Licenziamento disciplinare: la recente sentenza n. 129/2024 della Corte costituzionale. Tra sentenze manipolatrici e interpretazione adeguatrice

08 Ottobre 2024

L'Autore esamina la sentenza n. 129/2024 della Corte costituzionale sotto tre profili: a) inquadramento (come sentenza manipolativa di tipo additivo di principio); b) argomentazioni (con l'esame delle critiche); c) efficacia della sentenza (con valore di mero precedente “autorevole”). Nella parte finale del saggio si esamina la possibilità che dalla sentenza n. 129/2024 derivi un “vincolo indiretto” per i giudici.

Premessa. Il caso

Il Tribunale di Catania, nell'ordinanza di rimessione, dava atto che, a seguito dell'istruttoria testimoniale e documentale disposta nel corso del giudizio, era emerso che, dei tre fatti in contestazione, solo due apparivano assumere carattere disciplinare e che tali addebiti risultavano punibili, ai sensi del CCNL applicato dalle parti, con sanzioni di tipo conservativo.

Rilevava, altresì, che era pacifica tra le parti l'applicazione del regime normativo di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 tenuto conto sia della data di assunzione del dipendente che del requisito dimensionale dell'azienda.

La fattispecie, quindi, non poteva essere ricondotta all'ambito applicativo del comma 2 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 (applicabile “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”) quanto piuttosto a quello del comma 1 del medesimo articolo, con conseguente esclusione della tutela reintegratoria richiesta dalla parte ricorrente (1).

Dovendo fare applicazione del 1 comma dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, il Tribunale di Catania dubitava della legittimità costituzionale del comma 2 della stessa disposizione nella parte in cui, accordando la  reintegra nell'unico caso dell'insussistenza del fatto materiale contestato, non ricomprendeva le ipotesi in cui il fatto, pur disciplinarmente rilevante, era punibile, in ragione della contrattazione collettiva applicabile, con una sanzione conservativa, anche di modesta entità, e per le quali, sebbene non risultasse compromesso il rapporto di fiducia, poteva operare la sola tutela economica con conseguente estinzione del rapporto di lavoro (2).

Veniva prospettato il contrasto con l'art. 3 della Costituzione (perché la disposizione censurata tutelerebbe in modo ingiustificatamente differenziato situazioni omogenee), con gli artt. 2,4,35 e 36 Cost. (perché dalla disposizione censurata deriverebbe una irragionevole lesione della dignità del lavoratore) e con gli artt. 21, 24, 39 e 41 della Cost. (perché dalla disposizione censurata deriverebbe una compressione del pieno e libero esercizio delle sue prerogative lavorative e sindacali e il superamento del limite posto all'iniziativa privata che non può svolgersi in modo da compromettere la dignità della persona).

Con la sentenza del 16 luglio 2024, n. 129 la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione, sollevata in riferimento ad un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un'interpretazione adeguatrice (3).

La Corte Costituzionale ritiene che si debba ammettere la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda che specifiche inadempienze del lavoratore, pur disciplinarmente rilevanti, siano passibili solo di sanzioni conservative.

La sentenza ha un rilevante impatto sistemico sull'ordinamento vigente. In particolare, nei paragrafi che seguono, verrà esaminato:

  1. L'inquadramento della sentenza nella tipologia delle sentenze della Corte costituzionale.
  2. L'interpretazione adeguatrice e gli argomenti della Corte.
  3. Gli effetti della sentenza.

Esaminiamo, in primo luogo, la tecnica decisoria.

L'inquadramento della sentenza nella tipologia delle sentenze della Corte costituzionale

La pronuncia in esame è stata definita come interpretativa di rigetto (“in quanto dalla disposizione impugnata si deduce un'interpretazione normativa diversa da quella desunta dal giudice a quo”), adeguatrice (perché la Corte ha elaborato direttamente una interpretazione della norma tale da renderla compatibile con i principi costituzionali) ed inclusiva (“perché riconduce nell'art. 3, comma 2, anche il riferimento alla contrattazione collettiva che la norma non prevede in alcun modo”) (4).

La tecnica decisoria della Corte costituzionale si è evoluta nel tempo.

