Orario di lavoro e diritto alla pausa: la Cassazione individua i presupposti dell’erogazione del buono pasto
11 Ottobre 2024
Massima Il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore; proprio per la suindicata natura il diritto al buono pasto è strettamente collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono Il caso I presupposti dell'erogazione di buoni pasto al lavoratore. Il caso alla base della decisione in commento riguarda il mancato riconoscimento di alcuni buoni pasto ad una lavoratrice dipendente di una azienda ospedaliera. La prestatrice di lavoro, vistasi costretta a provvedere a proprie spese ad acquistarsi il pranzo in occasione dei turni lavorativi eccedenti le sei ore, ricorreva al Giudice del lavoro, per ottenere una pronunzia che accertasse il proprio diritto all'erogazione dei buoni pasto e per ottenere il risarcimento del danno, fatto coincidere con le spese affrontate per provvedere al vitto. La questione Il legame esistente tra diritto alla pausa e diritto alla mensa. Le domande della lavoratrice trovano pieno accoglimento e la decisione del Tribunale in funzione di Giudice del lavoro viene confermata anche dopo il secondo grado di giudizio. Per i giudici del merito, le norme rilevanti al fine di risolvere la controversia sono costituite dall'art. 29 del CCNL del comparto sanità del 20 settembre 2001 (integrativo del contratto collettivo del 7 aprile 1999) e dall'art. 8 del D.lgs.n°88 del 2003. In particolare, l'art. 29 del citato contratto afferma, al comma 2, che tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, hanno diritto alla mensa nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell'orario. L'art. 8 del D.lgs.n°88 del 2003 riconosce invece il diritto del lavoratore a beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto; tale diritto ricorre, secondo la medesima disposizione, qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore. Il combinato disposto dei due articoli appena richiamati induce tanto il Tribunale quanto la Corte d'appello a ritenere che il diritto alla mensa doveva essere identificato con il diritto alla pausa e che il diritto alla mensa doveva riconoscersi a tutti i dipendenti che effettuavano un orario di lavoro giornaliero eccedente le sei ore. Nel caso di specie, la dipendente svolgeva le proprie mansioni su turni di durata differenziata, secondo lo schema 7.00/13.00, 13.00/20.00 e 20.00/7.00. Il diritto alla mensa non poteva dunque essere riconosciuto nelle giornate in cui era svolto il solo turno mattutino, avente una durata pari ma non eccedente la soglia delle sei ore; una conclusione di segno opposto valeva ovviamente per le giornate nelle quali erano espletati il turno pomeridiano o il turno notturno. Considerato poi che la lavoratrice, adibita a mansioni di assistenza, non aveva potuto usufruire del servizio mensa organizzato dall'Azienda Ospedaliera, in quanto attivo solamente in orari non compatibili con lo svolgimento dei compiti assegnati, doveva conseguentemente essere affermato il diritto al percepimento di buoni pasto. Le sentenze del primo e del secondo grado di giudizio affermano altresì la ricorrenza del diritto della lavoratrice al ristoro dei danni subiti, quantificati negli esborsi sostenuti dalla predetta per l'acquisto dei pasti in occasione delle giornate in cui aveva effettuato una prestazione lavorativa eccedente le sei ore. L'Azienda Ospedaliera ricorre per Cassazione denunziando la violazione e/o la falsa applicazione proprio dell'art. 29 del CCNL del comparto sanità del 20 settembre 2001 e dell'art. 8 del D.lgs.n°66 del 2003. In particolare, il datore di lavoro deduce che secondo la norma contrattuale il criterio per riconoscere il diritto alla mensa va individuato nell'impossibilità, in relazione alla articolazione dell'orario di lavoro, di pranzare fuori dall'ambiente di lavoro, mentre la dipendente avrebbe potuto consumare i pasti prima di iniziare il turno pomeridiano o quello notturno. Ancora, secondo l'Azienda Ospedaliera l'art. 8 del D.lgs.n°88 del 2003 riconosce e disciplina esclusivamente il diritto alla pausa e non anche quello alla mensa, essendo soltanto una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa. Detta interpretazione sarebbe confortata dall'art. 45 del CCNL 14 settembre 2000 (invero riguardante il personale del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali), a mente del quale possono usufruire della mensa i dipendenti che prestano attività lavorativa di mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane. Le soluzioni giuridiche L'articolazione dell'orario di lavoro e l'individuazione dei tempi e dei modi con cui è possibile fruire del diritto alla mensa La Corte di