Criteri di interpretazione del contratto, parere del CTU, impugnazione del lodo arbitrale
05 Giugno 2024
Massima
Il caso La controversia insorta tra appaltatore e committente di un appalto privato era stata decisa da un collegio arbitrale che aveva riconosciuto all'appaltatore somme varie per corrispettivo contrattuale e lavori extracontrattuali, rigettando sia le maggiori pretese dell'appaltatore sulla base della interpretazione del contratto di appalto, sia la domanda della committente per lavori contrattualmente previsti e non realizzati. Il lodo era stato impugnato ai sensi dell'art. 829 c.p.c. dall'appaltatore e l'impugnazione era stata respinta dalla Corte di appello adita. La Corte di Cassazione investita dal ricorso dell'appaltatore, superate alcune eccezioni processuali preliminari, ha rigettato il ricorso. La questione
La decisione
Le soluzioni giuridiche 1. Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha ribadito un orientamento costante relativo alla denuncia di vizio motivazionale ai sensi dell'art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. e ha affermato che l'omesso esame di fatti decisivi, oggetto di discussione tra le parti, non può risolversi nell'esposizione di mere argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio e invece costituisce un vizio specifico relativo all'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, inteso come un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile a questioni o argomentazioni. 2. La Suprema Corte ha esaminato poi un tema ricorrente relativo all'ammissibilità dell'impugnazione del lodo arbitrale rituale per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, per riconoscere, in primo luogo, che l'art. 829 c. 3 c.p.c. (come riformulato dall'art. 24 D.Lgs. 40/2006) si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 D.Lgs. 40/2006, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella (2 marzo 2006); precisa, peraltro, che per stabilire se sia ammissibile tale impugnazione, la legge, alla quale l'art. 829 c. 3 c.p.c. rinvia, deve essere identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato; la conseguenza è che, in caso di procedimento arbitrale radicato dopo il 2 marzo 2006 ma in forza di convenzione stipulata prima di tale data, è applicabile l'art. 829 c. 2 c.p.c. nel testo previgente, che ammette l'impugnazione del lodo per violazione delle norme inerenti al merito, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile. Di conseguenza, in difetto di pattuizione in deroga, in tali casi l'impugnazione per violazione delle regole di diritto inerenti al merito è consentita. 3. Quindi la Corte ha affrontato il tema delle regole ermeneutiche e in particolare di quella fondamentale dell'art.1362 c.c., per osservare che il dato testuale del contratto, pur importante, non è decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, perché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine di una processo interpretativo circolare, che non si deve arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extra-testuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un'espressione prima facie chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti. Pertanto l'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, deve ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti e verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti. 4. Infine la Corte con riferimento alla vexata quaestio dei rapporti fra giudice e consulente tecnico d'ufficio, ha ripetuto alla stregua del principio judex peritus peritorum che le valutazioni espresse dall'ausiliare non hanno efficacia vincolante per il giudice, che può legittimamente disattenderle soltanto attraverso una valutazione critica, ancorata alle risultanze processuali e congruamente e logicamente motivata. In particolare il giudice deve indicare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del consulente tecnico d'ufficio. Osservazioni 1. Il primo principio espresso in materia processuale dalla pronuncia in esame non fa che ribadire un orientamento del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità quanto all'interpretazione del mezzo di ricorso per vizio motivazionale di cui all'art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., come novellato dall'art. 54 DL 83/2012 conv., con modif., in L. 134/2012. Secondo tale orientamento, solidamente ancorato alle pronunce delle Sezioni Unite (Cass. SU 22 giugno 2017 n. 15486, Cass. SU 7 aprile 2014 n. 8053, Cass. SU 22 settembre 2014 n. 19881), il vizio di omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 Preleggi, nel senso della riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione; secondo tale formula, è denunciabile in Cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione. Inoltre, il predetto mezzo di ricorso per vizio motivazionale deve essere dedotto nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366 c. 1 n. 6 e 369 c. 2 n. 4 c.p.c. sicché il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività», fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Del