Si è passati dalle tecniche decisorie, per così dire, tradizionali (le pronunce interpretative e le sentenze monito) alle decisioni manipolative (riduttive, additive, anche di principio, e sostitutive).

Le stesse sentenze manipolative si sono poi distinte in relazione al fattore tempo articolandosi:

a. per il passato, in sentenze di incostituzionalità differita e incostituzionalità sopravvenuta;

b. per il futuro in sentenze indirizzo e decisioni di incostituzionalità accertata ma non dichiarata.

Sono state applicate tecniche diverse (le cosiddette “sentenze miste” e a “dispositivo multiplo”), utilizzate decisioni pseudo-processuali (ordinanza di rinvio a data fissa) o, sotto il profilo del merito, sentenze c.d. a “rime obbligate”.

Un'evoluzione straordinaria (5) che, però, non è da tutti condivisa.

Si è parlato di pronunce “normative” (6) o, addirittura, di una Corte costituzionale come “giudice sovrano” (7).

Resta, comunque, necessario, al di là delle diverse opinioni, inquadrare correttamente la sentenza in esame.

Che si tratti di una sentenza interpretativa di rigetto è evidente. La scelta della Corte è, sotto questo profilo, condivisibile.

La Corte, ritenendo possibile una interpretazione adeguatrice, non ha condiviso l'approccio del giudice remittente che, in sostanza, chiedeva una decisione di accoglimento.

Si tratta, peraltro, di una sentenza manipolativa di tipo additivo di principio (8) .

La Corte costituzionale è perfettamente consapevole del fatto che l'eventuale scelta di “una” fra le norme possibili (idonee a sanare il vizio di legittimità) avrebbe potuto comportare un'invasione del campo creativo del Parlamento (ed, in fondo, della sua discrezionalità) o il potere ermeneutico dei giudici (che, al di là della posizione del giudice remittente, potevano essere in grado di colmare in via interpretativa, quando possibile, la lacuna della disposizione per enucleare, da essa, una interpretazione conforme a costituzione).

In questa difficile situazione, la Corte ha utilizzato una tecnica raffinata indicando non una “regola” ma un “principio” in grado di orientare non solo l'attività ermeneutica dei giudici ma, anche, la futura attività legislativa.

L'interpretazione adeguatrice e gli argomenti della Corte

La Corte ha, poi, utilizzato l'interpretazione adeguatrice che ha una valenza e portata peculiari rispetto all'ordinaria esegesi del giudice comune (9).

La Corte costituzionale, che non è vincolata a giudicare la disposizione legislativa così come interpretata dal giudice remittente, ha reinterpretato la disposizione censurata allo scopo di adeguarne il significato alla ratio constitutionis dalla Corte stessa accertata.

È vero che, nel caso delle sentenze interpretative di rigetto, la realizzazione della reductio ad legitimitatem è in concreto affidata ai giudici e dipende dalla loro adesione alla interpretazione adeguatrice indicata dalla Corte (10).

Va però evidenziato, fin d'ora, che tale interpretazione si accompagna ad un più o meno esplicito accertamento di incostituzionalità dell'interpretazione denunciata.

In sostanza, la sentenza interpretativa di rigetto ha almeno l'effetto di impedire ai giudici di dichiarare manifestamente infondata la questione relativa alla “norma” ricusata dalla Corte, ponendoli nell'alternativa di dover sollevare nuovamente tale questione o aderire all'interpretazione adeguatrice indicata nella sentenza interpretativa di rigetto.

Sempre, naturalmente, che non venga prospettata una “terza” soluzione interpretativa esente da dubbi di incostituzionalità.

In questo contesto, il punto di partenza nel ragionamento della Corte Costituzionale è stato, ovviamente, il dato letterale della disposizione impugnata.

Declinato in negativo.

Il comma 2, dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 non prevede “un'esclusione espressa” della rilevanza della valutazione convenzionale.

L'argomento esegetico non è, di per sé, risolutivo perché il confronto della disposizione dello Jobs act (art. 3, comma 2) con quella dell'art. 1, comma 42, lettera b) della legge n. 92/2012 induce a ritenere che la tutela reintegratoria, per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari, è ammessa, al di là di quelli nulli o discriminatori, solo in caso di insussistenza del fatto.

