Licenziamento per g.m.o. e repêchage: quando può dirsi assolta l’offerta di ricollocazione del datore per un lavoratore con elevato inquadramento?

09 Ottobre 2024

La S. C., nel precisare i termini dell'obbligo datoriale di ricollocazione del lavoratore passibile di licenziamento per g.m.o., specifica quali tra le mansioni inferiori disponibili in azienda devono in concreto essere considerate. Il giudice sottolinea in particolare che, ai fini della legittimità del recesso, anche nel caso di lavoratore con qualifica di impiegato tecnico ed elevato livello di inquadramento l'offerta delle mansioni alternative deve estendersi a quelle operaie. In difetto, il datore di lavoro sarà tenuto nel processo ad una difficoltosa prova circa l'incompatibilità della posizione lavorativa disponibile con la professionalità del dipendente licenziato.

Massima

Non risulta assolto l'obbligo di repechage ove all'atto di licenziamento per g.m.o. risultino esistenti nell'organico aziendale mansioni inferiori, anche a termine, ed il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né comunque allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l'espletamento delle stesse mansioni.

Il caso

Un lavoratore, licenziato per g.m.o. a seguito della chiusura del reparto da lui diretto, impugna e contesta la legittimità del recesso.

Tizio, ingegnere, impiegato con ruolo di responsabile tecnico commerciale presso un'azienda manifatturiera operante nel settore delle costruzioni metalliche, è licenziato per giustificato motivo oggettivo.

Nello dettaglio, il datore di lavoro adduce a giustificazione del recesso la definitiva chiusura della sede lavorativa (un capannone locato per sviluppare il settore Composito) ove il dipendente prestava la sua attività, con la conseguente e, a dire del datore stesso,  inevitabile soppressione delle mansioni da questi svolte, unita all'impossibilità di provvedere alla ricollocazione all'interno dell'impresa.

Tizio impugna il licenziamento avanti il Tribunale, secondo l'apposito rito speciale.

Egli, in primo luogo, contesta sul piano formale i motivi di recesso espressi dal datore di lavoro: in considerazione della loro formulazione generica e dell'intervenuta mutazione nel tempo.

Nel merito, il lavoratore rivendica mansioni,  ruolo e qualifica affatto differenti rispetto a quelli considerati dall'impresa nel provvedimento di recesso; del pari contestando la sussistenza dell'esclusiva o comunque prevalente propria collocazione lavorativa presso il citato reparto dismesso.

Di quest'ultimo il ricorrente nega altresì la sostanziale operatività, in quanto lo stesso in verità non era mai stato completamente attivo e, comunque, era stato definitivamente chiuso due anni prima del suo licenziamento.

Nell'elenco delle ragioni di opposizione, il ricorrente include anche il mancato assolvimento da parte dell'azienda dell'onere di repêchage.

Il lavoratore soccombe in entrambe le fasi del primo grado di giudizio, così come in secondo grado.

I giudici di merito, in maniera tra loro concorde, ritengono infatti il licenziamento diretta conseguenza del reale riassetto aziendale realizzato dall'impresa, rigettando ogni motivo d'impugnazione, anche per il fatto che il lavoratore non aveva assolto l'onere di allegazione di ulteriori posti disponibili in azienda per la propria ricollocazione.

Il lavoratore ricorre allora alla S.C. denunciando, sotto più profili, l'illegittimità della pronuncia resa in appello nei suoi confronti.

La questione

Obbligo di repêchage: nozione, elementi costitutivi e conseguenze dell'inadempimento

Il datore di lavoro che intenda interrompere il rapporto di lavoro per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (licenziamento per GMO), ha l'obbligo non solo di provare la sussistenza di tali ragioni di carattere oggettivo ma anche di prospettare al licenziando un'opportunità di reimpiego in mansioni equivalenti o anche inferiori.

Secondo l'orientamento consolidato della Corte di legittimità, infatti, l'impossibilità di collocazione alternativa nell'azienda costituisce elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale.

Spetta al datore di lavoro l'onere di allegare e provare l'impossibilità di una soluzione conservativa del rapporto.

