Nel processo esecutivo è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione
10 Ottobre 2024
Massima Una volta che il processo esecutivo sia iniziato, la cognizione delle opposizioni a esso relative spetta al giudice ordinario e deve escludersi la possibilità di proporre regolamento preventivo di giurisdizione, che va dunque dichiarato inammissibile. Il caso Nell'ambito di un'espropriazione immobiliare promossa nei confronti della Repubblica Federale di Somalia, quest'ultima proponeva opposizione all'esecuzione, deducendo l'impignorabilità degli immobili aggrediti dal creditore, in virtù dei principi di immunità giurisdizionale degli Stati esteri sanciti dalla Convenzione di New York del 2 dicembre 2004, trattandosi di beni adibiti a residenza dell'ambasciatore e, dunque, destinati all'esercizio delle funzioni sovrane, ovvero a finalità pubblicistiche. Il giudice dell'esecuzione dapprima disponeva la sospensione dell'esecuzione, ma poi la revocava e fissava il termine per l'introduzione del giudizio di merito, con provvedimento avverso il quale la Repubblica Federale di Somalia proponeva reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., nonché regolamento preventivo di giurisdizione. La questione La Corte di cassazione è stata chiamata a valutare l’ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione proposto avverso l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, all’esito della fase preliminare dell’opposizione svoltasi innanzi a lui, ha fissato il termine per l’introduzione del giudizio di merito. Le soluzioni giuridiche Con l’ordinanza che si annota, la Corte di cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, confermando un consolidato orientamento giurisprudenziale che nega l’esperibilità di tale rimedio nell’ambito del processo esecutivo e nei relativi giudizi oppositivi. Osservazioni Il regolamento di giurisdizione, disciplinato dall'art. 41 c.p.c., è uno strumento di carattere impugnatorio che consente di pervenire, attraverso una pronuncia resa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, a una decisione definitiva sulle questioni di giurisdizione, mediante una statuizione che può essere pronunciata senza dovere percorrere i gradi del processo attraverso le impugnazioni dirette al sindacato sulla giustizia e sulla legittimità delle sentenze. Inizialmente si riteneva che non vi fossero ragioni per escludere che il regolamento di giurisdizione potesse proporsi anche nell'ambito dell'esecuzione forzata: in questo senso, infatti, si sosteneva che, poiché il giudice avanti al quale si svolge un processo (di cognizione, cautelare o esecutivo) ha il potere e il dovere di rilevare il proprio difetto di giurisdizione, anche le parti sono legittimate a chiedere che sia emessa una statuizione sulla relativa questione, attraverso il regolamento di cui all'art. 41 c.p.c. Un tanto era affermato rilevandosi che la tutela giurisdizionale dei diritti non si esaurisce nei giudizi di cognizione, di accertamento e di condanna, ma trova il suo ulteriore svolgimento nell'esecuzione forzata, che avviene sotto il controllo del giudice e rappresenta pertanto uno degli ambiti nei quali si esplica la funzione giurisdizionale, finalizzata a realizzare coattivamente il diritto della parte istante fatto valere attraverso l'azione esecutiva: pertanto, poiché pure l'attività del giudice dell'esecuzione è, a tutti gli effetti, attività giurisdizionale, anche rispetto a essa possono configurarsi questioni di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, dei giudici speciali e degli stranieri. Con l'entrata in vigore della l. n. 353/1990, tuttavia, questo orientamento è stato abbandonato, dal momento che la nuova formulazione degli artt. 41 e 367 c.p.c. hanno fatto propendere per una lettura restrittiva – e non estensiva – della disciplina relativa al regolamento di giurisdizione, quale strumento deputato a trovare spazio nel solo processo di cognizione (così Cass. civ., sez. un., 26 ottobre 2000, n. 1139): nel fare riferimento alla causa destinata a essere decisa nel merito, infatti, l'art. 41 c.p.c. presuppone un processo destinato a svolgersi per gradi e nel cui ambito si innestano decisioni che hanno natura di sentenza, mentre l'art. 367 c.p.c., per indicare il giudice cui spetta emettere il provvedimento diretto a sospendere il processo, si riferisce a figure – il giudice istruttore e il collegio – proprie del processo di cognizione e non di quello esecutivo. D'altra parte, il giudice preposto alla direzione del processo esecutivo ha il potere di verificare che sussistano i presupposti processuali della tutela a lui domandata, ma non può decidere tali questioni con sentenza, sicché, quand'anche si discuta di difetto di giurisdizione e siano assunti provvedimenti che, ravvisandolo, chiudono il processo esecutivo, il loro regime giuridico, non è quello di una sentenza, anche per quanto concerne le impugnazioni avverso di essi esperibili. Lo strumento da utilizzare per contestare le decisioni assunte dal giudice dell'esecuzione in merito alla sussistenza o meno della propria giurisdizione è, dunque, quello dell'opposizione agli atti esecutivi, quale rimedio generale diretto a sindacare la legittimità dei provvedimenti assunti nell'ambito dell'esecuzione forzata. Lo stesso vale per i giudizi di opposizione all'esecuzione e agli atti esecutivi, mentre l'unica ipotesi in cui la giurisprudenza ammetteva la possibilità di proporre il regolamento di giurisdizione nell'ambito di un processo di esecuzione forzata, prima che le riforme del 2012 e del 2015 modificassero gli artt. 548 e 549 c.p.c., era rappresentata dal giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo: quest'ultimo, infatti, sebbene occasionato da un pignoramento