è venuto a conoscenza, ha chiesto l'accesso agli atti e quindi ha proposto querela nei confronti della Q.”. Si rammenta che sulla dipendente non gravava alcun obbligo di utilizzare la procedura di segnalazione designata, né poneva in essere atti idonei a ritenere che la divulgazione della segnalazione fosse intenzionale, considerato che veniva inoltrata alla Direzione (superiore gerarchico) al Responsabile Anticorruzione, ed al medesimo soggetto segnalato, tutti soggetti comunque coinvolti nella procedura whistleblowing. I dubbi si intensificano con la lettura del T.A.R. Lazio Roma, Sez. I-quater, 7 gennaio 2023, n. 236, che si è pronunciato proprio sul tema oggetto di commento, così specificando: “L'applicabilità delle tutele avverso le misure ritorsive, di cui all'art. 54-bis, D.Lgs. n. 165/2001, sul c.d. whistleblowing, non richiede che la segnalazione sia inviata solo ai soggetti espressamente indicati da tale disposizione (ferma la necessità che sia inviata ad almeno uno di questi), né che la segnalazione stessa sia necessariamente caratterizzata da una natura riservata. La segnalazione può, infatti, essere avanzata con ogni mezzo (ovvero anche in maniera non riservata) purché le modalità trasmissione e diffusione della segnalazione siano rispettose dei principi di proporzionalità (in relazione alla gravità dell'illecito segnalato e alla consistenza degli elementi posti a sostegno della segnalazione) e di adeguatezza (in relazione alla finalità di garantire una tutela effettiva degli interessi pubblici che vengono in rilievo nella specifica vicenda). Si deve ammettere in via generale e astratta la possibilità di applicare le tutele di cui all'art. 54-bis, d.lgs. n. 165/2001 anche a segnalazioni non riservate o pubbliche (ovvero inoltrate al di fuori degli appositi canali a ciò preposti) nei casi in cui le modalità e l'ambito di diffusione delle accuse contenute nella segnalazione atipica siano giustificati dalla ricorrenza di uno dei ragionevoli motivi previsti dall'art. 15 della direttiva (UE) 2019/1937 per la ‘divulgazione pubblica' o comunque dalla sussistenza di un adeguato fumus di fondatezza delle stesse”. Tale contesto non è però sfuggito ai Giudici di legittimità, che hanno tentato di emendare la sentenza di seconde cure, in primo luogo rimarcando come la Corte d'Appello si fosse soffermata sulla violazione della procedura da parte della Lavoratrice solo “ad abundantiam”; in secondo luogo, ribadendo il principio per il quale: “L'inoltro della disclosure anche ad organi esterni e non invece solo ed esclusivamente ai soggetti indicati nell'art. 54-bis non impedisce l'applicazione del regime di tutele previsto dalla legge n. 179/2017, rendendola anzi, ancor di più necessaria”. La legittimità/illegittimità della pubblicazione di una registrazione su un social network L'annoso problema della prevalenza della forma sulla sostanza e viceversa, viene replicato nella vicenda in oggetto anche rispetto ad una ulteriore comportamento addebitato alla dipendente. La lavoratrice, infatti, era stata licenziata, fra l'altro, per aver registrato e pubblicato sul proprio profilo Facebook una conversazione intrattenuta con un professore universitario, all'insaputa di quest'ultimo, che a dire della prima sarebbe stata connessa all'oggetto della segnalazione whistleblowing. Il primo tema che viene, quindi, evocato attiene alla legittimità delle registrazioni del lavoratore per ragioni difensive. In tal caso si è assistito in modo coevo all'evoluzione tecnologica, caratterizzata da una sempre maggiore pervasività dello strumento delle registrazioni (si pensi solo all'uso sempre più frequente dei messaggi vocali), ad un progressivo sdoganamento dell'uso delle registrazioni ai fini probatori. La giurisprudenza di legittimità alle origini riteneva che l'uso delle registrazioni fosse sempre illecito e configurasse una aperta violazione dell'art. 4 Stat. lav., poiché i controlli a distanza erano riservati al solo datore di lavoro e negli stretti limiti consentiti (Cass., sez. lav., 3 maggio 1997, n. 3837, in RIDL 1998, 1, II, 87 ss.). Questa tesi si esponeva alla critica, fondata, che risiedeva nella inapplicabilità dell'art. 4 dello Statuto ai lavoratori, posto che lo stesso aveva la finalità