tutto abituale in giurisprudenza è altresì l'affermazione che l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, si riferisce un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, e tali non sono mere questioni o argomentazioni (ex plurimis: Cass. SU 27 febbraio 2018 n. 16303, Cass. 4 luglio 2023 n.18886, Cass. 26 aprile 2022 n.13024, Cass. 16 marzo 2022 n. 8584, Cass. 26 gennaio 2022 n. 2268, Cass. 25 gennaio 2022 n. 2195, Cass. 11 gennaio 2022 n. 595, Cass. 13 gennaio 2021 n. 395, Cass. 14 giugno 2017 n. 14802). La stessa giurisprudenza chiarisce che non costituiscono fatti il cui omesso esame possa cagionare il vizio gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti; il fatto il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere decisivo, ossia deve essere tale da determinare un esito diverso della controversia. 2. Anche in ordine alla seconda questione la pronuncia in commento ha seguito il percorso scandito da un indirizzo giurisprudenziale costante, confortato dalla sentenza Cass. SU 9 maggio 2016 n. 9284 e avallato dalla Corte Costituzionale (C.Cost. 30 gennaio 2018 n. 13, poi ribadita con C.Cost. 21 febbraio 2019 n. 21). Secondo questa giurisprudenza, in tema di impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, l'art. 829 c. 3 c.p.c., come riformulato dall'art. 24 D.Lgs. 40/2006, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 D.Lgs. 40/2006, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella (2 marzo 2006). Tuttavia, per stabilire se sia ammissibile tale tipologia di impugnazione, la «legge», alla quale l'art. 829 c. 3 c.p.c., rinvia, deve essere identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato, sicché, in caso di procedimento arbitrale attivato dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina, ma in forza di convenzione stipulata anteriormente - nel silenzio delle parti è applicabile l'art. 829 c. 2 c.p.c. nel testo previgente, che ammette l'impugnazione del lodo per violazione delle norme inerenti al merito, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile (Cass. 19 aprile 2012 n. 6148, Cass. 3 giugno 2014 n. 12379, Cass. 18 giugno 2014 n. 13898, Cass. n. 745 e n.748 del 19 gennaio 2015; Cass. 28 ottobre 2015 n. 22007, e soprattutto Cass. SU 9 maggio 2016 n. 9284 e n. 9340, Cass. SU 9 maggio 2016 n. 9340 nonché per la diversa ipotesi dell'arbitrato societario Cass. SU 9 maggio 2016 n. 9285, poi successivamente Cass. 5 giugno 2018 n. 14352, Cass. 13 luglio 2017 n. 17339, Cass. 25 maggio 2021 n. 14370, Cass. 23 novembre 2022 n. 34467, Cass. 14 luglio 2014 n. 20209, Cass. 11 dicembre 2023 n. 34473). In sintesi, le ragioni di questo indirizzo si collegano al principio generale del nostro ordinamento, discendente dall'applicazione dell'art. 11 preleggi, secondo il quale:
3. Il terzo principio formulato circa la necessità di una interpretazione circolare non è invece espressione di un indirizzo del tutto incontrastato. Secondo la pronuncia in commento, il dato testuale del contratto, pur importante, non è decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, perché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine di una processo interpretativo circolare, che non si deve arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extra-testuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare. Infatti un'espressione apparentemente chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o se posta in relazione al comportamento complessivo delle parti. Pertanto l'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, deve ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti e poi verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti. Una simile linea di pensiero è stata espressa da numerose pronunce della Cassazione (Cass. 8 novembre 2022 n. 32786, Cass. 13 ottobre 2022 n. 30141, Cass. 10 maggio 2016 n. 9380, Cass. 1° dicembre 2016 n. 24560, Cass. 1° dicembre 2015 n. 24421, Cass. 11 gennaio 2006 n. 261 e, più cautamente, Cass. 8 marzo 2017 n. 5856). Persiste però nella giurisprudenza di legittimità la traccia, mai completamente obliterata, dell'antico broccardo «in claris non fit interpretatio», che preclude al giudice il ricorso a ulteriori strumenti ermeneutici quando dai termini usati dalle parti emerge con chiarezza e univocità la loro comune intenzione (Cass. 2 novembre 1995 , n. 11392, Cass. 29 settembre 1988 n. 5288, Cass. 7 marzo 2012 n. 3552). In numerose pronunce si è però messo in luce che il principio «in claris non fit interpretatio», non può essere inteso nel suo significato letterale, posto che al giudice del merito spetta sempre l'obbligo di individuare esattamente la volontà delle parti, e può operare solo quando il significato delle parole usate nel contratto sia tale da rendere, di per se stesso, palese l'effettiva volontà dei contraenti, sicché l'attività del giudice può limitarsi al riscontro della chiarezza e univocità del tenore letterale dell'atto per rilevare detta volontà e diventa inammissibile qualsiasi ulteriore attività interpretativa che condurrebbe il giudice