Quanto all'onere di allegazione, che deve avere ad oggetto la sussistenza di posti disponibili per un utile reimpiego del dipendente, si è osservato che pretendere che sia quest'ultimo ad esserne gravato, indicando dove e come egli potrebbe essere ricollocato all'interno dell'azienda, significherebbe invertire sostanzialmente il generale onere della prova in tema di licenziamento di cui all'art. 5 legge n. 604/1966.

Del resto, a normare ulteriormente la fattispecie interviene la regola processuale secondo la quale l'onere di allegazione e l'onere probatorio devono incombere sulla medesima parte in causa: nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione (cfr. Cass. 3 gennaio 2024, n. 87; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882Cass. 13 giugno 2016, n. 12101).

Nel panorama giurisprudenziale, nondimeno, possono tuttora annoverarsi pronunce di legittimità che affermano come il lavoratore debba comunque indicare o, quantomeno, allegare circostanze di fatto utili a far presumere l'esistenza in azienda  di posizioni di lavoro nelle quali avrebbe potuto essere utilmente impiegato in alternativa al recesso (cfr. Cass.10/05/2016, n. 9467; Cass. n.4299/2013; Cass. n.3040/2011).

Su di un piano più generale, va comunque ricordato che l'onere di repêchage ha come limite “la ragionevolezza dell'operazione, che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall'imprenditore” (così, tra le altre, Cass. 31521/2019).

La verifica dell'impossibilità del repêchage deve essere fatta con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento (Cass. 23 novembre 1998, n. 11312).

L'onere del datore di lavoro essenzialmente si concreta nella prova - di carattere presuntivo ed indiziario - che dopo il licenziamento e per un congruo periodo (quantomeno, secondo la prassi giudiziaria corrente, sei mesi) non vi siano state nuove assunzioni nella stessa posizione del lavoratore licenziato, reputandosi la circostanza come indice d'inesistenza di mansioni attribuibili al lavoratore licenziando (Cass. 13 novembre 2023, n. 31561; Cass., 19 gennaio 2012, n. 775).

L'ambito dell'accertamento si ritiene debba essere esteso all'intera azienda e non alla sola sede o reparto cui era addetto il lavoratore (Cass., 2 ottobre 2006, n. 21282) e addirittura debba ricomprendere le società facenti parte del medesimo gruppo quando si dimostri la sussistenza di un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici (Cass., 16 maggio 2003, n. 7717).

Quanto al controllo giudiziale, la regola ermeneutica dettata in tema di clausole generali dall'art. 30 legge n.183/2010 impone che il giudice sia chiamato ad accertare esclusivamente la sussistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento, con valutazione che non può essere invece estesa al merito delle scelte tecniche, organizzative e produttive, che competono soltanto al datore di lavoro.

Pertanto, la scelta imprenditoriale di soppressione del settore lavorativo o del reparto o posto di lavoro a cui era addetto il dipendente estromesso non è sindacabile se non sul piano dell'effettività del riassetto organizzativo e della concreta esistenza di un nesso causale tra quest'ultimo ed il licenziamento operato (Cass. n.17219/2020; Cass. n.4672/2019; Cass. n.19655/2017).

Stante il potere del datore di lavoro di disporre, e la facoltà dei lavoratori di accettare, mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento, la prova dell'impossibilità di repechage va fornita anche con riferimento a tali subordinate mansioni.

La prova diviene ora più rigorosa in forza del novellato art. 2103 c.c.

Un distinguo al riguardo è opportuno: l'assegnazione di mansioni alternative appartenenti a un livello di inquadramento immediatamente inferiore, nel rispetto del limite della categoria legale, non richiede il consenso del lavoratore qualora sia imposta da una "modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore" (art. 2103, comma 2, c.c.) ovvero espressamente prevista dalla contrattazione collettiva (art. 2103, comma 4, c.c.); nelle situazioni in cui il demansionamento è più marcato (superando un singolo livello di differenza) ed avviene soltanto al fine di evitare il recesso (art. 2013, comma 6, c.c.), occorrerà invece il consenso del lavoratore, espresso in sede protetta, divenendo pertanto opportuna una formale offerta della mansione inferiore al medesimo.