di tutelare la parte debole del rapporto e porre un argine al controllo del datore di lavoro e non certo il contrario. Tanto che la giurisprudenza successiva, fino ad un recente passato (Cass., sez. lav., 21 novembre 2013, n. 26143), era giunta alla medesima conclusione del divieto di registrare i colloqui fra colleghi, ma attingendo all'obbligo di buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 cc, la cui violazione era considerata foriera di una lesione irrimediabile del vincolo di fiducia con il datore di lavoro, tale da giustificare il licenziamento per giusta causa. Ora, ad eccezione di alcune pronunce del giudice di merito di carattere pioneristico (si ricorda fra le primissime Pret. di Frosinone 11 agosto 1989, in RIDL 1990, 3, II, 705), è solo da un decennio che la giurisprudenza della Cassazione, ferma restando l'illiceità di registrazioni di conversazioni alle quali non si partecipa (es. art. 167 d.lgs. n. 196/2003, art. 615-bis c.p., come ad es. nel caso di un registratore lasciato acceso in una stanza in assenza di colui che registra), si è orientata quanto alle registrazioni di conversazioni fra presenti in un senso diametralmente opposto, laddove le rilevazioni siano finalizzate alla tutela dei diritti della difesa dei lavoratori (Cass., sez. lav., 29 settembre 2022, n. 28398; Cass., sez. lav., 2 novembre 2021, n. 31204; Cass., sez. lav., 10 maggio 2019, n. 12534, Cass., sez. lav., 10 maggio 2018, n. 11322. In altri termini, quando le registrazioni fra presenti sono strettamente funzionali alla tutela dei diritti del lavoratore in sede giudiziale e prima ancora in sede di giustificazione avverso una contestazione disciplinare, il Giudice di Legittimità ritiene soccombente la riservatezza altrui rispetto all'esigenza fondamentale di difendersi del lavoratore. Vari gli argomenti spesi a sostegno della più recente soluzione ermeneutica. In primo luogo, si è richiamata la disciplina sulla privacy (d.lgs. n. 196/2003 oggi ridisegnato totalmente dal d. lgs. 101/2018 attuativo del Regolamento generale per la protezione dei dati personali 2016/679 (General Data Protection Regulation o GDPR), che al fine del trattamento dei dati personali prescinde dal consenso dell'interessato, ove il trattamento sia finalizzato alla tutela giudiziaria dei diritti (art. 24 d.lgs. n. 196/2003). Ora, l'art. 21 del Regolamento Europeo (GDPR) esclude il diritto di opposizione dell'interessato nel momento in cui il trattamento dei dati avvenga per l'esercizio di un diritto in sede giudiziaria. Nel qual caso, inoltre, non è previsto nemmeno il consenso, né l'informazione all'interessato, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario all'esercizio del diritto. Nello stesso senso il previgente art. 11 d.lgs. n. 196/2003 prevedeva che i dati dovessero essere trattati secondo correttezza e per scopi legittimi, alludendo al trattamento effettuato con modalità e strumenti di divulgazioni sovrabbondanti rispetto a quelli strettamente funzionali alla tutela dei diritti. Inoltre, la giurisprudenza ha richiamato a fondamento della prevalenza del diritto a registrare la scriminante di cui all'art. 51 c.p., principio generale del diritto che si applica in tutti i settori dell'ordinamento, non solo a quello penale (Cass., sez. lav., 29 dicembre 2014, n. 27424) e financo a vantaggio di soggetti terzi rispetto a chi effettua la registrazione, in forza dell'art. 119 c.p. (cfr. G. Allieri, Procedimento disciplinare, specificità della contestazione, esercizio del diritto di difesa, in il IUS Lavoro (ius.giuffrefl.it), 23 settembre 2020). Infine, dal punto di vista processuale si è rinvenuto nell'art. 2712 c.c. il fondamento dell'utilizzabilità delle registrazioni, qualificate quali prove documentali, a meno che la parte contro cui sono prodotte non la contesti, con la precisazione che il disconoscimento deve essere “chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta” (Cass., sez. lav., 19 gennaio 2018, n. 1250). Quindi, se la registrazione è lecita ed utilizzabile in sede giudiziaria, ne consegue l'illegittimità del licenziamento irrogato per giusta causa. A fronte della pacifica liceità delle registrazioni, rimane allora all'interprete il residuo sindacato sui limiti alle modalità di esercizio