Ed in questo senso milita l'intenzione del Legislatore dell'epoca che aveva prospettato la tutela economica come rimedio generale.

Ma l'approccio esegetico era, comunque, indispensabile perché l'interpretazione adeguatrice ha la possibilità di esplicazione soltanto quando una disposizione abbia carattere “polisenso” e da essa sia enucleabile una “norma” compatibile con la Costituzione.

Accertato il carattere polisenso della disposizione impugnata, la Corte costituzionale ha valorizzato, nel contesto in esame, la rilevanza della contrattazione collettiva.

“La mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizione ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti”.

Affermazione supportata da due elementi.

Il primo luogo perché “la finalità della legge delega” non è quella “di sovrapporre la legge alla contrattazione collettiva”.

In secondo luogo, perché la generale previsione dell'art. 30, comma 3, della legge n. 183/2010 impone al giudice di valutare le tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi.

Tipizzazione, precisa la Corte, che “può ricorrere anche al negativo, nel senso che la contrattazione collettiva può stabilire, con riferimento a specifiche ipotesi, ciò che non può costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento”.

Affermazioni che parte della dottrina (11) censura laddove non si sarebbe tenuto conto della distinzione tra “il profilo dell'illegittimità dell'atto di licenziamento” (in relazione al quale rimane decisiva la previsione dell'autonomia collettiva) da quello del regime sanzionatorio (che, nell'intenzione del Legislatore dell'epoca, doveva essere attratto alla tutela indennitaria).

L'ultimo argomento utilizzato dalla Corte richiama la “simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata dalla Corte nella sentenza n. 128/2024 sulla linea del fatto materiale insussistente”.

In sostanza “un fatto assai lieve, tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione specifica” viene assimilato ad “un fatto materiale insussistente”.

Anche questa equiparazione viene contestata da una parte della dottrina (12) perché “la non veridicità di un fatto (la soppressione del posto) non è paragonabile a un fatto sussistente e per di più illecito”.

Altra dottrina (13), viceversa, sostiene che “la soluzione interpretativa accolta dalla Corte costituzionale si ricollega in maniera piuttosto evidente ai correttivi che erano già stati apportati alla categorica formula normativa dell'art. 3, comma 2, sul licenziamento disciplinare da parte della giurisprudenza di legittimità; la quale, nonostante l'intenzione del legislatore di limitare la previsione di reintegra alla sola mancanza degli elementi del “fatto materiale contestato”, aveva subito affermato il contrario, adottando sostanzialmente una interpretazione abrogatrice del nuovo disposto normativo”.

La Suprema Corte, in particolare, ha ritenuto che, pur nel mutato contesto normativo qualificato dall'espressa menzione della materialità del fatto, il perdurante riferimento alla “contestazione” e l'argomento logico razionale della assoluta sovrapponibilità della condotta materialmente esistente a  quella disciplinarmente irrilevante o non imputabile inducono ad adottare la medesima interpretazione già elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, quale diritto vivente, in modo da ricomprendere nell'insussistenza del fatto contestato “non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente” (14).

Resta il fatto che, al di là delle critiche rivolte alla sentenza della Corte costituzionale, la sentenza n. 129/2024 costituisce un “precedente” di assoluto rilievo per i giudici che dovranno esaminare casi simili (o identici).

Nei limiti e con i distinguo che occorre approfondire.

Gli effetti della sentenza. La tesi del “precedente autorevole” come regola

È affermazione costante nella giurisprudenza di legittimità (degli ultimi venti anni) quella che nessun vincolo giuridico si riconosce all'interpretazione imposta o suggerita dalla Corte costituzionale.

Tutt'al più in qualche occasione meno recente la Cassazione ha ravvisato la sussistenza di un vincolo indiretto o alternativo consistente nell'adeguamento o nella riproposizione della questione sulla scorta della tesi, un tempo dominante, enunciata in dottrina da Crisafulli, Elia e Zagrebelsky (15).

A partire dal 2004 anche l'idea di un vincolo indiretto o alternativo è esplicitamente rifiutata sia dalle sezioni Unite civili (16) che dalle sezioni unite penali.

In questo contesto, la sentenza Pezzella delle sezioni unite penali del 17 maggio 2004, n. 23016 costituisce una bussola per orientarsi nella materia.