a sostituire la propria soggettiva opinione alla volontà dei contraenti (ad esempio Cass. 15 maggio 1987 n. 4472, Cass. 20 gennaio 1984 n. 511). È pertanto superfluo qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale quando la comune intenzione dei contraenti sia chiara (Cass. n. 10967 del 26 aprile 2023) ma non è a tal fine sufficiente la chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, sicché detto principio non trova applicazione nel caso in cui il testo negoziale sia coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà dei contraenti (Cass. 9 dicembre 2014 n. 25840, Cass. 12 dicembre 2023 n. 34687). Il giudice ha quindi il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo ed immediato dalla dizione letterale del contratto, attraverso una valutazione di merito che consideri il grado di chiarezza della clausola contrattuale mediante l'impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il comportamento complessivo delle parti, in quanto la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l'integrazione (il senso complessivo) (Cass. 3 giugno 2014 n. 12360). 4. Con l'ultimo principio la Suprema Corte tratta il tema dei rapporti fra la decisione del giudice e il parere espresso dal consulente tecnico d'ufficio e ribadisce l'usuale insegnamento che le valutazioni espresse dall'ausiliare non hanno efficacia vincolante per il giudice in base al principio judex peritus peritorum; afferma tuttavia che il giudice può legittimamente disattendere il parere peritale soltanto attraverso una valutazione critica, ancorata alle risultanze processuali e congruamente e logicamente motivata, indicando gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici che suffragano la decisione contrastante. La giurisprudenza di legittimità ritiene che il giudice del merito non sia tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall'esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione; non è quindi necessario che egli si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le conclusioni tratte. In tal caso, le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive, che non possono configurare vizio di motivazione (Cass. 9 gennaio 2009 n. 282, Cass. 25 giugno 2014 n. 14471, Cass. 2 febbraio 2015 n. 1815, Cass. 19 giugno 2015 n. 12703, Cass. 9 ottobre 2017 n. 23594); non può invece esimersi da una più puntuale motivazione, allorquando le critiche mosse alla consulenza siano specifiche e tali, se fondate, da condurre a una decisione diversa da quella adottata (Cass. 13 dicembre 2006 n. 26694). Se è vero, infatti, che quando il giudice del merito aderisce al parere del consulente tecnico d'ufficio, non è tenuto ad esporne in modo specifico le ragioni poiché l'accettazione del parere, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce adeguata motivazione, non suscettibile di censure in sede di legittimità, ben potendo il richiamo, anche per relationem dell'elaborato, implicare una compiuta positiva valutazione del percorso argomentativo e dei principi e metodi scientifici seguiti dal consulente, diversa è l'ipotesi in cui alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori (Cass. 11 giugno 2018 n. 15147, Cass. 21 novembre 2016 n. 23637, Cass. 19 giugno 2015 n. 12703). Si afferma abitualmente altresì che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive. (Cass. 16 novembre 2022 n. 33742, Cass. 2 febbraio 2015 n. 1815, Cass. 3 aprile 2007 n. 8355, Cass. 24 aprile 2008 n. 10688). Qualora nel corso del giudizio di merito vengano espletate più consulenze tecniche in tempi diversi con risultati difformi, il giudice può seguire il parere che ritiene più congruo o discostarsene, dando adeguata e specifica giustificazione del suo convincimento; in particolare, quando intenda uniformarsi alla seconda consulenza, non può limitarsi a una adesione acritica ma deve giustificare la propria preferenza indicando le ragioni per cui ritiene di disattendere le conclusioni del primo consulente, salvo che queste risultino criticamente esaminate dalla nuova relazione. (Cass. 7 luglio 2021 n. 19372, Cass. 25 ottobre 2022 n. 31511). La più recente giurisprudenza di legittimità ha parzialmente rivisitato questi assunti alla stregua del nuovo testo dell'art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. e dello specifico vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, oggetto di discussione nel quale non è inquadrabile la censura concernente l'omessa valutazione di deduzioni difensive; in particolare si è affermato che la censura per omesso esame della sentenza che abbia recepito la consulenza tecnica, è consentita ove venga individuato un preciso fatto storico (o più precisi fatti storici), sottoposto alla dialettica del contraddittorio dalla difesa, legale o tecnica, di natura decisiva, tale cioè da ribaltare o modificare significativamente l'esito della lite, che il giudice del merito abbia omesso di considerare (Cass. 4 luglio 2023 n. 18886, Cass. 2 marzo 2023 n. 6322, Cass. 20 maggio 2022 n.16406, Cass. 16 marzo 2022 n. 8584, Cass. 13 ottobre 2020 n.22056). |