L'offerta di un eventuale posto alternativo deve essere fatta prima di procedere al licenziamento. La giurisprudenza, infatti, ritiene che il rifiuto del dipendente della posizione proposta successivamente al recesso non comporti l'adempimento dell'obbligo di repêchage (Cass. 30/05/2017, n. 13606).

Il mutamento di mansioni, quantomeno quello disposto nell'interesse del datore di lavoro (commi 2 e 4 citt.) va accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo (art. 2103, comma 3, c.c.), purché nell'ambito di un equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi in gioco: da un lato, la conservazione del posto di lavoro; dall'altro, la libertà di gestione dell'impresa.

La S.C. ha precisato infatti che l'obbligo datoriale di repechage è limitato alle mansioni compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento e che non necessitino di una specifica formazione che lo stesso non abbia (Cass. 20/6/2024, n.17036; in continuità con Cass. n.21579/2008; n.23698/2015; n. 9467/2016 ).

Il datore di lavoro, in buona sostanza, non ha un obbligo di formazione nei confronti del dipendente per adibirlo a mansioni inferiori, non essendo tenuto a sopportare costi che non siano da lui decisi in funzione dell'interesse dell'impresa.

La mancata prova dell'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore determina l'illegittimità del licenziamento “per insussistenza del fatto” e, in ragione del mutato assetto normativo di cui all'art. 18 legge n. 300/1970 quale definito dalle sentenze della Corte Cost. n. 59/2021 e n. 125/2022, la tutela applicabile è ora quella reintegratoria (cfr., Cass. 18 novembre 2022, n. 34049Cass., 2 dicembre 2022, n. 35496Cass. 13 novembre 2023, n. 31409).

Al contrario, per i lavoratori ai quali si applica il Jobs Act, la recente sentenza  della Corte Costituzionale in data 16 luglio 2024, n.128 – che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 3, 1° e 2° comma, D. Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui, in presenza dei prescritti requisiti dimensionali aziendali, non prevede la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – ha confermato che qualora il recesso sia illegittimo per violazione dell'obbligo di repêchage dovrà trovare applicazione la sola tutela indennitaria.

Le soluzioni giuridiche

La S. C., riepilogando i principi correnti in tema di repêchage, precisa quando può dirsi assolta l'offerta di ricollocazione per un lavoratore con elevato inquadramento.

Dopo aver descritto le caratteristiche dell'obbligo di repêchage nella fattispecie del g.m.o. di licenziamento, cerchiamo ora, sulla scorta della pronuncia di legittimità commentata, di dare maggiore concretezza al concetto: circoscrivendo l'ambito delle mansioni rispetto alle quali possa effettivamente esigersi l'offerta di ricollocazione al dipendente licenziando.

Nell'occasione, la Corte di cassazione, accogliendo uno tra i motivi di ricorso del lavoratore, annulla la decisione di merito ritenendo sussistere il mancato assolvimento dell'onere di ricollocazione da parte del datore di lavoro.

La questione è affrontata con specifico riferimento alle inferiori mansioni di operaio, diverse e distinte da quelle impiegatizie, di alto livello, attribuite in corso di rapporto al dipendente stesso il quale, peraltro, quale impiegato tecnico era altresì in possesso del titolo professionale di ingegnere.

La soluzione demolitoria degli ermellini si fonda sulla ritenuta contrarietà all'ordinamento delle tesi sostenute dalla Corte territoriale, in particolare per quanto attiene a due fondamentali principi in materia di repechage.

In primo luogo,  l'onere della prova sull'impossibilità di reimpiego è a carico del datore di lavoro, mentre sul lavoratore non grava alcun onere, neppure di allegazione (il collegio richiama in proposito la recente propria ord. n. 2739 del 30/01/2024).