Le sezioni unite, in primo luogo, ricordano come  la Corte costituzionale ha “propugnato da sempre la  teoria della interpretazione "adeguatrice", sollecitando costantemente i giudici ad esercitare il potere-dovere di ricostruire il contenuto e la portata delle disposizioni di legge ordinaria alla stregua dei principi della Costituzione, in modo da attribuire alle disposizioni, tra i plurimi significati astrattamente possibili, quello che non sia in contrasto con i valori costituzionali”.

L'interpretazione adeguatrice corrisponde ad un preciso ed ineludibile dovere del giudice, il quale è tenuto a ricavare dalle disposizioni interpretate, tutte le volte che ciò sia possibile, norme compatibili con la Costituzione.

Invero, il Giudice delle leggi ha precisato, a più riprese, che «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice  ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (sentenza 356/1966), specificando che i giudici non possono abdicare all'interpretazione adeguatrice (ordinanza 451/1994) e che, nell'adempimento del compito di interpretare le norme di cui devono fare applicazione, «di fronte a più possibili interpretazioni di un sistema normativo, essi sono tenuti a scegliere quella che risulti conforme a Costituzione» (ordinanza n. 121/1994).

In particolare, con riferimento alle sentenze “interpretative” della Corte costituzionale, le sezioni unite precisano che le stesse “rappresentano normalmente una forma di attività della Corte qualificabile come "maieutica", per la ragione che tendono ad enucleare principi e regole che l'ordinamento già contiene e non ad introdurvene di nuovi. Esse sono state considerate «espressione del principio di unità sistematica dell'ordinamento, che richiede che alle leggi sia attribuito il significato che ne consenta l'armonica integrazione con i contenuti costituzionali, in funzione adeguatrice delle prime ai secondi»: con la conseguenza che soltanto l'impossibilità di operare un tale adeguamento rende inevitabile la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata”.

È unanime in dottrina, ricordano le sezioni unite, l'opinione che “esclude il valore vincolante delle decisioni interpretative di rigetto, in quanto sprovviste dell'efficacia erga omnes attribuita dall'articolo 136, comma 1, della Costituzione alle sentenze che dichiarano l'illegittimità costituzionale di una norma di legge. Per rendersi conto dell'incontrovertibilità dell'affermazione basta osservare che, se a dette decisioni dovessero riconoscersi effetti vincolanti per i giudici, la Corte costituzionale sarebbe investita di un potere di interpretazione autentica che, nel sistema vigente, è riservato in via esclusiva al legislatore”.

Un primo intervento è segnato dalla sentenza n. 22/1995, ric. Clarke, con la quale, sulla scia del concorde orientamento della dottrina e della giurisprudenza penale e civile, è stato ritenuto che quelle decisioni sono prive dell'efficacia, erga omnes propria delle sentenze con le quali viene dichiarata l'incostituzionalità di  una disposizione di legge, ai sensi degli articoli 136 Costituzione e 30 della legge n. 87/1953, di talché è innegabile che le predette pronunce hanno valore di mero precedente (17)  e non vincolano il giudice, al quale è consentito discostarsi dall'interpretazione proposta dalla Corte costituzionale e sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale della identica disposizione di legge.

Nella sentenza Clarke è stato precisato, altresì, che soltanto nel giudizio a quo la sentenza interpretativa produce una preclusione endoprocessuale derivante «dal carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale e dall'imprescindibile nesso di necessaria pregiudizialità che lo lega al processo principale»: con la conseguenza che la medesima questione non può essere riproposta nello stesso giudizio e che al giudice a quo è definitivamente inibita l'applicazione della norma nell'interpretazione ritenuta incostituzionale (Corte costituzionale, ordinanza n. 268/1990).

Per una precisa esigenza di coerenza interna del sistema, dalla pronuncia interpretativa scaturisce un "vincolo negativo" ai poteri interpretativi del giudice che ha sollevato la questione giudicata non fondata, “nel senso che quest'ultimo non può attribuire alla disposizione di legge la portata esegetica ritenuta incostituzionale dalla Consulta, pur essendogli consentito di scegliere differenti soluzioni ermeneutiche, che, ancorché non coincidenti con quelle della sentenza interpretativa di rigetto, non collidano con norme e principi costituzionali”.