Cassazione ritiene il ricorso infondato e decide pertanto per il rigetto dello stesso, dando continuità ai precedenti costituiti dalla sentenza n. 5547/2021 e dalla ordinanza n. 15629 del 2021. Il percorso argomentativo della decisione in commento prende le mosse dalla considerazione per cui il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore; proprio in considerazione di tale natura il diritto ai buoni pasto è strettamente collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono. I Giudici di legittimità si concentrano dunque sull'art. 29 del CCNL 20 settembre 2001, integrativo del CCNL del 7 aprile 1999, escludendo invece dall'esame l'art. 45 del CCNL 14 settembre 2000, in quanto, come anticipato, afferente ad altro comparto della Pubblica Amministrazione. L'art. 29 afferma tra l'altro il diritto alla mensa di tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell'orario. Viene poi considerata la modificazione della norma contrattuale operata dal CCNL 31 luglio 2009, relativo al biennio economico 2008 – 2009: la riscrittura dell'art. 29 ribadiva che spetta alle aziende istituire il servizio di mensa in relazione al proprio assetto organizzativo ed alle risorse disponibili, precisando altresì come l'onere aziendale in parola ricomprenda la garanzia dell'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive. Diventa allora necessario, secondo la Suprema Corte, indagare quale sia la “particolare articolazione dell'orario” che, secondo il più volte richiamato art. 29, attribuisce il diritto alla mensa ai dipendenti presenti in servizio. A tal proposito viene osservato come l'art. 26 del medesimo CCNL del comparto sanità del 7 aprile 1999 non contenga indicazioni utili, poiché detta disposizione assolve alla diversa funzione di quantificare l'orario di lavoro settimanale (pari a 36 ore settimanali) e di dettare i criteri utili alla determinazione e distribuzione dei turni lavorativi. E' necessario allora focalizzarsi sullo stesso art. 29 ed in particolare sul comma terzo, a mente del quale il pasto “va consumato al di fuori dell'orario di lavoro” ed il tempo impiegato per il consumo del pasto “è rilevato con i normali mezzi di controllo dell'orario e non deve essere superiore a trenta minuti”. Se ne deve derivare che la fruizione del pasto – con il connesso diritto alla mensa od all'equivalente buono pasto – è prevista nell'ambito di un intervallo non lavorato dato che diversamente non potrebbe concepirsi un controllo sulla sua durata; i Giudici di legittimità giungono in tal modo a concludere che la “particolare articolazione dell'orario di lavoro” richiamata dall'art. 29 è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro. Ciò posto, la motivazione sposta la propria attenzione sull'art. 8 del D.lgs. n°66/2003, con cui è stata data attuazione nel nostro ordinamento alle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro. Detta norma prescrive che il lavoratore il cui l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore debba beneficiare di un intervallo per pausa “ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto”. La durata e la modalità di fruizione dell'intervallo debbono essere regolate dalla contrattualistica collettiva ma, in assenza di previsioni in tal senso, lo stesso art. 8 statuisce che la pausa non può durare meno di dieci minuti e deve essere collocata tenendo conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo. La Suprema Corte rileva come anche nelle fonti normative la consumazione del pasto sia collegata alla pausa di lavoro e collocata all'interno della medesima. Tale considerazione porta la Cassazione a qualificare come infondata la tesi di parte ricorrente, secondo cui il diritto alla mensa, pur collegato alla fruizione di una sosta dal lavoro, postulerebbe altresì che l'attività lavorativa venisse prestata “nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto”. Si tratta di una argomentazione non convincente anche perché, come chiosa l'ordinanza in commento, una eventuale volontà delle parti sociali in tal senso avrebbe dovuto essere chiaramente espressa, attraverso “l'indicazione di fasce orarie di lavoro che danno diritto alla mensa”: tali fasce, però, non sono previste dal contratto collettivo applicabile alla fattispecie. La decisione allo studio sottolinea da ultimo come la soluzione esegetica propugnata, secondo cui il diritto alla mensa è legato al diritto alla pausa, sia coerente con i principi già enunciati dalla stessa Suprema Corte con la sentenza n°31137 del 2019, relativa alle previsioni dell'art. 40 del CCNL 28 maggio 2004 del comparto agenzie fiscali. Osservazioni Il carattere assistenziale dell'erogazione dei buoni pasto: uno sguardo ad implicazioni e ricadute Con l'ordinanza in commento la Corte di Cassazione torna ad approfondire le caratteristiche tipiche del buono pasto quale modalità alternativa di godimento del diritto alla mensa ed i presupposti alla base di detta tipologia di erogazione, scegliendo di dare continuità ad interpretazioni già alquanto consolidate. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il buono pasto o, più latamente, il valore dei pasti non rappresenta un elemento della retribuzione bensì una agevolazione di carattere assistenziale. La dazione di cui si discute non è dunque un corrispettivo obbligatorio della prestazione resa dal lavoratore: manca la corrispettività della relativa prestazione rispetto a quella lavorativa e manca un collegamento causale tra la fruizione della mensa (o del buono pasto) ed il lavoro prestato, dunque sussiste un nesso meramente occasionale tra buono pasto e rapporto di lavoro (così si esprimeva già Cass., Sez. Lav., 1° dicembre 1998, n°12168). Naturalmente ciò non significa che il riconoscimento del buono pasto sia un beneficio attribuito senza scopo. L'erogazione del buono in parola rappresenta una modalità di estrinsecazione dell'organizzazione del lavoro, tesa a conciliare le esigenze del ciclo produttivo con quelle – diremmo – fisiologiche del lavoratore. Come notato da Cass., Sez. Lav., 14 luglio 2016, n°14388 e 28 novembre 2019, n°31137, attraverso la dazione del buono – qualora non sia attivo un servizio di mensa e l'orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio – si consente al prestatore di lavoro di fruire del pasto, con attribuzione del relativo onere a carico del datore di lavoro, cosa che garantisce al dipendente il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell'attività lavorativa. Sulla base di tale ricostruzione la Suprema Corte (v. ancora la sentenza n°31137 del 2019) ha ravvisato nel buono pasto un istituto che trova riscontro nella disciplina eurounitaria dell'organizzazione dell'orario di lavoro, in specie nelle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, attuate nel nostro ordinamento con il D.lgs.n. 66/2003; anche detto strumento realizza la promozione del miglioramento dell'ambiente di lavoro, per ciò intendendosi uno sforzo teso a garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori. Proprio il suddetto carattere di occasionalità della corresponsione del buono pasto implica la necessità di individuare quel collegamento con la prestazione lavorativa che costituisce il presupposto dell'erogazione: in tale indagine, come ribadito dall'ordinanza allo studio, la guida più sicura è costituita dalla contrattazione collettiva ed in specie dalle disposizioni in materia di orario di lavoro. Nel caso alla base dell'ordinanza in commento il riferimento contrattuale era rappresentato dal CCNL del comparto sanità ma più in generale, presso la giurisprudenza, si nota come la condizione per l'attribuzione del buono pasto sia costituita dall'effettuazione della pausa pranzo, con la conseguenza per cui occorre verificare quali articolazioni dell'orario lavorativo giornaliero danno accesso alla suddetta tipologia di pausa. In proposito va aggiunto come recenti sentenze di merito (Tribunale Messina, 22 luglio 2023, n°1485; Tribunale Cuneo, 28 marzo 2023, n°140) abbiano chiarito come il diritto del quale si discute non può essere limitato richiedendo presupposti ulteriori (quali, ad esempio, il compimento di turni lavorativi che partono dalla mattina e si prolungano il pomeriggio per l'effettuazione di turni o straordinari) non specificamente richiamati dalla contrattualistica collettiva. E' ben possibile che talune esigenze aziendali possano concorrere a creare una articolazione dell'orario di lavoro tale da non consentire un'interruzione adeguata per la consumazione del pasto. Ma tali circostanze non possono escludere il diritto alla mensa del lavoratore coinvolto; esse al contrario fanno sorgere in capo al datore di lavoro l'obbligo di attivarsi per garantire l'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive, cioè appunto attraverso i buoni pasto. La particolare natura del buono pasto, che come si è visto non può essere considerato un elemento integrativo della retribuzione, reca con sé altre numerose implicazioni, che la giurisprudenza di merito e di legittimità non ha mancato di indagare. Una prima ricaduta, di natura previdenziale, consiste nella esclusione dei buoni pasto dalla base imponibile per il computo dei contributi, affermata del resto anche dall'art. 17 del D.lgs.30 dicembre 1992, n°503 (cfr. Cass., sez. lav., 17 luglio 2003, n°11212, e Cass., sez. lav., 1° luglio 2005, n°14047). Ancora, è interessante la riflessione eseguita da Trib. Venezia con la sentenza 15 dicembre 2021, n.