presso terzi, configurava un vero e proprio giudizio di cognizione sull'esistenza del credito del debitore esecutato nei confronti del terzo pignorato, che si concludeva con una sentenza soggetta ai normali rimedi impugnatori, sicché non si reputavano applicabili le limitazioni alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione valevoli per il processo esecutivo (in questi termini, Cass. civ., sez. un., 17 luglio 2008, n. 19601). In altre parole, la peculiarità che caratterizzava il giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo previsto dall'art. 548 c.p.c., deciso con sentenza avente un duplice contenuto di accertamento – l'uno, idoneo ad acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale tra le parti del rapporto, avente per oggetto il credito del debitore esecutato nei confronti del terzo pignorato, l'altro, di rilevanza meramente processuale, attinente all'assoggettabilità del credito pignorato all'espropriazione forzata – e come tale destinato a non avere rilevanza limitata alla sola azione esecutiva, giustificava l'ammissibilità, rispetto a esso, del regolamento di giurisdizione. Ora, tuttavia, non è più così, dal momento che l'attuale art. 549 c.p.c., nell'attribuire allo stesso giudice dell'esecuzione il compito di effettuare gli accertamenti necessari al fine di stabilire l'esistenza o meno di crediti del debitore esecutato nei confronti del terzo pignorato, prevede che la relativa decisione venga assunta con un'ordinanza che, per espressa previsione normativa, produce effetti ai (soli) fini del procedimento in corso e dell'eventuale esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione. Con la pronuncia annotata, la Corte di cassazione conferma l'impostazione che concepisce la strutturazione del processo esecutivo come un sistema caratterizzato da strumenti e rimedi impugnatori tipici e suoi propri (rappresentati dalle opposizioni esecutive), dei quali la parte interessata deve necessariamente avvalersi, se vuole censurare o mettere in discussione le decisioni assunte dal giudice dell'esecuzione, anche in punto di sussistenza o meno tanto della giurisdizione, quanto della competenza. È ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, infatti, l'affermazione del principio per cui le decisioni del giudice dell'esecuzione relative alla propria competenza sono impugnabili dalle parti esclusivamente con l'opposizione agli atti esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c., quale rimedio generale attraverso il quale si contesta la regolarità degli atti dell'esecuzione forzata, mentre non è possibile proporre l'istanza di regolamento di competenza ai sensi dell'art. 42 c.p.c., né il giudice dell'esecuzione può sollevare d'ufficio conflitto di competenza ai sensi dell'art. 45 c.p.c. (in questi termini, da ultimo, Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2024, n. 18889). È vero, infatti, che anche la competenza in materia di esecuzione forzata si inserisce nel sistema della competenza in generale ed esige, quindi, la garanzia della possibilità del controllo immediato, ma quest'ultimo, sulla base di quanto disposto dall'art. 187 disp. att. c.p.c., si estrinseca, in prima battuta, sul provvedimento reso dal giudice dell'esecuzione che affermi o neghi la propria competenza, che resta dunque suscettibile di opposizione ex art. 617 c.p.c.; sarà, a quel punto, la pronuncia resa a definizione di tale opposizione – che l'abbia accolta o respinta, a seconda che sia stata, rispettivamente, condivisa o disattesa la valutazione del giudice dell'esecuzione negativa o affermativa della propria competenza – a essere impugnabile con il regolamento di competenza necessario. Così, debbono ritenersi censurabili con il rimedio di cui all'art. 42 c.p.c. le sole sentenze emesse all'esito dell'opposizione agli atti esecutivi con la quale sia stata impugnata la decisione assunta dal giudice dell'esecuzione che abbia statuito sulla competenza. Allo stesso modo, si esclude l'ammissibilità del regolamento di competenza avverso il provvedimento con cui il giudice dell'esecuzione nega la sospensione del processo esecutivo, sia perché la disciplina della sospensione del processo di esecuzione è soggetta a regole speciali, sottratte alle previsioni dell'art. 42 c.p.c., accordando il nostro ordinamento al debitore che subisce l'esecuzione forzata i più ampi strumenti di garanzia per ottenerne la sospensione, in presenza di un'illegittima iniziativa del creditore (potendosi chiedere la sospensione dell'esecutività del titolo al giudice avanti al quale esso è impugnato, ai sensi dell'art. 623 c.p.c., ovvero proporre opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c. o avverso gli atti del giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 617 c.p.c.), sia perché l'art. 295 c.p.c. disciplina la sospensione del processo di cognizione e non quello di esecuzione, cui fanno, invece, riferimento gli artt. 618 e 623 e ss. c.p.c. (così Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2023, n. 14091). Del resto, come osservato da Cass. civ., sez. un., 19 ottobre 2007, n. 21860, la sospensione del processo di cognizione di cui all'art. 295 c.p.c. è funzionale a evitare la formazione di giudicati contrastanti (e il rimedio apprestato dall'art. 42 c.p.c. mira a impedire che il giudizio sia sospeso al di fuori delle ipotesi nelle quali la sospensione è necessaria in presenza di un rapporto di pregiudizialità), mentre una tale eventualità non è predicabile nell'ambito di un processo esecutivo, quando sia proposta un'opposizione, dove la sospensione assume la funzione cautelare di assicurare gli effetti della futura decisione sull'opposizione proposta, che potrebbero risultare pregiudicati dalla continuazione dell'esecuzione. |