Riassunzione post regolamento preventivo: chiarimenti sulla disciplina transitoria della «Cartabia»

Mauro Di Marzio
09 Ottobre 2024

Riassunzione post regolamento preventivo: come opera la disciplina transitoria della «Cartabia»?

La riforma c.d. Cartabia riserva ancora qualche dubbio sulla applicabilità a cause pendenti alla data della sua entrata in vigore. Eccone un esempio.

La causa, una ordinaria causa civile di Tribunale, nasce con citazione notificata nel giugno 2022 e, dunque, è instaurata secondo il vecchio rito, con prima udienza fissata all'ottobre dello stesso anno. Instaurato il contraddittorio, si innesta sulla lite un regolamento preventivo di giurisdizione, richiesto da uno dei convenuti, che sostiene la devoluzione della controversia al giudice amministrativo, con conseguente istanza di sospensione del giudizio di merito, giudizio che viene sospeso ai sensi dell'art. 367 c.p.c.

Respinto dalle Sezioni Unite il ricorso nel 2024 e confermata la giurisdizione del giudice ordinario, occorre ora fare applicazione dell'art. 367, comma 2 c.p.c.: «Se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti devono riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza».

La norma non dice come la riassunzione debba essere operata, sicché si applica l'art. 125 disp. att. c.p.c., norma rimasta indenne dalla riforma, la quale appunto esordisce con lo stabilire che: «Salvo che dalla legge sia disposto altrimenti», e qui nulla dispone, «la riassunzione della causa è fatta con comparsa», secondo quanto previsto in dettaglio dalla norma. Ora, la comparsa in riassunzione deve tra l'altro contenere, da un lato, «l'indicazione dell'udienza in cui le parti debbono comparire, osservati i termini stabiliti dall'art. 163-bis», e dall'altro, specularmente; «l'invito a costituirsi nei termini stabiliti dall'art. 166».

Ed eccoci al punto: se ho introdotto la causa nel 2022 e la devo riassumere nel 2024, che termini devo dare al convenuto in riassunzione, chiamiamolo così?

Difatti, nel 2022 l'art. 163-bis (forse possiamo dire: il compianto art. 163-bis) prevedeva il termine a comparire di 90 giorni; oggi l'art. 163-bis "Cartabiato" prevede il termine a comparire di 120 giorni.

Specularmente, l'art. 166, che prevedeva in termine per la costituzione di 20 giorni, oggi fissa quello di 70. La questione è tutt'altro che banale, perché se sbaglio ed assegno al convenuto in riassunzione un termine inferiore a quello dovuto, e quello non si costituisce, tutto ciò che accade dopo è affetto da nullità (Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2007, n. 11869; Cass. civ., sez. VI, 5 novembre 2021, n. 32130).

Ebbene, qui potremmo soffermarci a ribadire quanto approssimativa sia stata la riforma: ed infatti, che senso può mai avere il rinvio all''art. 163-bis odierno, tarato sul balletto delle sei memorie, in una norma diretta a riattivare il processo in situazioni in cui il balletto si è chiuso da un pezzo? Ma parlare male della Cartabia è troppo facile, quindi andiamo avanti.

Per rispondere al quesito occorre por mente alla disciplina transitoria recata dalla riforma Cartabia, l'art. 35 del d.lgs. n. 149/2022, il quale stabilisce al comma 1, quello che nel caso di specie ci interessa, che: «Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti».

La norma (non sto a spiegare quale sia stato il suo travagliato iter al momento della nascita, perché non ci riguarda) costituisce per un verso applicazione del principio generale tempus regit actum, dettato dall'art. 11 delle Preleggi, laddove prevede l'applicazione della novella ai procedimenti instaurati successivamente all'entrata in vigore di essa, ma contempla al contrario l'ultrattività della disciplina abrogata per i procedimenti già pendenti alla medesima data.

Tale scelta è motivata da un intento di semplificazione, che discende dall'inettitudine del principio generale, tempus regit actum, alla piana risoluzione delle questioni che possono sorgere allorché, in pendenza del processo, vengono modificate le norme che lo regolano. Ciò in linea con un indirizzo risalente almeno al 1973, che si è tradotto nella tendenzialmente costante adozione del modello del «doppio binario», consistente appunto nella suddivisione del contenzioso nei due blocchi dei giudizi pendenti e di quelli instaurati successivamente all'entrata in vigore delle successive leggi di riforma, i primi assoggettati alle disposizioni previgenti, i secondi a quelle di nuova introduzione. La disciplina transitoria dettata dal d.lgs. n. 149/2022 si muove nella stessa linea, pur dettando in alcuni casi disposizioni particolari, su cui qui non interessa soffermarsi. 

Naturalmente, il riferimento alla pendenza della lite, come criterio distintivo della normativa applicabile, impone di stabilire in qual momento la lite possa dirsi pendente: ma, qui, non è il caso di dilungarsi nell'analisi delle diverse posizioni, giacché la giurisprudenza non nutre alcun dubbio sull'applicabilità, a tal riguardo, dell'ultimo comma dell'art. 39 c.p.c., secondo cui: «La prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione ovvero dal deposito del ricorso». E ciò vuol dire che un giudizio introdotto con citazione notificata, ad esempio, il 27 febbraio 2023 (e nel nostro caso siamo nel 2022) è soggetto al vecchio rito, quantunque il termine per la costituzione delle parti vada a collocarsi successivamente alla data di entrata in vigore della riforma.

Dopodiché, per rispondere al nostro quesito può essere utile cimentarsi con un caso in qualche modo simile: quello della Cassazione con rinvio ante riforma, con conseguente esigenza di introdurre il giudizio di rinvio, ai sensi dell'art. 392 c.p.c., dopo il 28 febbraio 2023.

