Licenziamento per g.m.o: possibile rilevanza ritorsiva se intimato a seguito del rifiuto di trasformazione del rapporto da full time a part time (o viceversa)
03 Ottobre 2024
Massima Il licenziamento motivato dall'esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell'art. 8,1 comma d.lgs. 81/2015; mentre il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo in quanto mosso dall'esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all'art. 8 d.lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta. Al licenziamento ritorsivo, in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell'art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale. Il caso Rifiuto di trasformazione da full a part time e natura ritorsiva del licenziamento La fattispecie oggetto della presente trattazione di commento trae origine dal ricorso, concernente l'impugnativa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, promosso da un lavoratore addetto al reparto macelleria di una unità produttiva sita in territorio calabrese, il quale aveva stigmatizzato la scelta risolutiva datoriale denunciando la ritorsività del provvedimento sanzionatorio comminatogli. Più nel dettaglio, infatti, era stata evidenziata non solo l'insussistenza, in nuce, del giustificato motivo oggettivo addotto dall'azienda e relativo al costante andamento negativo del reparto macelleria presso il quale era addetto il dipendente, così come l'impossibilità di repêchage del lavoratore all'interno dell'organizzazione aziendale, ma, sotto il profilo sostanziale, era stata rappresentata l'esclusiva volontà ritorsiva di matrice datoriale sottesa all'adozione del comminato licenziamento, quale reazione scomposta al rifiuto del dipendente di accettare la trasformazione del suo rapporto di lavoro da full time in part time. Su tali presupposti il ricorrente aveva ottenuto l'accoglimento del promosso ricorso e la Corte d'appello, in riforma parziale della sentenza di prime cure, aveva ordinato a parte datoriale la reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro, condannandola altresì al risarcimento del danno pari ad una indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino al giorno dell'effettiva reintegrazione, oltre accessori e contributi previdenziali e spese. A fondamento del proprio decisum, in particolare, i Giudici di merito avevano evidenziato come non soltanto il licenziamento comminato difettasse del motivo oggettivo addotto (sia sotto il profilo dell'asserito costante andamento negativo del reparto di macelleria dove lavorava il lavoratore, sia dell'impossibilità del repêchage del medesimo) ma come, altresì, la manifesta insussistenza del motivo oggettivo rivelasse l'esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento in oggetto, in ragione del concorso con gli ulteriori elementi presuntivi che erano stati acquisiti al giudizio, a partire dalla contiguità temporale del licenziamento rispetto al rifiuto che il dipendente aveva opposto alla trasformazione del suo rapporto di lavoro in un rapporto di lavoro part-time ed alla iniziativa disciplinare che ne era conseguita da parte del datore di lavoro. La società, ad ogni modo, decideva di proporre ricorso per cassazione avverso tale decisione di gravame, ponendo a sostegno del proprio costrutto impugnativo, per quel che rileva ai fini della presente trattazione, tre motivi principali di censura della sentenza della Corte territoriale. Come primo motivo di stigmatizzazione, invero, parte ricorrente ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 41 Costituzione, dell'articolo 115c.p.c. e degli articoli 3 e 5legge n. 604/1966, rilevando, ai sensi dell'art. 360, numeri 3 e 5 c.p.c., un vizio di motivazione e l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Secondo la datrice di lavoro, la Corte d'appello avrebbe errato nell'esame dei fatti e nell'interpretazione giurisprudenziale in tema di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, travalicando i limiti posti al sindacato giudiziale sulle scelte datoriali e così realizzando una inammissibile invasione di campo, afferente alla valutazione nel merito di tali scelte. Ma non solo. La Corte d'appello avrebbe altresì posto in essere una non corretta analisi dei dati offerti in produzione, così incorrendo nel vizio di omesso esame e/o travisamento delle prove, in violazione dell'articolo 115. c.p.c. A detta della società ricorrente, infatti, i giudici del merito non avrebbero affatto vagliato le risultanze delle buste paga prodotte né i documenti depositati dall'azienda (ed attestanti le assunzioni datoriali presso il reparto macelleria ed il ricorso all'utilizzo di voucher per lavoro occasionale) ed avrebbero, altresì, travisato la prova inerente la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento addotto, in quanto l'analisi di tutti i reparti evidenziava come i ricavi del settore macelleria non fossero tali da supportare i costi costituiti dai due dipendenti assunti a tempo pieno, a differenza degli altri reparti con addetto alla vendita, che avevano un numero di clienti praticamente doppio ciascuno e senza la