del diritto, ossia la valutazione dello scopo della condotta del lavoratore (continenza sostanziale) e della non sovrabbondanza del trattamento rispetto al fine da realizzare (continenza formale), come è avvenuto nel caso concreto. Infatti, ritornando ai fatti oggetto di analisi, la Cassazione è giunta a confermare la legittimità del licenziamento della lavoratrice, proprio perché la stessa aveva divulgato le registrazioni attraverso un mezzo incongruo rispetto alla tutela dei diritti, ossia un social network, e fra l'atro non ha ravvisato la stretta pertinenza delle conversazioni pubblicate rispetto alla finalità tutelata dalla disciplina sul whistleblowing, ritenendo i fatti oggetto di diffusione su Facebook falsi e denigratori. È chiaro, quindi, che pur nella generale ed ormai condivisa regola di utilizzabilità delle registrazioni da parte dei lavoratori per fini difensivi, il travalicare i limiti di continenza sostanziale e formale, con dichiarazioni non veritiere, diffamatorie e attraverso mezzi sovrabbondanti rispetto alla tutela dei diritti (social network), espone il dipendente alla violazione dell'obbligo di fedeltà nei confronti del datore di lavoro art. 2105 cc il cui precetto è integrato dall'obbligo di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Del resto, rispetto alla specifica disciplina europea del whistleblowing, Direttiva 2019/1937 UE, che si integra con il principio di libertà di manifestazione del pensiero tutelato dall'art. 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani, la giurisprudenza della Corte Edu nel celebre caso Guja c. Moldavia, ricorso n. 14277/04, sentenza 12 febbraio 2008, giunge alle stesse conclusioni alle quali è giunta la Cassazione nel caso in oggetto, seppur in base a diversi principi, e quindi ritenendo public disclosure come una soluzione estrema, alla quale accedere solo in mancanza di altri strumenti alternativi (canali di segnalazione interna). Ed ancora, un recente arresto della Corte Edu (Grande Camera, Caso Halet v. Lussemburgo), Sentenza depositata il 14 febbraio 2023, ha analizzato un caso relativo alla protezione di un whistleblower, ossia un dipendente, che era stato licenziato per aver divulgato ad un giornalista impegnato in un'inchiesta di pratiche di evasione fiscale, informazioni riservate da lui conosciute per motivi di lavoro e attinenti ai redditi della società transnazionale per la quale lavorava. La Corte si concentra sulla verifica se l'informazione divulgata sia di "interesse pubblico", delineando i confini della rilevanza della segnalazione. Ciò accade quando ha ad oggetto pratiche illecite sul luogo di lavoro, comportamenti riprovevoli o una questione che suscita un dibattito che dà luogo a controversie sull'esistenza o meno di un danno per l'interesse pubblico, come ad esempio avviene nel caso di mancato rispetto degli obblighi fiscali del datore di lavoro. In tal caso, nel difficile bilanciamento fra interesse pubblico alla conoscenza di tali informazioni e l'interesse privato ad evitare la propalazione di notizie pregiudizievoli per il datore di lavoro e di terzi, la Corte Edu ha dato prevalenza al primo. In particolar modo, il licenziamento è considerato una sanzione sproporzionata, in quanto oltre ad aver ripercussioni sulla carriera del dipendente può avere un “effetto raggelante sugli altri dipendenti e scoraggiarli a denunciare qualsiasi comportamento scorretto, anche in forza della copertura mediatica che certi casi potevano attirare”. Certo, il presupposto del dibattito giuridico era, anche in questo caso, la veridicità dei fatti oggetto di denuncia ed una azione a tutela dell'interesse all' integrità della pubblica amministrazione, invece, non sussistente, a parere della Cassazione, nel caso oggetto di disamina. Il bilanciamento tra l'interesse personale alla segnalazione e l'interesse della p.a., ai fini dell'applicabilità della tutela di cui all'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 Orbene, se è pacifico che la segnalazione whistleblowing debba esplicarsi con il fine ultimo di tutelare l'interesse della pubblica amministrazione. Ciò non significa che tale interesse debba essere necessariamente esclusivo. La Corte d'Appello di Roma, nella sentenza impugnata, sottolineava