Tali notazioni, si legge nella sentenza Pezzella, “valgono a porre in luce un profilo di essenziale importanza: quello per cui, persino per il giudice a quo, le decisioni interpretative non producono vincoli, se non quello di carattere negativo che impedisce di applicare la norma nel significato giudicato incostituzionale.

Ne segue che l'allineamento alla soluzione accolta in tali decisioni postula da parte del giudice un'autonoma adesione, sì da giustificare l'applicazione della norma nella portata da essa assunta a seguito dell'intervento correttivo operato dalla Corte costituzionale”.

L'ordinamento vigente non permette, in definitiva, di configurare un limite più rigido di quello negativo o indiretto testé delineato, tanto più che sarebbe veramente incoerente ipotizzare nei confronti degli altri giudici condizionamenti più incisivi di quelli che sorgono a carico del giudice che ha sollevato l'incidente di costituzionalità.

Le sezioni unite hanno, infine, cura di indicare un mezzo per la prevenzione di conflitti derivanti dalle decisioni interpretative di rigetto.

I giudici, pur non essendo vincolati da decisioni di questo tipo, non possono, però, applicare la norma nel significato ritenuto contrario alla Costituzione, sicché, in caso di dissenso, sono tenuti a ricercare una diversa soluzione ermeneutica o, se ciò sia impossibile, a sollevare incidente di costituzionalità, rimettendo nuovamente la questione alla Corte.

Quest'ultima, poi, dovrà autonomamente scegliere se ribadire la precedente interpretazione o, re melius perpensa, modificarne la portata, ovvero dichiarare l'incostituzionalità della norma.

Un vero e proprio vademecum per orientarsi in una materia così complessa. Resta un ultimo problema da risolvere.

La sentenza n. 129/2024 rileva come “precedente autorevole” per i giudici comuni o possiede un grado di vincolatività superiore in virtù della simmetria, evocata nella stessa sentenza, con la coeva pronuncia n. 128?

La possibilità di configurare, nel particolare contesto in esame, un “vincolo indiretto” per i giudici

L'ultimo argomento utilizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 129/2024, come già riferito, richiama la “simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata dalla Corte nella sentenza n. 128/2024 sulla linea del fatto materiale insussistente”.

La Corte, nella sentenza n. 128/2024, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repechage).

In sostanza “un fatto assai lieve”, tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione specifica, viene assimilato ad “un fatto materiale insussistente”.

In questo contesto, in virtù di quella “simmetria” evocata dalla sentenza n. 129/2024 (tra sentenze di diversa natura; di accoglimento lan. 128, di rigetto interpretativa la n. 129) sorge il dubbio se il vincolo per il giudice comune sia solo “relativo” (quale precedente “autorevole”) o, viceversa, abbia una consistenza più accentuata (di vincolo indiretto) sulla base di quanto enunciato, sia pure in altro contesto, da  autorevole dottrina (18).

Vincolo indiretto che, in questo contesto, occorre precisare. In primo luogo, con riferimento all'ambito di applicazione.

Attenta dottrina ritiene possibile “una volta introdotta la reintegra per la fattispecie disciplinare tipica prevista con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva (…) riconoscere l'applicazione della medesima tutela reintegratoria anche per la fattispecie disciplinare lieve, ma prevista dalla contrattazione collettiva con formula elastica” (19).

Il tema è molto delicato e non si presta a soluzioni univoche.

Note

(1) Sulla ricostruzione dell'evoluzione della fattispecie del licenziamento disciplinare si veda G. AMOROSO, Articolo 18 statuto dei lavoratori, una storia lunga cinquant'anni, Bari, 2022, 161 ss.

(2) Sul tema si veda I. FEDELE, Il licenziamento disciplinare, in L. DI PAOLA (a cura di), Il licenziamento , Milano, 2024, 266 ss. 

(3) Per un primo commento alla sentenza n. 129/2024, v. I. FEDELE, Licenziamento disciplinare per fatto punito dal CCNL con sanzione conservativa: tutela reale anche nel Jobs Act nell'interpretazione adeguatrice della Corte costituzionale, in IUS Lavoro-Il Giuslavorista (ius.giuffrefl.it), 24 luglio 2024.

