Licenziamento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato: rilevanza materiale del fatto ai fini disciplinari e assoluzione in sede penale

04 Ottobre 2024

La sentenza della Suprema Corte offre l'occasione per approfondire il rapporto tra procedimento disciplinare del pubblico dipendente adottato per fatti penalmente rilevanti oggetto di accertamento giurisdizionale in sede penale. Il commento ripercorre, in sintesi, la normativa rilevante e gli orientamenti giurisprudenziali in tema di efficacia del giudicato penale sul procedimento disciplinare.

Massima

In tema di rapporto di lavoro pubblico, ai fini dell'applicazione dell'art. 653 c.p.p., il giudicato penale di assoluzione (qualunque ne sia la formula) non determina automaticamente l'archiviazione del procedimento disciplinare e, anche nel caso di assoluzione perché il fatto penale non sussiste, la Pubblica Amministrazione datrice di lavoro, nel rispetto del principio della immutabilità della contestazione, può procedere disciplinarmente per fatti, magari rivelatisi inidonei alla condanna penale, che siano contenuti nell'ambito della originaria contestazione disciplinare.

Laddove il sopravvenuto giudicato penale copra integralmente tanto i fatti storici che l'elemento soggettivo cui la Pubblica Amministrazione datrice di lavoro ha attribuito rilevanza disciplinare, sussistono i presupposti per ritenere sussistente il carattere vincolante dell'accertamento in sede penale anche in quella civile ex art. 653 c.p.p.

Il caso

Opposizione del lavoratore al licenziamento per giusta causa intimatogli dal Comune per allontanamenti ingiustificati dal posto di lavoro, falsificazione delle timbrature e dichiarazioni di orari di servizio non veritieri

La Corte d'Appello di Genova, con sentenza del 28 ottobre 2023, n. 206, accoglieva il reclamo (ex art. 1, comma 58, della l. n. 92/2012) proposto da un agente della Polizia Locale del Comune di Sanremo contro la sentenza del Tribunale di Imperia n. 76/2022. Con tale decisione, la Corte annullava sia il provvedimento originario di licenziamento disciplinare emesso il 22 gennaio 2016, sia la conferma di tale licenziamento avvenuta il 15 maggio 2023, nell'ambito della nota vicenda scaturita dalle indagini circa le denunciate false attestazioni delle presenze in servizio ad opera di alcuni dipendenti del Comune. Il Comune di Sanremo veniva quindi condannato a reintegrare l'agente reclamante nel suo posto di lavoro e al pagamento dell'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra.

L'agente aveva impugnato il licenziamento per giusta causa intimatogli dal Comune di Sanremo, rilevando la violazione degli artt. 55-quater e 55-quinquies del d.lgs. n. 165/2001. Le accuse riguardavano le condotte, riscontrate all'esito di un'indagine penale, di falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con un'altra modalità fraudolenta, la timbratura in “abiti succinti” e la timbratura demandata a terzi.

L'impugnazione dell'agente era stata inizialmente respinta in primo grado (sia all'esito della fase sommaria che di quella a cognizione piena) e il lavoratore aveva presentato reclamo in appello.

La Corte d'Appello di Genova, nel decidere sul reclamo, rigettava l'eccezione sollevata dal Comune di Sanremo riguardo alla presunta carenza di interesse del reclamante. Tale eccezione si basava sull'emissione, il 15 maggio 2023, di un nuovo provvedimento di licenziamento, a seguito della riapertura del procedimento disciplinare richiesta dall'agente in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione in sede penale pronunciata dalla Corte d'Appello di Genova. La Corte stabiliva che, data l'unitarietà del procedimento disciplinare, l'impugnazione originaria si estendesse anche al nuovo provvedimento adottato.

Entrando nel merito, la Corte rilevava che il provvedimento del 15 maggio 2023 del Comune di Sanremo introduceva "con argomentazioni confuse" nuovi addebiti mai contestati prima e non coerenti con l'accusa originaria di falsa attestazione di servizio, violando così i limiti imposti all'Amministrazione Pubblica in caso di riapertura del procedimento disciplinare, ai sensi degli artt. 55-bis e 55-ter del d.lgs. n. 165/2001, che escludono la possibilità di introdurre nuovi fatti che implichino un disvalore diverso da quello già contestato.

