Il nuovo procedimento di definizione accelerata dei ricorsi per cassazione in attesa del Correttivo
02 Ottobre 2024
Inquadramento Parleremo del procedimento di definizione accelerata dei ricorsi per cassazione, e parleremo ― malissimo ― delle modifiche che il Correttivo alla riforma Cartabia intende apportarvi, secondo il testo ad oggi disponibile. Poiché la Corte di cassazione «ha sede in Roma», come stabilisce l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario e, sebbene si sia detto in passato che la lingua ufficiale della Corte di cassazione fosse il napoletano, per il folto numero di magistrati partenopei che la compongono, il grido di dolore che sorge dagli ultimi interventi che il Legislatore (con la maiuscola, sia chiaro) si appresta a varare, con riguardo al giudizio di cassazione, in materia di «Procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati», art. 380-bis c.p.c., merita di essere espresso in romanesco. Ed il grido di dolore è: «Aridatece la sesta!». Il funzionamento della "fu" sesta sezione Diciamo le cose come stanno. Prima della c.d. riforma Cartabia c'era una cosa, in Cassazione, che funzionava benino e forse anche più che benino: il procedimento di sesta. In Cassazione l'esigenza di un filtro in entrata è palese: l'esperienza insegna che i ricorsi che non hanno nessuna chance di successo sono molto, troppo numerosi e, dunque, vanno stoppati sul nascere, se si vuole affrancare la Corte di cassazione da un simile fardello e mantenere in vita la funzione che, sempre ai sensi del citato art. 65, essa dovrebbe avere, e cioè garantire l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione del diritto. L'esigenza del filtro, in altri termini, non è interesse della Corte di cassazione, che interessi non ne ha, bensì della collettività, avvocati compresi, a che il servizio della giustizia civile abbia un funzionamento decoroso. E c'è da dire un'altra cosa. Se spesso sono i ricorsi per cassazione a mancare di qualunque chances di successo, non certo infrequenti sono i casi in cui è la sentenza impugnata a non avere la benché minima chance di essere confermata. Ed il procedimento di sesta garantiva non soltanto il filtro dei ricorsi senza speranza, ma anche una corsia privilegiata ai ricorsi manifestamente fondati: il che è cosa altrettanto e forse ancor più importante, dal momento che, se la sentenza è corretta, la Cassazione, rigettando il ricorso, pone fine al processo; se è sbagliata e il ricorso è fondato, ciò vuol dire che il processo non è finito ma deve continuare, normalmente, dinanzi al giudice del rinvio, per un altro, generalmente non breve, giro di giostra. In sintesi, il precedente rito adottato dalla sesta sezione perseguiva con successo questo duplice obbiettivo, indirizzare verso un binario morto i ricorsi senza speranza ed avviare a sollecita definizione quelli chiaramente fondati, il tutto in un'ottica efficacemente garantista: veniva fatta una proposta con l'assegnazione di un termine per memorie, di modo che il destinatario della proposta poteva interloquire per quanto necessario, prima della decisione del ricorso. Last but non least, la produttività della sesta era enorme e, dunque, costituiva uno strumento centrale del buon funzionamento della Corte di cassazione, che grazie ad essa è arrivata a varcare la soglia dei quarantaduemila ricorsi decisi nell'anno. L'avvento della «Piddià» La riforma Cartabia ha ritenuto di sopprimere il rito di sesta, collaudato e funzionante, con il nuovo «Procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati»: in Cassazione è invalso l'uso dell'acronimo «piddià». Il tutto secondo un progetto che non è facile immaginare peggiore. Il nuovo procedimento, in primo luogo, vale soltanto a sbarrare la strada ai ricorsi senza speranza ed invece chi ha ragione può attendere che sia fissata secondo i ritmi normali, che non sono propriamente celerrimi, l'adunanza o l'udienza pubblica. In secondo luogo, mentre il procedimento di sesta garantiva una decisione del ricorso, decisione adottata dal collegio, un presidente e quattro consiglieri, il nuovo procedimento accelerato mira, se così si può dire, ad una non-decisione, per di più monocratizzata, ad una sorta di progetto di decisione affidato ad un singolo presidente-consigliere, concepito per realizzare una funzione terminativa del processo attraverso la sua estinzione: il ricorrente, se il congegno va in porto, non vede