Quantunque il punto non sia perfettamente chiaro nella mente di tutti gli operatori del diritto, avvocati e giudici, il giudizio di rinvio non va introdotto nelle forme previste per l'appello, non è un appello in sede di rinvio, ma in quelle, diremmo meno formali, più blande, richieste appunto dall'atto di riassunzione. Il punto è che il giudizio di rinvio, lungi dall'atteggiarsi quale nuovo appello contro la sentenza resa in primo grado dal tribunale, è tutt'altro: è la seconda fase, il seguito del giudizio di Cassazione. E cioè, il nostro sistema è congegnato in modo tale da affidare alla Corte di cassazione, almeno per regola, il solo compito di cassare, cioè di rescindere la pronuncia impugnata: di regola, come il lettore sa, perché da qualche anno abbiamo la c.d. cassazione sostitutiva, che si ha quando la Corte di cassazione cassa e decide nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti; poi ci sono altre ipotesi, ovviamente, in cui la Corte di cassazione cassa e il processo muore lì, ma questo ora non ci interessa.

Ebbene il giudizio di rinvio è la fase rescissoria susseguente al giudizio rescindente formulato dal giudice di legittimità: e d'altronde non vi è modo di costruire il giudizio di rinvio come seconda puntata dell'appello avverso la sentenza di primo grado, per la semplice ragione che la sentenza di primo grado non c'è più da tempo, in conseguenza del dispiegarsi dell'effetto sostitutivo, in forza del quale la pronuncia d'appello, quantunque poi cassata, si è appunto sostituita a quella impugnata (Cass. civ., sez. I, 17 novembre 2000, n. 14892).

In tal senso, la S.C. ha più volte ribadito che il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della pronuncia di secondo grado per motivi di «merito» non costituisce la prosecuzione della pregressa fase di merito, né è destinato a confermare o riformare la sentenza di primo grado: esso integra, piuttosto, una nuova ed autonoma fase che, pur soggetta, per ragioni di rito, alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria (nei limiti posti dalla pronuncia rescindente) ed è funzionale all'emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna precedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti (Cass. civ., sez. II, 31 maggio 2021, n. 15143).

Un qualcosa di simile alla situazione determinatasi al 28 febbraio del 2023 si è già verificato in passato. Un tempo, l'art. 163-bis c.p.c. (magari compianto ancora di più) fissava per la citazione introduttiva il termine a comparire, quello che oggi è di 120 giorni, di 60 giorni: dopo che nel 2005 il termine a comparire è stato elevato a 90 giorni si è posto il problema se il processo iniziato prima dell'elevazione del termine, nel quale fosse intervenuta una cassazione con rinvio, dovesse essere riassunto con citazione a comparire a 60 o a 90 giorni.

In proposito, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudizio di rinvio conseguente a cassazione, pur dotato di autonomia, non dà vita ad un nuovo ed ulteriore procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario da ritenersi unico ed unitario: da ciò consegue che, se il processo è iniziato prima della data indicata si applica il termine di 60 giorni, a nulla rilevando che al momento della notifica di tale atto il termine in questione sia stato elevato a 90 giorni (Cass. civ., sez. un, 17 settembre 2010, n. 19701). Ancora, nell'ipotesi di Cassazione con rinvio innanzi al giudice di primo ed unico grado, la sentenza del giudice di rinvio (salvo il caso di rinvio cd. restitutorio) è impugnabile in via ordinaria solo con ricorso per cassazione, senza che rilevi l'intervenuta modifica, sopravvenuta nelle more, del regime di impugnabilità della decisione cassata, atteso che il giudizio di rinvio conseguente a cassazione, pur dotato di autonomia, non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario (Cass. civ., sez. un., 9 giugno 2016, n. 11844). Nella stessa direzione, quanto alla concezione del giudizio di rinvio come mera prosecuzione del procedimento già incardinato che ha dato luogo alla pronuncia della sentenza cassata, si pone quella giurisprudenza di legittimità la quale ritiene che non sia necessario conferire una nuova procura al difensore che aveva assistito la parte in sede di legittimità per continuare l'attività di patrocinio in sede di rinvio (Cass. 1° aprile 2010, n. 7983) e sottolinea infine ― questo è l'aspetto che preme sottolineare, è per questo si diceva che l'atto di riassunzione non è modellato sull'atto d'appello ― che non è imposta, per la validità dell'atto di riassunzione, l'adozione della medesima precisione espositiva richiesta per l'atto di appello, essendo sufficiente il richiamo per relationem a detto atto ed al contenuto del provvedimento in base al quale avviene la riassunzione (Cass. civ., sez. VI, 20 dicembre 2022, n. 37200; Cass. civ., sez. III, 6 settembre 2012, n. 14932; Cass. civ., sez. III, 29 marzo 2006, n. 7243).

In fine dei conti, il quesito al quale ora rispondiamo è più semplice di quello or ora affrontato: qui abbiamo un giudizio di merito pendente dinanzi ad un tribunale dal 2022, che è semplicemente in stato di quiescenza: sta per così dire dormendo, per effetto del provvedimento di sospensione e, a seguito della decisione delle sezioni unite sul regolamento preventivo (che, ricordo incidentalmente, non è una impugnazione, tant'è che la sua proponibilità presuppone che la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado) con l'atto di riassunzione, bisogna soltanto svegliarlo, così da condurlo al suo fisiologico esito, ossia alla finale decisione.

Ergo, i termini a comparire e per la costituzione da assegnare sono i vecchi termini di cui agli artt. 163-bis e 166 c.p.c.: 90 e 20.

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