necessità della contestuale presenza di due addetti full time in contemporanea. Con il secondo motivo di ricorso, invece, la datrice di lavoro ha denunciato, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e/o la falsa applicazione del d.lgs. n. 23/2015 e del d.lgs. n. 81/2015, per avere la Corte di appello ritenuto provata la esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento ed accordato al lavoratore la tutela reintegratoria a seguito del rifiuto del rapporto part time. Sostiene, al contrario, la ricorrente come nel sistema delineato dalla riforma del c.d. jobs act nel 2015 con il d.lgs. 81/2015 (art. 2, comma 1) la reintegra sia oggi considerata come la sanzione applicabile solo quando il licenziamento risulti discriminatorio o negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time. Tale fattispecie, invero, rinviene la propria disciplina nell'art. 8,1 comma del d.lgs. n. 81/2015, il quale dispone come il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento, senza la previsione normativa di comminazione, tanto meno espressamente, di alcuna sanzione di nullità. Infine, con il terzo motivo di impugnazione, parte ricorrente ha invocato la violazione o falsa applicazione dell'art. 115 e degli artt. 2697 e 2729 c.c., sostenendo come la Corte d'appello fosse giunta alla declaratoria di ritorsività del comminato licenziamento, mediante l'utilizzo di semplici elementi presuntivi. La questione Ipotesi di licenziamento a confronto: illegittimità vs nullità La questione sottesa alla pronuncia in esame involge la tematica del raffronto tra l'ipotesi del licenziamento conseguente al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da full time a part time (o viceversa) ed il licenziamento ritorsivo del dipendente, quale reazione datoriale alla legittima scelta del prestatore di opporre il proprio rifiuto ad una tale richiesta di trasformazione oraria. La soluzione giuridica L'ingiusta ed arbitraria reazione datoriale a un comportamento legittimo del lavoratore attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta La Suprema Corte, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dalla stigmatizzazione della rilevata inammissibilità del primo motivo di ricorso introdotto dalla società datrice di lavoro, evidenziando come gli accertamenti di fatto non sono sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., circostanza della quale parte ricorrente sembra non aver tenuto conto nella proposta articolazione deduttiva, siccome finalizzata ad una sostanziale rivalutazione degli accadimenti storici e ad una revisione del giudizio di fatto non ammissibile in tale sede. Ed invero, le censure sollevate dalla ricorrente solo formalmente sembrano denunciare plurimi errores in iudicando, mentre nella sostanza finiscono col criticare la sentenza impugnata per la modalità di valutazione delle prove e di accertamento, in base ad esse, dell'insussistenza del giustificato motivo di licenziamento addotto dall'azienda datrice di lavoro. Senonché e come è noto, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo qualora il giudice, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale. Nel caso sub iudice, tuttavia, il motivo di ricorso appare totalmente di merito rispetto ai fatti di causa, in quanto attiene alla selezione e alla valutazione dei vari elementi di prova operate dalla Corte di appello, per aver la stessa affermato, contrariamente ai desiderata della ricorrente, che non esistesse alcuna crisi relativa all'asserito costante andamento negativo del reparto di macelleria, quale unica ragione giustificativa posta formalmente a fondamento del recesso. Tale censura, per le ragioni evidenziate, risulta, dunque, non solo inammissibile, ma altresì di fatto infondata ed errata, avendo la Corte di merito compiutamente analizzato i dati di bilancio (gli importi, l'incidenza, il numero di clienti) e il raffronto mensile sull'andamento dei reparti prodotti dalla società, così arrivando a rilevare non solo l'insussistenza della crisi addotta, ma persino la crescita costante del fatturato. Con tale valutazione, i Giudici di merito hanno, quindi, concretamente accertato l'assenza dei presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al lavoratore, senza scivolare in alcun sindacato sul potere discrezionale di gestione e di organizzazione dell'impresa, come, invece, tenta di sostenere la ricorrente. Continua, inoltre, la Suprema Corte, così passando alla disamina del secondo motivo di ricorso, evidenziando come, ad ogni buon conto, il lavoratore fosse stato formalmente licenziato per la dedotta crisi aziendale (g.m.o.) e non per l'esigenza di trasformazione del contratto full time in part time. Non vi è, infatti, nel provvedimento di recesso datoriale, alcun riferimento (nemmeno tacito o indiretto) a tale circostanza, né in relazione alle esigenze di trasformazione del rapporto di lavoro sotto il profilo dell'orario né all'opposto rifiuto del part time. Appare, dunque, evidente come la Corte d'appello non abbia affatto dichiarato la nullità del comminato licenziamento in quanto intimato in ragione