come: “l'azione della dipendente si configurava in realtà posta a tutela "di diritti nascenti dal proprio rapporto di lavoro e connessi ad una annosa vicenda di contrasto che la vedeva opposta al P. e non, viceversa, di una azione a tutela dell'interesse all' integrità della pubblica amministrazione". Anche sotto questo ulteriore profilo, l'epilogo della vicenda desta qualche perplessità, in particolare relativamente a quanto precisato da ANAC, nelle Linee Guida di cui alla Delibera n. 469/2021. Le Linee Guida ANAC, al punto 2.2., affermano che “l'eventuale sussistenza e portata di interessi personali del segnalante andrà valutata ad esempio, tenendo conto che lamentele di carattere personale come contestazioni, rivendicazioni o richieste che attengono alla disciplina del rapporto di lavoro o ai rapporti con superiori gerarchici o colleghi non possono generalmente essere considerate segnalazioni di whistleblowing, a meno che esse non siano collegate o collegabili alla violazione di regole procedimentali interne all'amministrazione che siano sintomo di un malfunzionamento della stessa. Resta fermo, infatti, che, alla luce della ratio che ispira la legislazione in materia di prevenzione della corruzione, non si possano escludere dalla tutela ex art. 54-bis (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) le segnalazioni nelle quali un interesse personale concorra con quello della salvaguardia dell'integrità della pubblica amministrazione. In simili casi è opportuno che il whistleblower dichiari fin da subito il proprio interesse personale”. Sulla base di tali premesse, concludeva ANAC: “gli ulteriori motivi, anche personali, che hanno indotto il whistleblower a effettuare la segnalazione, sono da considerarsi irrilevanti al fine di decidere sul riconoscimento delle tutele previste dall'art. 54-bis. Tale riconoscimento, intatti, è connesso alla valutazione oggettiva dei fatti segnalati che sveli l'interesse pubblico sotteso alla segnalazione, a prescindere dai concorrenti ed eventuali interessi personali del whistleblower”. Pare di capire, quindi, che le tutele riservate al whistleblower trovino applicazione anche quando l'interesse all'integrità della p.a. coincida o si accompagni con l'interesse privato del segnalante. Emblematica in tal senso la pronuncia del 7 gennaio 2023 n. 236, tramite la quale il del T.A.R. Lazio, sez.-quater ha riconosciuto, da un lato, che “le garanzie previste dall'art. 54-bis, d.lgs. n. 165/2001 devono essere riservate alle sole segnalazioni che abbiano ad oggetto condotte lesive di un interesse collettivo o diffuso, a esclusione, quindi, di tutte quelle che riferiscono comportamenti lesivi di interessi meramente personali egoistic blowers)»; dall'altro: «è però condivisibile quanto affermato da ANAC - prima con la delibera n. 782/2019 e poi ancora con le Linee Guida approvate con delibera 9 giugno 2021, n. 469 - in ordine al fatto che l'art. 54-bis non chiede che la segnalazione avvenga nell'esclusivo interesse della p.a. e che, quindi, le tutele previste nella citata disposizione trovano applicazione anche quando l'interesse all'integrità della p.a. coincide o si accompagna con l'interesse privato del segnalante”. Nella medesima pronuncia, il TAR Lazio delineava un regime favorevole per il dipendente pubblico, precisando che: “Ai fini dell'applicabilità del regime di tutela avverso gli atti ritorsivi previsto dalla normativa in materia di cd. whistleblowing, non è necessario che i motivi dell'agire del segnalante siano disinteressati. Pertanto, le disposizioni di cui agli artt. 54-bis, commi 6 e 7, D.Lgs. n. 165 del 2001 si applicano anche in relazione alle segnalazioni di illeciti connesse a rivendicazioni personali del lavoratore, fatta salva l'ipotesi in cui – per l'inconsistenza delle accuse e per le concrete modalità di utilizzo della segnalazione da parte del lavoratore – possa ragionevolmente affermarsi che la segnalazione non sia in alcun modo orientata a promuovere anche l'integrità della pubblica amministrazione, ma sia finalizzata solo a generare pressioni sul datore di lavoro al fine di perseguire un interesse privato del lavoratore, ovvero abbia un carattere del tutto strumentale e non in linea con la ratio dell'art. 54-bis, che, se