Inoltre, la Corte evidenziava che le condotte contestate all'agente, come la falsa attestazione della presenza in servizio mediante alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze, erano le stesse già sottoposte al giudizio penale. Con il passaggio in giudicato della sentenza della Corte d'Appello di Genova, che aveva confermato l'assoluzione del lavoratore "perché il fatto non sussiste", la decisione assumeva valenza vincolante anche nel giudizio civile di impugnazione del licenziamento, in applicazione degli artt. 653 e 654 c.p.p.

Il Comune di Sanremo ricorreva in cassazione.

La questione

Rapporto tra giudizio penale e giudizio disciplinare

Si tratta di valutare quali siano i confini dell'ambito di applicazione dell'art. 653 c.p.p. e dell'art. 55-ter, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 165/2001 in caso di conflitto tra gli esiti del procedimento penale e quello disciplinare in tema di rapporto di lavoro pubblico.

La soluzione giuridica

L'incidenza del giudicato penale di assoluzione sul giudizio civile riguardo un provvedimento disciplinare non è automatica e assoluta

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Comune, confermando l'analisi della Corte d'Appello di Genova, sulla base delle seguenti argomentazioni.

Il venir meno della pregiudiziale penale nel pubblico impiego contrattualizzato (Cass. n. 33979/2022; Cass. n. 21193/2018 e Cass. n. 5284/2017) non ha comportato l'elisione della regola di cui all'art. 653 c.p.p. Questa norma conferisce efficacia di giudicato, nel giudizio disciplinare, alle sentenze penali irrevocabili di assoluzione o condanna, limitatamente all'accertamento della sussistenza o meno del fatto e della sua illiceità penale.

Per gestire eventuali conflitti tra gli esiti del procedimento penale e quello disciplinare, l'art. 55-ter, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 165/2001, prevede un meccanismo di raccordo: qualora il procedimento disciplinare si concluda con una sanzione e successivamente intervenga una sentenza penale irrevocabile di assoluzione, è prevista la riapertura, su istanza di parte, del procedimento disciplinare per modificare o confermare l'atto conclusivo (Cass. n. 29376/2018).

Tuttavia, la previsione dell'art. 653 c.p.p. non determina un effetto automatico di trasposizione della decisione penale sul procedimento disciplinare, operando il giudizio penale e il procedimento disciplinare su piani diversi sia fattualmente che giuridicamente. La Pubblica Amministrazione può, quindi, valutare autonomamente la rilevanza disciplinare dei fatti accertati in sede penale, anche se questi non costituiscono reato (Cass. 8410/2023 e 28943/2022). Ciò, secondo la Suprema Corte, per le seguenti ragioni:

  • la formula assolutoria che il fatto non costituisce illecito penale non vale a elidere la sussistenza in sè delle condotte, le quali, pur se penalmente neutre, ben potrebbero avere invece rilevanza disciplinare;
  • la statuizione penale di assoluzione perché il fatto non sussiste potrebbe non investire la totalità dei fatti oggetto della contestazione, conservando, quindi, i fatti rimasti al di fuori del giudizio penale autonoma valenza disciplinare.

Tra i precedenti giurisprudenziali che confermano tale assunto, la Corte richiama Cass. 3659/2021 che ha chiarito come l'accertamento contenuto nella sentenza penale passato in giudicato non preclude una nuova valutazione dei fatti in sede disciplinare, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, con il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità - e dunque, della ricostruzione dell'episodio opposto a fondamento dell'incolpa azione - operato nel giudizio penale.

D'altro canto, prosegue la Corte, se, da un lato, il giudice civile, investito dell'impugnazione della sanzione disciplinare, non è vincolato né alla valutazione degli elementi istruttori compiuti in sede penale, né al dictum della sentenza di assoluzione non definitiva, quand'anche pronunciata con la formula “perché fatto non sussiste”, dall'altro lato, l'assoluzione ai sensi dell'art. 653, comma 1, c.p.p., se passata in giudicato, impone al giudice del lavoro di conformarsi ad essa e consente, a richiesta, la riapertura del procedimento disciplinare, il cui esito, del pari, deve adeguarsi alla statuizione penale (Cass. n. 6660/2023).