dell'esigenza di trasformare il rapporto di lavoro del dipendente da full time a tempo parziale, ai sensi dell'articolo 8, comma 1 del d.lgs. n. 81/2015. Al contrario, i Giudici di merito hanno rilevato come, in concreto, la decisione risolutiva del rapporto di lavoro, formalmente intimata per crisi aziendale, fosse, in realtà, non solo ingiustificata ma anche ritorsiva, siccome fondata sulla esclusiva e determinante ragione di scomposta reazione datoriale al rifiuto, in precedenza opposto dal lavoratore, alla trasformazione del proprio rapporto da tempo pieno a part time. Non appare, pertanto, condivisibile l'operata stigmatizzazione riservata alla valutazione del profilo sanzionatorio, se solo si considera come il licenziamento ritorsivo sia un licenziamento nullo perché illecito, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena, come sancito chiaramente dal disposto dell'art. 2 del D.lgs. 23 del 2015, anche alla luce del recente intervento della Corte Costituzionale, che ha espunto la locuzione “espressamente” dal testo della predetta disposizione normativa. Infine, quanto al terzo motivo di impugnazione, gli Ermellini ne evidenziano la sostanziale inammissibilità, avendo con tale impostazione la ricorrente censurato solamente il risultato del ragionamento presuntivo adottato dalla Corte di merito, ma non la violazione delle regole e dei presupposti normativi a monte. I giudici d'appello, infatti, sono giunti alla declaratoria di ritorsività del comminato licenziamento facendo ricorso, oltre che alla rilevata insussistenza del giustificato motivo oggettivo posto a fondamento del recesso datoriale, alla emersione di alcuni elementi presuntivi individuati, in particolare: nella contiguità temporale del licenziamento rispetto al rifiuto del dipendente di accettare la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale; nella iniziativa sanzionatoria collegata a tale rifiuto, posto che la datrice aveva proceduto ad una contestazione disciplinare a cui non è seguita alcuna sanzione; nella contraddittorietà delle scelte imprenditoriali; nella mancata dimostrazione che la preventiva offerta del part-time sia stata rivolta al lavoratore in alternativa al licenziamento. Ebbene, sottolinea al riguardo la Suprema Corte come la lunga illustrazione del motivo di impugnazione non prospetti, in concreto, alcuna falsa applicazione dell'art. 115 o dell'art. 2729, risolvendosi solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse, sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e nella prospettazione di una diversa ricostruzione della quaestio facti. Per tali ragioni la Suprema Corte respinge il ricorso, enunciando il principio di diritto per cui il licenziamento motivato dall'esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell'art. 8,1 comma d.lgs. 81/2015, mentre il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo in quanto mosso dall'esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all'art. 8 d.lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta. Al licenziamento ritorsivo, in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell'art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale. Osservazioni La differenza sostanziale e sanzionatoria tra l'ipotesi di cui all'art. 8, comma 1, del d.lgs., n. 81/2015 e il licenziamento ritorsivo La pronuncia in esame ci consente di avanzare alcune considerazioni di sintesi sul tema del raffronto tra l'ipotesi di cui all'art. 8, comma 1, del d.lgs., n. 81/2015 (che disciplina il caso del licenziamento conseguente al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da full time a part time o viceversa) e la diversa fattispecie del licenziamento ritorsivo del dipendente, quale reazione datoriale alla legittima scelta del dipendente di opporre il proprio rifiuto ad una tale richiesta di trasformazione. Come è noto, invero, il legislatore nostrano, nella disposizione testé richiamata e che risulta introdotta in seno alla complessiva riforma che va sotto il nome di Jobs act, ha espressamente sancito come “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. La ratio di tale previsione esplicita riposa, invero, nel principio di sostanziale immodificabilità unilaterale delle pattuizioni concordate tra le parti in sede di costituzione del rapporto di lavoro, specie considerando la posizione di dipendenza assunta dal lavoratore, quale “parte debole” della vicenda contrattuale, ed il rischio di coercibilità connesso allo spettro della perdita stessa del posto di lavoro, nell'ipotesi di manifestata contrarietà al mutamento dell'articolazione della prestazione richiesta. Ecco perché, dunque, si è avvertita l'esigenza di dettare tale precipua regola di salvaguardia e tutela occupazionale, sancendo come, per il passaggio da part time a full time così come anche per una variazione di orario del part time già concordato, non solo appaia necessario l'assenso spontaneo del lavoratore interessato, ma l'eventuale rifiuto dal medesimo espresso non possa essere sanzionato con il licenziamento da parte del datore di lavoro, non costituendo tale circostanza un giustificato