deciso il suo ricorso, ma viene invitato a ritirarsi in buon ordine sulla base di una decisione soltanto minacciata. Se si ritira il procedimento si estingue, ma può chiedere la decisione. E perché il povero ricorrente dovrebbe arrendersi alla proposta di definizione accelerata? Perché l'art. 380-bis c.p.c. contempla un meccanismo biecamente coercitivo: il destinatario della proposta di decisione anticipata può chiedere che il ricorso venga comunque deciso ma, se poi perde, prende un ceffone in termini di applicazione dell'art. 96, commi 3 e (novello) 4 c.p.c., senza dire del fisiologico raddoppio del contributo unificato. Un modello autoritario e giugulatorio che richiama alla mente, sia consentito il riferimento, il «Cavaliere Nero» di Proiettiana memoria: il senso, insomma, è che alla Corte di cassazione non le devi… dare fastidio inutilmente. Si potrebbero richiamare i sacri principi, l'art. 24 Cost., per dissentire dalla scelta legislativa, ma mi sembra che il «Cavaliere Nero» rappresenti assai meglio dei sacri principi come stanno le cose. Perché la «Piddià»? Perché il nuovo procedimento di decisione accelerata in luogo del procedimento «di sesta», che andava benino, se non bene? La risposta non può che essere: PNRR. Per staccare le cedole previste dal PNRR bisognava dimostrare di aver adottato soluzioni idonee a risolvere il problema dei problemi che affligge il nostro processo civile, ossia la durata eccessiva; e qualche mente raffinatissima deve aver pensato che la monocratizzazione del procedimento e la minaccia della sanzione avrebbe prodotto un ulteriore aumento di produttività rispetto a quello, già notevolissimo, della sesta. Insomma, il Legislatore (ancora una volta con la maiuscola) ha ritenuto di coltivare la speranza che frotte di ricorrenti dovessero acquietarsi a fronte della proposta di definizione anticipata, così come Saulo fulminato sulla via di Damasco, così da non chiedere la decisione del ricorso. Non era però scontato, per usare un eufemismo, che un simile effetto potesse prodursi dinanzi a parti che, giunte in Cassazione, fossero in causa da anni e, dunque, avessero già manifestato una volontà più che univoca ad avere, come è del resto loro diritto, una decisione del giudice. Ed infatti il dato oggettivo è che con le «piddià» non si fanno i numeri della sesta. Devo dire, come esperienza personale, che mi sono trovato, in veste di componente delle sezioni unite civili, a scrutinare ricorsi nei quali la proposta di decisione anticipata era stata sottoscritta nientemeno che dalla prima presidente, ricorsi davvero senza speranza: nondimeno anche in casi del genere ho visto chiesta la fissazione dell'udienza, peraltro a volte senza ulteriori argomenti, il che testimonia che certi ricorrenti non si fermano proprio dinanzi a nulla. Una decisione, cioè, qual era la decisione di sesta, gliela devi dare, senza perdere tempo a somministrare proposte che troppo spesso lasciano il tempo che trovano e che finiscono per costituire non deflazione del contenzioso, ma lavoro in più per il giudice. I meriti della Cassazione Pur dinanzi ad uno strumento così malfatto, devo dire che, a mio parere, la Corte di cassazione, nel governare il nuovo istituto, ha adottato soluzioni prudenti e sagge, tese a smorzare la connotazione dispotica del dato normativo. Per come è amministrato attualmente, il nuovo procedimento accelerato non è malaccio: certo, quello di sesta era migliore e più efficiente, ma la Cassazione ha reso digeribile, ha addomesticato anche il nuovo. Si è anzitutto affermato il condivisibile orientamento secondo cui l'istanza di decisione non ha il carattere di un atto oppositivo che debba necessariamente possedere l'attitudine a scardinare la proposta come formulata: non si tratta, per così dire, di un'impugnazione della proposta di definizione accelerata ma, secondo quanto stabilisce l'art. 380-bis, comma 2 c.p.c., semplicemente di una istanza di decisione. La norma prescrive che l'istanza di decisione (rispetto alla quale, ovviamente, non può essere considerata equipollente la memoria ex art. 378 c.p.c.: Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2024, n. 2614) sia sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale: sul che la dottrina aveva obbiettato che la norma non avrebbe senso, dal momento che detta istanza attiene al governo della strategia processuale, che già di per sé compete al difensore, ai sensi