Nel caso sottoposto al suo esame, secondo la Corte, la decisione impugnata si era pienamente conformata ai predetti principi, in quanto il giudice di secondo grado aveva verificato sia che la sentenza penale di assoluzione era stata adottata con la formula "perché il fatto non sussiste" e veniva quindi ad incidere sulla stessa materialità dei fatti (e non sulla sola non rilevanza penale degli stessi); sia che gli episodi oggetto della originaria contestazione disciplinare coincidevano integralmente con quelli oggetto dell'accertamento in sede penale; sia che degli elementi fattuali valorizzati nel successivo provvedimento del 15 maggio 2023 non era stata adeguatamente evidenziata l'autonoma rilevanza disciplinare rispetto all'originaria contestazione; sia che l'esclusione degli elementi costituitivi della fattispecie di reato non lasciava residuare altri elementi fattuali che consentissero di affermare un'autonoma rilevanza disciplinare delle condotte.

Osservazioni

La fattispecie riguarda il caso - simbolo dell'inchiesta “Stachanov” che aveva coinvolto diversi dipendenti del Comune di Sanremo nel 2016 (noti come i “furbetti del cartellino”) - del vigile urbano immortalato dalle microcamere della Guardia di Finanza mentre timbrava in deshabillé. Dopo sei anni di procedimenti giudiziari, civile e penali, il dipendente in questione veniva definitivamente assolto in sede penale dalla Corte d'Appello di Genova “perché il fatto non sussiste”. Tale assoluzione aveva riflesso sul giudizio di impugnazione del licenziamento, per effetto delle specifiche norme previste per il rapporto di lavoro pubblico.

Risonanza mediatica del caso a parte, la sentenza in commento è interessante perché affronta la dinamica applicativa del combinato disposto della norma sostanziale (art. 653 c.p.p.) e di quella di raccordo tra giudicato penale e procedimento disciplinare (art. 55-ter, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 165/2001), delineandone l'ambito di estensione e i confini interpretativi.

L'art. 653 c.p.p. prevede che, in caso di assoluzione, “La sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso” e che in caso di condanna “La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso”.

L'art. 55-ter, commi 2 e 3 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 detta le regole di gestione in caso di conflitti tra decisione disciplinare ed esito giudiziale penale disponendo che: “Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall'irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale.

Se il procedimento disciplinare si conclude con l'archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa”.

L'apparente automatismo normativo tra l'esito del giudicato penale e il provvedimento di chiusura del procedimento disciplinare in caso di condotte correlate poste in essere dal pubblico dipendente trova dei limiti che si potrebbero definire “interni” ed “esterni”.

I primi sono rinvenibili direttamente nella norma sostanziale (art. 653 c.p.p.) che chiarisce come il giudicato penale di assoluzione e di condanna abbiamo efficacia, quanto alla valutazione disciplinare, limitatamente alla sussistenza del fatto (materiale e giuridico) e, rispettivamente, all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso quanto alla sentenza di assoluzione e all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, quanto alla sentenza di condanna.

In relazione all'eventuale conflitto originato da una sentenza penale di assoluzione, la decisione della Suprema Corte in commento percorre il corretto ragionamento logico-giuridico che, concentrandosi proprio sulla valutazione del fatto, esclude un automatismo applicativo, ma opera alle seguenti condizioni:

  • la sentenza penale deve avere escluso la materialità delle condotte e non la sola rilevanza penale delle stesse, con la conseguenza che, anche nel caso di assoluzione perché il fatto non sussiste la esclusione della rilevanza penale delle condotte può assumere effetti diretti nell'ambito del procedimento disciplinare solo se la materialità delle condotte è sovrapponibile nei due procedimenti;
  • l'esclusione della materialità delle condotte di cui al giudicato penale deve avere ampiezza tale da non lasciar residuare elementi fattuali che comunque possano avere autonoma rilevanza disciplinare, dovendo in sostanza la fattispecie penale coincidere in tutti i suoi elementi con quella disciplinare oggetto della contestazione e senza, quindi, che quest'ultima costituisca un più ampio genus rispetto alla species della fattispecie penale;
  • gli episodi oggetto della sentenza penale devono quindi integralmente coincidere con quelli che sono stati oggetto della originaria contestazione disciplinare.

Quanto ai limiti “esterni”, l'accertamento definitivo di una condotta in sede penale non preclude una nuova valutazione da parte dell'Amministrazione datrice di lavoro dell'originaria contestazione disciplinare che può essere, confermata o rimodulata alla luce della specifica formula di assoluzione adottata in sede penale. Così, secondo la Corte di Cassazione, la formula “perché il fatto non costituisce illecito penale” non esclude che il medesimo fatto mantenga una rilevanza disciplinare-civilistica o la formula “perché il fatto non sussiste” potrebbe non estendersi al complesso delle circostanze e condotte oggetto di contestazione, conservando, quindi, autonomo spazio di valutazione in relazione ai fatti non rilevanti sotto il profilo penale.