motivo oggettivo di risoluzione del rapporto. Eppure, la Suprema Corte ha evidenziato, a più riprese, come tale dettato normativo non precluda in maniera assoluta la possibilità, per parte datoriale, di risolvere il rapporto di lavoro, per giustificato motivo, a seguito del rifiuto alla trasformazione proposta al lavoratore interessato. Secondo l'orientamento di legittimità in via di consolidamento, invero, in tali casi appare essenziale che il licenziamento non venga intimato a causa della contrarietà alla trasformazione del rapporto espressa dal dipendente, ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo parziale (o viceversa) del lavoratore, conseguente al rifiuto della modifica prospettata dal datore di lavoro. Rileva a tal fine, dunque, una sostanziale rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell'onere della prova posto a carico di parte datoriale, dovendo questi dimostrare: la presenza di effettive necessità economiche e organizzative che rendono impossibile il mantenimento della prestazione così come concordata tra le parti sino a quel momento (ovvero part time o full time), ma solo con l'orario differente richiesto dal datore di lavoro; ma anche la proposta fatta al dipendente di convertire il contratto lavoro (da full time a part time o viceversa) e il suo rifiuto; nonché l'esistenza di un legame causale tra le esigenze di riduzione (o aumento) dell'orario e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comminato. Tale orientamento giuridico, pertanto, consacra l'esigenza di provvedere ad un corretto bilanciamento dei contrapposti interessi e diritti in gioco, consentendo al contempo una interpretazione chiarificatrice dei concreti confini applicativi del divieto sancito dall'art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015, in tema di trasformazioni dei contratti di lavoro. Eppure, come correttamente sottolineato dalla pronuncia in esame, vi è una chiara e netta differenza tra l'ambito operativo della disposizione in menzione, rispetto al problema legato all'eventualità che il recesso datoriale, adottato a seguito del rifiuto del lavoratore ad accettare la trasformazione del rapporto, possa in realtà celare un intento ritorsivo. Ed invero, mentre l'ipotesi del licenziamento motivato dall'esigenza di trasformazione del rapporto di lavoro da part time in full time (o viceversa) va ritenuto ingiustificato perché adottato in violazione dell'art. 8,1 comma d.lgs. 81/2015 (vedasi ex multisCass., sez. lav., 30 ottobre 2023, n. 30093), il licenziamento intimato a seguito di rifiuto del part time da parte del lavoratore, ancorché formalmente ricondotto aa altre ragioni come il g.m.o. (per asserita crisi aziendale insussistente), va invece ritenuto ritorsivo in quanto mosso dall'intento esclusivo e determinante di eludere proprio il divieto di cui all'art. 8 d.lgs. n. 81/2015, attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta. L'onere probatorio sulla natura ritorsiva dell'atto di recesso datoriale ricade, in ogni caso, sul lavoratore, il quale nondimeno può assolverlo mediante la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere, con sufficiente certezza, la sussistenza di un rapporto di causalità tra le circostanze allegate e l'asserito intento di rappresaglia, che tuttavia deve aver avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso. Quanto al profilo sanzionatorio, il licenziamento ritorsivo risulta innegabilmente affetto da nullità, perché sorretto da un motivo illecito ai sensi dell'espresso disposto dell'art. 1345 c.c., tanto da poter rientrare, sotto tale profilo ed a pieno titolo, tra i casi di nullità espressamente previsti dalla legge, in applicazione del dettato dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, anche nella sua precedente formulazione antecedente all'intervenuta dichiarazione di incostituzionalità, di recente posta in essere dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 22/2024. Come è noto, infatti, il Giudice delle Leggi ha evidenziato l'incostituzionalità della locuzione “espressamente” contenuta nel testo del citato art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 per violazione della legge delega, così definitivamente fugando ogni dubbio in merito alla portata applicativa dell'estensione delle ipotesi di nullità a casi non espressamente previsti dalla legge. È stato, invero, affermato al riguardo come la limitazione della richiamata previsione della riforma alla sola nullità testuale apparisse eccentrica rispetto all'impianto della delega, che mirava ad introdurre per le nuove assunzioni una disciplina generale dei licenziamenti di lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, a copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidità. Oggi, dunque, il licenziamento per motivo ritorsivo certamente è annoverabile tra i casi di nullità che conducono alla tutela reintegratoria piena, come già accadeva in precedenza ed accade ancora per i casi di "vecchi lavoratori", assunti cioè nel vigore della disciplina dell'art. 18 l. n. 300/1970, come modificato dalla legge c.d. Fornero n. 92/2012. |