°757, a proposito dell'art. 29 del D.lgs.10 settembre 2003, n°276, norma che sancisce la responsabilità solidale in favore del lavoratore tra il committente imprenditore o datore di lavoro e l'appaltatore (e gli eventuali subappaltatori) con riguardo ai “trattamenti retributivi… dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto”. La necessità di interpretare rigidamente la disposizione appena richiamata comporta che nella locuzione “trattamenti retributivi” debbano essere ricompresi solo gli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti e che hanno natura eminentemente retributiva, ciò da cui ne discende l'esclusione del valore dei buoni pasto. Per la sicura attualità della tematica sembra poi interessante richiamare altresì un'altra recente pronunzia del Tribunale di Venezia, la sentenza 8 luglio 2020, n°3463. Anche alla base della decisione da ultimo richiamata vi era un caso di mancato riconoscimento di buoni pasto; in particolare, la parte datoriale aveva negato l'erogazione di detto strumento ad alcuni lavoratori collocati in smart working, senza previamente consultare sul punto le organizzazioni sindacali. Ed anche in questo caso la soluzione della vertenza è passata dalla ponderazione del carattere non retributivo del buono pasto e dalla considerazione dell'articolazione giornaliera dell'orario di lavoro dei dipendenti. In particolare, nel giungere ad affermare l'incompatibilità tra il cd. lavoro agile ed il buono pasto il Giudice veneziano, con un argomentare che è ben possibile sovrapporre a quello dell'ordinanza in commento, evidenzia come la maturazione di questo trattamento sia connessa all'organizzazione dell'orario di lavoro secondo specifiche scadenze orarie ed alla consumazione dei pasti al di fuori dell'orario di lavoro; viceversa, quando la prestazione lavorativa è resa “da remoto”, i presupposti per il riconoscimento del buono pasto non vengono ad esistenza, dato che il lavoratore è libero di organizzare come meglio ritiene la propria attività sotto il profilo della collocazione temporale. La conclusione così raggiunta non può poi essere posta nel nulla dalla considerazione per cui l'art. 20 della Legge n°81 del 2017, nel disciplinare il lavoro agile, prevede che il lavoratore in smart working abbia diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le proprie mansioni “in presenza”, all'interno dell'azienda. Occorre infatti sempre tenere a mente il costante insegnamento dei Giudici di legittimità per cui il buono pasto non è un elemento della retribuzione ma una agevolazione solo occasionalmente legata al rapporto di lavoro. Sicché, ove il ridetto legame non sia concretamente sussistente, si deve ribadire che i buoni pasto non rientrano nella nozione di trattamento economico e normativo, da riconoscere in ogni caso al lavoratore in smart working ai sensi dell'art. 20 della L. n°81 del 2017. La decisione da ultimo richiamata – emessa, vale la pena di sottolinearlo, in un momento in cui il ricorso allo smart working rappresentava una dolorosa necessità, vista la contingente emergenza sanitaria cagionata dalla diffusione del virus Sars-Cov-2 – non ha invero mancato di suscitare perplessità presso la dottrina. Si è notato, tra l'altro, come il lavoratore “da remoto” non sia totalmente libero di organizzare la propria prestazione e che dunque anche con riguardo a tali modalità di lavoro si ponga il problema della misurazione della durata della giornata lavorativa e, quindi, dei limiti della medesima. Ed è stato anche rilevato come la locuzione “trattamento economico e normativo” impiegata dalla Legge del 2017, dotata con tutta evidenza di una portata più ampia di un riferimento al trattamento retributivo, avrebbe dovuto suggerire di impostare la comparazione tra lavoratori “in presenza” e lavoratori “da remoto” non solo sulle voci retributive ma anche su ogni altra prestazione economica oltre che sulle condizioni di lavoro. Per una più approfondita disamina della sentenza del Tribunale di Venezia si rimanda ai contributi dottrinali riportati nella successiva sezione. Pur essendo decisamente interessanti le riflessioni tese a ripensare la natura assistenziale del buono pasto ed a affermare la piena riconducibilità al rapporto lavorativo di tale erogazione, pur sempre collegata alla generale organizzazione del lavoro, occorre notare come la giurisprudenza, anche di legittimità, non pare per il momento propensa a fare propri tali spunti. L'ordinanza in commento lo dimostra, testimoniando la perdurante vitalità di un orientamento interpretativo ormai risalente. Giurisprudenza:
Dottrina:
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