In estrema sintesi, il giudicato penale di assoluzione (qualunque ne sia la formula) non determina automaticamente l'archiviazione del procedimento disciplinare e, anche nel caso di assoluzione perché il fatto penale non sussiste, l'Amministrazione datrice di lavoro, nel rispetto del principio della immutabilità della contestazione, può sicuramente procedere disciplinarmente per fatti, magari rivelatisi inidonei alla condanna penale, che siano contenuti nell'ambito della originaria contestazione disciplinare (si veda anche Cass. 33979/2022) secondo cui nulla impedisce all'Amministrazione di dimostrare la fondatezza della contestazione disciplinare avvalendosi degli atti del procedimento penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente).

Sotto tale ultimo aspetto, anche considerata la rivalutazione prevista dall'art. 55-ter, commi 2 e 3 d.lgs. n. 165/2001, il requisito della immutabilità si completa con una (apparente) deroga secondo cui il datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, può utilizzare, all'atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per circoscrivere meglio l'addebito, sempre nell'ambito di quello originario, sempre che al lavoratore, nel rispetto del diritto di difesa, sia consentito di replicare alle accuse così precisate (Cass. 11868/2016).

In realtà non di deroga si tratta, ma di naturale conseguenza della c.d. “unitarietà” del procedimento disciplinare proprio per effetto della norma sopra richiamata. La giurisprudenza di legittimità ha infatti avuto modo di precisare che nel pubblico impiego privatizzato, la riapertura del procedimento disciplinare disposta ai sensi dell'art. 55 ter, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, non comporta una violazione del principio del “ne bis in idem”, poiché, qualora non venga sospeso, il procedimento disciplinare resta comunque unitario sin dall'inizio, seppur articolato in due fasi, e termina solo all'esito di quello penale, di talché la sanzione inflitta nella fase iniziale ha natura provvisoria e non esaurisce il potere dell'Amministrazione che, dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale, in base agli identici fatti storici può infliggere una sanzione diversa e finale, che non si aggiunge alla prima, ma la sostituisce retroattivamente (Cass. 36456/2022).

Laddove, però, il sopravvenuto giudicato penale copra integralmente tanto i fatti storici che l'elemento soggettivo oggetto di contestazione disciplinare – come nel caso deciso dalla sentenza impugnata -, l'esclusione della materialità delle condotte (e non della sola rilevanza penale delle stesse), determina la vincolatività dell'accertamento in sede penale anche in quella civile ex art. 653 c.p.p. L'identica coincidenza sotto il profilo materiale e soggettivo della condotta alla base dell'incolpazione disciplinare e di quella penale ne determina, infatti, la necessaria coincidenza anche dell'esito disciplinare.

Da entrambe le conclusioni cui la Corte di Cassazione giunge con la sentenza in commento si può ricavare un allineamento dell'interpretazione sulle valutazioni disciplinari connesse ad accertamenti penali in tema di rapporto di lavoro pubblico con l'evoluzione di analoghi principi enunciati in tema di rapporto di lavoro privato.

Sotto il profilo dell'indipendenza delle valutazioni è, infatti, principio lavoristico consolidato nella giurisprudenza gius-privatistica che ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso (tra le molte, Cass. 34720/2021).  

In relazione all'efficacia esimente della decisione che esclude la legittimità del recesso in caso di “insussistenza del fatto materiale”, è altresì noto l'orientamento che include in tale accezione (anche di fonte normativa come nel caso dell'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015) non solo il fatto inesistente sotto il profilo del verificarsi, ma anche quello privo della “connotazione di illiceità, offensività o antigiuridicità necessaria da renderne apprezzabile la rilevanza disciplinare” (Cass. 30469/2023). Tale orientamento è di recente corroborato dall'intervento della Corte costituzionale che ha precisato come la tutela reintegratoria attenuata sia ammissibile nelle ipotesi in cui il CCNL preveda che specifiche condotte del lavoratore, pur disciplinarmente rilevanti, siano punite solo con sanzioni conservative. In tali ultimi casi, infatti, l'espressa pattuizione contrattuale collettiva fa sì che la sanzione espulsiva irrogata in luogo di quella conservativa prevista dal CCNL renda il recesso equiparabile a quello illegittimo per “insussistenza del fatto materiale” (sentenza n. 129, depositata il 16 luglio 2024).

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