(4) Cfr. R. RIVERSO, Note di mezza estate sul jobs act in un mare di incostituzionalità: il caso del licenziamento disciplinare, in questionegiustizia.it, 10 settembre 2024.

(5) Sul tema si veda A. SPADARO, Involuzione o evoluzione ? del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive), in rivistaaic.it, 12 aprile 2023, n. 2.

(6) Cfr. A. RUGGERI, Verso una giustizia costituzionale di “equità”: quali i riflessi di ordine istituzionale?, in consultaonline.it, 17 settembre 2024.

(7) Cfr. G. VIDIRI, IL nuovo diritto del lavoro durante e dopo il Covid-19 tra “ideologie” e “giudici sovrani”, Torino, 2023, 29 ss.

(8) Sul tema si veda A. SPADARO, Involuzione o evoluzione ?, cit., 118-119. La tecnica delle sentenze c.d. “additive di principio” (che ha sollevato perplessità in dottrina, si veda, per tutti, C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, Torino, 2000, 137 ss.) costituisce una tecnica che ripropone la nota distinzione tra regole e principi. La Corte, invece di dettare una “regola” pone un “principio” che guida i giudici per individuare, per via ermeneutica, la soluzione al caso concreto con effetti solo inter partes. Nel contempo, pone una sorta di linea guida per il Legislatore per la futura produzione legislativa.   

(9) Come ricorda la sentenza n. 95/2024 della Corte costituzionale.

(10) Come meglio si dirà nei paragrafi che seguono.

(11) C. PISANI, Le sentenze gemelle della Consulta 2024 ampliative della reintegrazione: contenuti e criticità, in Lav. giur., nn. 8-9/2024, 773. Sul tema si vedano le osservazioni di R. DE LUCA TAMAJO, Le tecniche interpretative nel diritto del lavoro tra cognitivismo e bilanciamento “creativo”, in Riv. it. dir. lav., 2023, I, 498-500 che richiama le riflessioni di A. MARESCA, Licenziamento disciplinare e reintegrazione: l'irresistibile attrazione del Giudice per la valutazione della proporzionalità del licenziamento, in Lavorodiritti europa, 2023, 2, 1 ss. e C. ZOLI, Il difficile equilibrio tra potere legislativo nella stagione delle riforme, in Lavorodiritti europa, 2022, 3,12 ss.

(12) C. PISANI, Le sentenze gemelle della Consulta 2024 ampliative della reintegrazione, cit., 771.

(13) R. RIVERSO, Note di mezza estate sul jobs act in un mare di incostituzionalità, cit.

(14) Cfr. Cass. sentenza 8 maggio 2019, n. 12174, in IUS Lavoro-Il Giuslavorista (ius.giuffrefl.it) 29 luglio 2019, con nota di I. FEDELE.

(15) F. MODUGNO, La “supplenza” della Corte costituzionale (Relazione 2 presentata al convegno “Il ruolo del giudice: le magistrature supreme”, tenutosi nei giorni 18 e 19 maggio 2007 all'Università degli Studi Roma Tre, Facoltà di Giurisprudenza), in Scritti sull'interpretazione costituzionale, Napoli, 2009, 107 ss.

(16) Cass., sez. un., 26 giugno 2023, n. 18235.

(17) Come ricorda L. MENGONI (Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, 87) “La decisione è giustificata quando sia traducibile in termini dogmatici che la rendono comprensibile come deduzione da un concetto o da un principio sistematico, garantendone la coerenza con la razionalità globale dell'ordinamento e quindi l'idoneità a stabilizzarsi come modello di decisione di altri casi aventi la medesima struttura tipica”.

(18) L. ELIA, Sentenze interpretative di norme costituzionali e vincolo dei giudici, in cortecosituzionale.it, Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina, (a cura di D. DIACO), maggio 2016, 173 ss.  

(19) R. RIVERSO, Note di mezza estate sul jobs act in un mare di incostituzionalità, cit.

(20) Sul tema, si rinvia alle considerazioni del compianto F. MIANI CANEVARI, Interpretazioni delle clausole elastiche, in Interpretazione conforme, bilanciamento dei diritti e clausole generali, a cura di G. BRONZINI e R. COSIO, Milano,  2017, 305-332.

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