dell'art. 84 c.p.c.. Ora, a parte l'evidente erroneità dell'obiezione, dal momento che l'art. 84 devolve al difensore il compimento di «tutti gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati», cioè alla parte, il punto è che il rilascio della nuova procura è la chiave di volta della nuova disposizione, la quale chiede che sia la parte personalmente, debitamente edotta dei possibili esiti del giudizio, ad assumersi la responsabilità di stimolare una decisione che potrebbe comportare non indifferenti conseguenze sanzionatorie, ai sensi dell'art. 96 c.p.c. E d'altro canto dette conseguenze sanzionatorie si giustificano, secondo il tendenziale automatismo voluto dal legislatore, proprio perché la parte se ne è assunta la responsabilità con il rilascio della nuova procura. Si spiega così il perché del principio secondo cui, in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi ex art. 380-bis c.p.c., la procura necessaria per la presentazione dell'istanza di decisione, di cui al comma 2, deve rispondere al duplice, ma al tempo stesso connesso e complementare, carattere della «novità» e della «specialità», nel senso che deve essere conferita in data successiva alla formulazione della proposta sintetica di definizione ed avere ad oggetto il potere del difensore di porre in essere quello specifico atto processuale, c.d. procura ad actum (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2024, n. 13555). Questione risolta è quella del ricorso per cassazione proposto da una pluralità di soggetti tra loro in rapporto di litisconsorzio necessario: e cioè, cosa accade se il ricorso è proposto da due persone, e, a seguito della proposta di definizione accelerata, una sola di esse fa istanza di decisione? La risposta è che l'istanza di decisione, tempestivamente presentata da uno solo dei litisconsorti necessari, fa sì che il processo litisconsortile, in virtù dell'inscindibilità delle cause, debba essere trattato nelle forme camerali di cui all'art. 380-bis.1 c.p.c. (e cioè la decisione viene adottata in sede di adunanza camerale) anche nei confronti degli altri litisconsorti che non abbiano presentato analoga istanza, potendo tale circostanza rilevare unicamente in relazione alle conseguenze sanzionatorie eventualmente discendenti dalla conformità della decisione finale alla proposta (Cass. civ., sez. III, 6 ottobre 2023, n. 28219). Può darsi, poi, che la proposta di definizione accelerata sia seguita da un'istanza di decisione formulata in modo irrituale: o perché non supportata dall'apposita procura speciale richiesta dalla norma o perché effettuata dopo il decorso del termine stabilito in 40 giorni. Su questa questione vi è una decisione la quale ha affermato che, se l'istanza di decisione c'è, quantunque irrituale, si va comunque alla decisione camerale, con applicazione dell'art. 96 c.p.c. Cioè, nel procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi ex art. 380-bis c.p.c., quando l'istanza di definizione del giudizio dopo la formulazione della proposta sia stata fatta in modo irrituale, il Collegio fissato in adunanza camerale definisce il giudizio in conformità alla proposta per ragioni di rito impedienti la discussione su di essa, con piena applicazione del terzo comma della citata disposizione. Dunque, qualora l'istanza di decisione collegiale di cui all'art. 380-bis c.p.c. venga chiesta non rispettando i requisiti che le impone il medesimo articolo e quindi sia affetta da vizi processuali, come la tardività, la mancanza di nuova procura oppure una nuova allegazione della stessa procura sulla base della quale era stato proposto il ricorso, il giudizio non può essere definito con il decreto di estinzione di cui all'art. 391 c.p.c., ma occorre fissare l'adunanza collegiale ai sensi dell'art. 380-bis.1 c.p.c., giacché la definizione con decreto si effettua solo qualora non sia proposta l'istanza (Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2023, n. 31839). Il connubio tra gli artt. 380-bis e 96 c.p.c. Veniamo ora ad un breve approfondimento sull'impiego fatto dall'art. 380-bis c.p.c. dell'art. 96 c.p.c. Dirò anzitutto, in generale, che questa norma, l'art. 96, sia pure onusta di storia, è una delle più inutili, per non dire delle più stupide ― e ce ne vuole ― dell'intero codice di procedura civile. Ciò nondimeno, in un lungo arco temporale si è diffusa, perlopiù tra i giudici, l'idea che l'uso dell'art. 96 c.p.c. potesse contribuire