pure non richiede il disinteresse del segnalante, certamente presuppone la buona fede della segnalazione”. Nel caso oggetto del presente studio, la Lavoratrice aveva denunciato la sottrazione da parte del Direttore di fondi pubblici del MIUR premiali per periodo il 2012-2018 "Studio di preparazione dei forti terremoti", nonché il plagio, il danno intellettuale, finanziario, di carriera, di immagine e a danno di terzi. Senza dubbio la condotta denunciata rientrava nel perimetro oggettivo di applicazione della disciplina whistleblowing, ed infatti, se fosse stata realmente integrata, avrebbe senza dubbio nuociuto all'integrità della pubblica amministrazione. Al contempo, nella vicenda non risultava che in primo od in secondo grado fosse stato accertato che la segnalazione fosse finalizzata solo a generare pressioni sul Direttore al fine di perseguire un interesse privato della Lavoratrice. Nei primi due gradi di giudizio, in verità, non ci si soffermava nemmeno sulla fondatezza o meno del sospetto della Lavoratrice, ma si dava rilevanza alla sola insussistenza delle condotte illecite, in quanto non riscontrate dall'istruttoria espletata dal Responsabile Anticorruzione. Quindi, a far corretta applicazione delle indicazioni dell'ANAC, nonché della giurisprudenza amministrativa richiamata, a nulla, o comunque in misura inferiore, avrebbe dovuto rilevare l'annosa vicenda di contrasto tra la segnalante ed i soggetti segnalati, ben potendo gli interessi personali del whistleblower convivere con l'interesse della pubblica amministrazione, laddove la denuncia verta su condotte illecite potenzialmente nocive alla integrità della p.a. L'epilogo sarebbe stato diverso laddove, contrariamente a quanto accaduto, la sussistenza delle condotte illecite denunciate fosse stata accertata. Tuttavia, al riguardo, per non cadere in errore, preme evidenziare come “non sia necessario per il dipendente essere certo dell'effettivo accadimento dei fatti denunciati e dell'identità dell'autore degli stessi, ma solo che ne sia ragionevolmente convinto”, come precisato da ANAC, al punto 2.2. delle Linee Guida emanate sulla base di quanto previsto dall'art. 54-bis, co. 5, d.lgs. n. 165/2001. Osservazioni In conclusione, l'insegnamento che si può trarre dalla vicenda analizzata nella sentenza in commento è quello di un atteggiamento di estrema prudenza ed attenzione che il dipendente deve tenere nell'esercizio del proprio diritto di informatore whistleblower, sia dal punto di vista formale, ma soprattutto sostanziale. Infatti, nonostante ANAC si spinga ad evidenziare come “non sia necessario per il dipendente essere certo dell'effettivo accadimento dei fatti denunciati e dell'identità dell'autore degli stessi, ma solo che ne sia ragionevolmente convinto”, ciò non sempre vale a tutelare il dipendente, quando i fatti denunciati si appalesino manifestamente infondati. Ciò si spiega con la considerazione che le divulgazioni possono dare luogo a conseguenze pregiudizievoli per il datore di lavoro pubblico e per terzi, come è avvenuto nel caso in questione, financo a conseguenze pregiudizievoli per la generalità dei consociati, quindi sul bene economico in senso lato, sulla protezione della proprietà, sulla conservazione di un segreto. Allo stesso modo, utilizzare canali esterni, ad esempio un social network, senza aver dimostrato l'inefficacia dei canali interni di denuncia, con l'utilizzo nell'esposizione di toni allusivi e volutamente sensazionalistici, anche nei confronti di soggetti terzi, non destinatari della denuncia whistleblowing, determina una violazione di quel dovere di continenza formale e sostanziale. In altri termini, se si procede in frode all'istituto del whistleblowing si depotenzia la tutela fornita dalla primitiva disciplina di cui all'art. 54-bis, co. 5, d.lgs. n. 165/2001 e, infine, dal neonato d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24, e si aprono le porte alla barbarie o usando le parole della Suprema Corte: “la tutela del dipendente che segnala illeciti altrui (c.d. whistleblowing) salvaguarda il medesimo dalle sanzioni disciplinari o da reazioni ritorsive conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un'esimente per gli autonomi illeciti che egli abbia commesso”. |