In secondo luogo, tale onere si estende anche alle mansioni inferiori, sicché il datore è tenuto a provare che al momento del licenziamento non esiste nessuna altra posizione lavorativa in cui può utilmente ricollocarsi il licenziando, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento (Cass. 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 11 giugno 2014, n. 13112; Cass. 24 giugno 2015, n. 13116).

In corso di giudizio era infatti emerso, dalle dichiarazioni del legale rappresentante della società datrice di lavoro espresse nel corso dell'interrogatorio libero, che al momento del licenziamento esistevano in azienda collocazioni alternative in mansioni inferiori, di natura operaia. Nell'atto di licenziamento era stato invece detto il contrario.

A fronte dell'esistenza di mansioni inferiori, osserva la Corte, il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, avrebbe dovuto offrire la mansione alternativa al lavoratore, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non fosse stata accettata dal lavoratore (vengono a tal fine richiamati i seguenti numerosi precedenti: Cass. ord. n. 31561 del 13/11/2023, Cass. n. 10018 del 2016; Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019).

In mancanza di tali condizioni, prosegue la pronuncia, per sottrarsi all'annullamento del licenziamento il datore avrebbe dovuto allegare e provare, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili ed avuto riguardo alla specifica condizione ed alla intera storia professionale del ben individuato lavoratore, che lo stesso non rivestiva le competenze professionali richieste per l'espletamento di mansioni contrattualmente inferiori (cfr. ancora Cass. n. 31561 del 13/11/2023, Cass. n. 6497/2021).

Nel caso di specie, afferma la Corte, il datore non l'ha fatto, né ha allegato e provato perché non l'ha fatto.

Al riguardo, la S. C. censura l'erroneo approccio del giudice di merito che, nel riparto degli oneri di allegazione e prova del repêchage, ha imposto al lavoratore un onere di allegazione non dovuto.

Quanto alla particolare e decisiva circostanza della disponibilità in azienda di sole mansioni operaie, in luogo di quelle impiegatizie coerenti con il profilo professionale del lavoratore interessato,  l'ampiezza delle competenze rivestite da quest'ultimo conduce il giudicante a ritenere che nella specie era onere del datore di lavoro dare prova che lo stesso dipendente non potesse svolgere tali mansioni sottordinate.

Irrilevanti è per contro ritenuto il fatto che successivamente al licenziamento siano state fatte in azienda soltanto delle assunzioni a termine.

Quello che invece è determinante, conclude la Corte, è che il lavoratore sia stato licenziato in violazione dell'articolo 3 legge 604/1966, pur essendovi all'atto del recesso delle posizioni di lavoro alternative ancorché in mansioni inferiori (anche a tempo determinato) e non sia stata effettuata alcuna offerta di lavoro (né a tempo indeterminato, né a tempo determinato) per la ricollocazione in queste mansioni.

Osservazioni

Ormai affermatosi il principio giurisprudenziale (originato da Cass., Sez. Un., n. 7755/1998) secondo cui l'onere di provare l'impossibilità di ricollocare il lavoratore da licenziare non può limitarsi alla possibilità di svolgere mansioni comunque equivalenti a quelle precedentemente espletate, dovendo estendersi all'impossibilità di svolgere mansioni inferiori, la casistica giudiziaria presenta tuttora situazioni nella quali non risulta facile stabilire le modalità attuative ed limiti di tale onere datoriale.

Nell'occasione la S.C., valutando il caso di un ingegnere, impiegato di alto livello con qualifica di responsabile tecnico commerciale, licenziato per la soppressione del reparto al quale egli era preposto, ha ribadito che neppure le mansioni tipiche di una diversa e distinta categoria di lavoratori (nella specie, quella degli operai) si sottraggono all'operazione volta alla salvaguardia dell'occupazione in favore del dipendente divenuto in esubero.

Ragion per cui il datore di lavoro in simili circostanze, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prima di dar corso ed al fine di evitare il licenziamento deve offrire al lavoratore, tra le altre, anche le mansioni più diverse e dequalificate rispetto a quelle dallo stesso ricoperte.