a risolvere i problemi della giustizia civile e, in altri termini, a sfoltire il contenzioso di quei processi diciamo così «abusivi»: a questo fine è stato introdotto il famigerato terzo comma dell'art. 96 c.p.c., che consente di condannare per lite temeraria la parte punto e basta, non è neppur chiaro in presenza di quali presupposti. Ma questo risultato di eliminazione dell'abuso del processo non è stato non solo raggiunto, ma nemmeno lontanamente sfiorato e ciò per due ragioni collegate l'una con l'altra. Da un lato l'impiego dell'art. 96 c.p.c., ed in particolare del suo terzo comma, soffre di una insuperabile "randomizzazione", cioè il suo uso è casuale e non è prevedibile affatto se e quando il giudice lo impiegherà. C'è il giudice «buon samaritano», il «cireneo» che il 96, comma 3 c.p.c. tende a non darlo mai; c'è il giudice «Cavaliere Nero» che il 96, comma 3 c.p.c. lo brandisce come una clava. Dall'altro lato l'art. 96 c.p.c. costituisce esempio paradigmatico di aberratio ictus, dal momento che esso punisce la parte in senso sostanziale per un abuso del processo che, quasi sempre, non la parte sostanziale ha posto in essere, ma il suo avvocato, che non era all'altezza. Pensate all'applicazione dell'art. 96, comma 3 c.p.c., al ricorso per Cassazione con il quale è erroneamente dedotta la violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo (Cass. civ., sez. un., 28 ottobre 2022, n. 32001: ma cosa volete mai che ne sappia la parte in senso sostanziale dei limiti esterni della giurisdizione! Ebbene, questa scombiccherata disposizione, l'art. 96 c.p.c. addizionato dell'ineffabile terzo comma, è stata addirittura rafforzata dalla riforma Cartabia, animata come dicevo nel complesso da una torva impronta autoritaria alquanto preoccupante, con l'introduzione, dopo il terzo comma, del quarto comma, che contempla una (ulteriore) sanzione per l'abuso del processo da pagare allo Stato. Va però detto che l'art. 96 c.p.c., del quale ho or ora parlato così male, un senso, all'interno dell'art. 380-bis c.p.c., ce l'ha e ce l'ha ― come accennavo poc'anzi ― proprio perché è collegato al rilascio di una nuova procura al difensore, necessaria alla richiesta della fissazione dell'udienza successivamente alla «piddià». E cioè, quella norma, che perlopiù dà luogo ad un aberratio ictus, qui coglie invece nel segno, proprio perché la parte in senso sostanziale è stata avvertita della sorte che l'attende ed ha manifestato espressamente la propria volontà, con il rilascio della nuova procura, di affrontare consapevolmente quella sorte. L'applicazione dell'art. 96 nell'opposizione a «Piddià» Anche sul governo dell'art. 96 c.p.c. in caso di opposizione a «piddià» la Cassazione mi pare si sia comportata bene. Ci si è chiesti se l'adesione da parte del collegio alla proposta di definizione accelerata comporti sempre, di default, l'applicazione di detta disposizione ovvero se il collegio debba di volta in volta scrutinare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della disciplina della responsabilità aggravata. Questo quesito è stato sciolto dalle Sezioni Unite, le quali hanno stabilito che, in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l'art. 380-bis, comma 3, c.p.c. codifica un'ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (Cass. civ., sez. un., 27 settembre 2023, n. 27433; Cass. civ., sez. un., 13 ottobre 2023, n. 28540). Insomma, colui che propone l'istanza di definizione anticipata sa e deve sapere che la duplice condanna ai sensi dell'art. 96 c.p.c. (quella del terzo comma, naturalmente, sempre che ci sia la parte che ha depositato il controricorso) ci sarà sicuramente, almeno in via tendenziale. Emerge dalla pratica, che l'entità della condanna di cui al terzo comma tende ad attestarsi sull'importo delle spese di lite liquidate: cioè la S.C. adotta il sistema della condanna in duplum, importante ma non draconiana, tanto più che le spese in Cassazione vengono spesso liquidate al ribasso. Non deve per contro farsi luogo alla sanzione processuale di cui all'ultimo comma dell'art. 380-bis c.p.c. laddove la definizione collegiale del ricorso prescinda del tutto dalla proposta di definizione anticipata, come nel caso in cui, a fronte d'una proposta di rigetto o d'inammissibilità nel merito, il ricorso venga dichiarato improcedibile o inammissibile ab origine oppure venga rigettato prendendo in esame motivi non vagliati in sede di proposta (Cass.civ., sez. II, 1 agosto 2024, n. 21668). Se l'intimato non ha spiegato difese, e, cioè, non ha depositato il controricorso, il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. non pare applicabile, non potendosi pensare ad una condanna per lite temeraria in favore di una parte che ― l'espressione è inesatta con riguardo al giudizio di legittimità, ma è utile a comprendere ― è contumace. Ma il quarto comma, che prevede una condanna di tipo sanzionatorio al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, si applica o no? La risposta della Cassazione è in senso positivo (altrimenti mancherebbe qualsiasi elemento compulsivo nel caso di intimato che non si sia difeso). In tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, di cui all'art. 380-bis c.p.c., la condanna del ricorrente al pagamento della somma di cui all'art. 96, comma 4, c.p.c. in favore della cassa delle ammende deve essere pronunciata anche qualora nessuno dei soggetti intimati abbia svolto attività difensiva, avendo essa una funzione deterrente e, allo stesso tempo, sanzionatoria rispetto al compimento di atti processuali meramente defatigatori (Cass. civ., sez. un., 22 settembre 2023, n. 27195; Cass. civ., sez. III, 4 ottobre 2023, n. 27947). La «Piddià» da Cartabia a Nordio Ebbene, che cosa si appresta a fare il correttivo alla riforma Cartabia che è oggi in lavorazione e che, presumibilmente, sarà licenziato verso la fine del mese di ottobre? Sopprime nell'art. 380-bis c.p.c. la dicitura «munito di una nuova procura speciale»: l'avvocato può cioè chiedere la decisione senza aver ottenuto il via libera dal proprio cliente. Oggi le opposizioni a «piddià» non sono poche e dunque lo strumento funziona ma non certo benissimo, però in qualche misura funziona. Domani, quando l'avvocato potrà fare opposizione senza interpellare il cliente, quante proposte di decisione anticipata si consolideranno per mancata opposizione? La risposta è semplice: nessuna. Zero. Quasi quasi non mi sentirei nemmeno di escludere che l'avvocato sia deontologicamente tenuto a fare opposizione alla «piddià», dal momento che, per secondare l'estinzione del processo, egli ha bisogno per legge di una specifica procura. E cioè il cliente gli potrebbe dire: ma chi ti ha autorizzato a soggiacere alla proposta di decisione anticipata e così a rinunciare in buona sostanza al ricorso? Insomma, è chiaro a chiunque che la proposta di definizione anticipata, opponibile senza una nuova procura, darà luogo, in termini di produttività, ad un tracollo. Val quanto dire che la Corte di cassazione non ha più uno strumento di filtro in entrata: il Legislatore gli ha tolto «la sesta» e l'ha sostituita con uno strumento divenuto all'esito del Correttivo totalmente inutile, con un'arma completamente spuntata. Ora, chi ha letto queste pagine è con tutta probabilità un avvocato. E non devo essere io a spiegare ad un avvocato che cos'è nel suo interesse e che cosa no. Certo, per il singolo avvocato non è carino, diciamo così, incocciare nella «piddià». Ma qualunque avvocato sa benissimo, credo, che per il mondo forense è meglio avere una giustizia civile che funziona e non una giustizia civile lenta e inefficiente. Ed il procedimento per la definizione anticipata dei ricorsi così come concepito dalla Cartabia, certo non era il massimo, ma era meglio che niente; come corretto oggi non ha nessun senso. Ripeto, da un'efficace filtro in entrata, quale era il procedimento di sesta, la Cassazione diventerà una Cassazione senza filtro. Se fosse possibile la cosa migliore sarebbe cancellare la riforma con un tratto di penna e tornare alla «sesta»: perciò «aridatece la sesta». Ma è poi così grave? In fondo discorriamo di una capocchia di spillo. Con i problemi che agitano il Paese, l'Europa ed il mondo ― si potrebbe dire ― vogliamo veramente prendercela perché nell'art. 380-bis c.p.c. è stato soppresso l'inciso «munito di una nuova procura speciale»? Tanto più che le cedole del PNRR ormai le abbiamo staccate, e dunque vale la regola: «Passata la festa, gabbato lo santo». E però io direi di sì, direi che dobbiamo prendercela in questo senso: questa novità normativa contenuta nel Correttivo, come la precedente riforma Cartabia, è indicativa di un legislatore che non sa quello che fa e testimonia di un Paese che va avanti non grazie al Legislatore (con la maiuscola), ma nonostante il Legislatore. Questo è un paese senza speranza. |