Ove a ciò non provveda, lo stesso datore di lavoro nel successivo processo sarà gravato di un aggiuntivo ed assai difficoltoso onere probatorio: dimostrare che tale lavoratore, per specifica formazione e condizione lavorativa, e quindi con riferimento alla sua storia professionale, non possedeva le competenze professionali richieste per l'espletamento delle mansioni inferiori per lui disponibili.

In altri termini, gli ermellini, pur riconoscendo che l'obbligo di repêchage incontra il limite della compatibilità del posto di lavoro disponibile in organico con la professionalità del lavoratore, riaffermano la regola processuale per la quale tale incompatibilità deve essere dimostrata attraverso circostanze oggettive fornite dal datore di lavoro.

In caso contrario, afferma la Corte, si lascerebbe l'adempimento dell'obbligo suddetto alla sola volontà del datore di lavoro, che potrebbe decidere sulla scorta di valutazioni che non potrebbero essere sindacabili nella loro effettività e veridicità (sul punto, costituiscono precedenti specifici Cass. n. 31451/2023; Cass. n.23340/2018; Trib. Roma, sez. lav., 24/08/2020, n.4674).

Trattasi, evidentemente, di una soluzione che apparentemente contrasta con il c.d. principio di prossimità o vicinanza della prova (il quale, ricordiamo, prevede che l'onere probatorio debba essere ripartito tenendo conto della possibilità concreta per l'una o per l'altra parte in causa di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione) ma che, in coerenza con la regola generale di cui all'art. 5 legge n.604/1966, si giustifica in ragione dell'onere posto in via esclusiva a carico del datore di lavoro di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di recesso.

Pertanto, riepilogando i dettami della S.C., per evitare la declaratoria d'illegittimità del licenziamento il datore di lavoro in concreto deve: da un lato, indicare e documentare quali sono le mansioni eventualmente presso di sé disponibili per la ricollocazione del lavoratore, anche inferiori e proprie di una diversa categoria; dall'altro, dimostrare di averle inutilmente offerte al dipendente prima del licenziamento oppure fornire al giudice circostanze oggettive, precise e riscontrabili che consentano a questi di verificare se le capacità e le esperienze professionali possedute dal licenziato fossero davvero tali da precludergli di essere impiegato in tali alternative mansioni.

Le difficoltà probatorie sono poi ulteriormente aumentate dal fatto che l'impossibilità di repêchage va dimostrata anche per le posizioni esistenti in unità diverse da quella di appartenenza del lavoratore licenziando, dunque in tutte le unità produttive dell'impresa datrice di lavoro, quantomeno in quelle poste sul territorio nazionale.

Infine, un'ultima questione: se all'adibizione a mansioni inferiori possa conseguire la diminuzione della retribuzione, dato il nuovo livello di inquadramento; o se, per contro, il lavoratore abbia diritto di conservare quella di provenienza.

Anche su tale punto la novella legislativa dell'art. 2103 c.c. sembra suggerire una linea interpretativa.

Il nuovo comma 2 della disposizione prefigura invero un mutamento di mansioni nell'interesse datoriale – purché al livello contrattuale immediatamente inferiore a quello ricoperto dal lavoratore - il quale però, all'occorrenza, può atteggiarsi anche come un mutamento di mansioni nell'interesse del lavoratore, altrimenti destinato al licenziamento.

In tale ipotesi, è la stessa norma pertanto ad imporre per tale mutamento in peius la conservazione del trattamento retributivo in godimento.

Qualora invece le mansioni disponibili siano inferiori per più di un livello a quelle svolte, il reinserimento in esse dovrà essere formalizzato secondo le modalità del comma sesto dell'art. 2103 c.c., quindi col consenso del lavoratore e in una delle sedi di assistenza previste dall'ordinamento.

In questo caso, la modifica peggiorativa sembra poter attenere sia alle mansioni che al correlativo trattamento economico, stante la precipua finalità dell'accordo di salvaguardia dell'occupazione.

G. Di Paola, Il licenziamento, Milano, 2024, pagg. 296 ss.

G. Amoroso – V. Di Cerbo – A. Maresca, Il lavoro privato, Milano, 2022, pagg. 2374 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.